Alice Rohrwacher e le sue “Meraviglie”. Un’italiana vince il Gran Prix a Cannes
Alice Rohrwacher è la regista dell’unica opera cinematografica italiana in concorso al festival di Cannes. “Le meraviglie” è un film che racconta della campagna, dell’amore un po’ bizzarro tra un padre e le sue figlie, di figli maschi mancati, di animali e fate che abitano nella televisione. È un film che è accaduto dopo il sessantotto. È un film dove si parla in viterbese ma quando ci si arrabbia si risponde in francese e tedesco. È anche una fiaba.
Ospitiamo con grande piacere questo pezzo di Alice Rohrwacher e ringraziamo gli amici de “Lo Straniero” (sul cui ultimo numero, interessante come sempre, è originariamente pubblicato) per averci dato la possibilità di condividerlo con i lettori di m&m. E Alice: in bocca al lupo per Cannes! (Foto: Simona Pampallona)
Alice Rohrwacher
il paesaggio
Arriva sempre il momento in cui qualcuno ti chiede da dove vieni. Vorrei tanto rispondere con una sola parola, come “Roma!”, “Milano!”, ma invece mi ritrovo a spiegare che vengo da una zona di confine tra Umbria-Lazio e Toscana, là dove le identità sono tutte sfaldate, in campagna. Forse il mio interlocutore conosce quei luoghi? Ma certo, mi dice, certo: sono stato a Civita la scorsa domenica e mi è sembrato di vivere nel medioevo per una giornata.
Ecco, questo è stato il primo istinto che mi ha spinto a lavorare sulle “Meraviglie”: il disagio che si pensi alla campagna, o ai piccoli paesi che la costellano, come luoghi “puri”, fuori dal tempo, e quindi fruibili, perché non possono mai mutare. Ma visti dal di dentro (o forse visti lateralmente), quei luoghi non sono così, e la purezza è solo una prigione a cui si sono consegnati per avere in cambio un pasto caldo al giorno.
In Italia oggi si parla della campagna solo per raccontarne la distruzione e l’imminente rovina, o per usarla come sfondo romantico e innocente di storie che poco la riguardano. Eppure quello che sta avvenendo nel paesaggio italiano è un cambiamento molto più profondo e doloroso.
La lunga lotta per la terra, quel teatro millenario di scontri tra proprietari e lavoratori, non si è risolta, si è solo allontanata, sbiadita. Il campo di battaglia è stato lasciato libero e sono arrivati gli sciacalli. Prima hanno dato fuoco a tutto quello che incontravano sul cammino, poi hanno arraffato quei pochi spazi di risulta rimasti più o meno intatti, e li hanno trasformati in uno strabiliante parco tematico per rassicurare le nostre domeniche. Una specie di museo all’aria aperta.
Vivere nel medioevo per una giornata: ecco la politica territoriale che è stata portata avanti negli ultimi vent’anni, con metodo.
Prima si è cercato di distruggere tutto ciò che era cultura – le piazze, le siepi, le biblioteche e i piccoli cinema, i teatri di provincia, i circoli e tutti i luoghi di ritrovo e di scambio – per poi trasformare in cultura tutto quello che restava, tutto quello che era innocuo: il mangiare (a bocca piena si parla meno) e il passato remoto (che pericolo ci può essere nel teatro etrusco?).
All’improvviso tutti si sono ricordati di avere UNA tradizione, e si sono dedicati a quella con tutte le loro forze. Ma la tradizione non si può estrapolare, è fatta di strati, e spesso è solo l’ultima manifestazione di un processo di mutamento. Non è piatta, è come un pozzo. Non si può salvare e proteggere solo uno strato.
Insomma, ho iniziato a girare nella mia regione, a incontrare contadini, imprenditori agricoli, paesani. Ho iniziato a chiedermi: se venissero gli extraterrestri, cosa capirebbero di questo posto? Può essere la sagra l’unica cosa che resta di un paese quasi completamente agricolo? Cosa significa abitare in questo paesaggio, esserne parte, arginare la commercializzazione da un lato e le difficoltà ambientali dall’altro? Esiste un immagine che può sintetizzare tutto questo?
la famiglia, nonostante tutto
Per poter trovare un’immagine pura, abbiamo bisogno di un punto di vista, che deve necessariamente essere ibrido. E di una casa, naturalmente. E di una famiglia che ci è andata ad abitare.
La casa che abbiamo scelto per il film c’era da prima, c’è sempre stata. È una casa dove ci sono delle parti antichissime e delle parti più recenti, perché nessuno l’ha mai ristrutturata secondo lo stile di un’unica epoca. Fino a poco tempo fa vivere così era normale: si entrava a fare parte di una storia che ci precedeva, che non si poteva controllare fino in fondo. Gli spifferi venivano riparati con della gommapiuma, le mattonelle sostituite là dove necessario, ma ci si adattava ad un mondo già esistente. Solo le ultime generazioni hanno desiderato dare un unico piano di interpretazione del luogo dove si abita, antico o moderno che sia.
Non è stato semplice trovare la casa in cui girare il film: tutti i luoghi che vedevamo erano o distrutti dalle intemperie, o troppo ristrutturati. In macchina con noi, durante questi pellegrinaggi, avevamo il bellissimo libro di Roberto Innocenti ” la casa del tempo”, che in qualche modo ci ha guidato.
La famiglia della nostra storia invece non c’era da prima, non appartiene a quella regione, e neanche sapeva all’inizio di essere una famiglia. Sono persone che sono arrivate in campagna per una scelta politica, perché nelle città non c’era più posto, e anni di manifestazioni sono stati soffocati dalla violenza e dalla delusione. Così hanno letto dei libri, hanno imparato a fare l’orto su dei manuali, hanno cercato parecchio e hanno combattuto le stagioni in solitudine. Sono tutti “ex” qualcosa, con lingue diverse, passati lontani ma ideali comuni.
Io ne ho conosciute molte di famiglie così, in Italia ma anche in Francia, in Grecia. Piccoli sistemi sganciati dal resto, con regole autonome e una vita parallela a quella che leggiamo sui giornali. Ma non è una vita semplice: bisogna lavorare tanto, ed è difficile sopravvivere senza il conforto di appartenere a un movimento. Non si è dei veri contadini perché non si viene dalla terra, ma non ci si può neanche definire cittadini perché si sono tagliati i ponti con le città, non si è hippies perché ci si spacca la schiena dalla mattina alla sera, ma non si è neanche imprenditori agricoli perché ci si rifiuta di usare tecniche più produttive di coltivazione, in nome di una vita sana. Non essendoci un movimento, una definizione con cui ci si possa chiamare da fuori, ecco che resta solo una parola: famiglia. Proprio quella che nel sessantotto tanti volevano spaccare, ora è la loro arca di Noè, è il loro unico riparo. Loro sono una famiglia.
La famiglia delle “Meraviglie” è formata da Wolfgang, il padre che viene da un paese del nord, forse dal Belgio o dalla Germania, e Angelica, la madre italiana. Hanno quattro bambine: Gelsomina, la primogenita, Marinella, Caterina e Luna. Hanno un orto, un’ospite fissa, Cocò, pecore e api. Cosa ci fanno lì?
La risposta è quasi imbarazzante ma è vera: vogliono proteggere le bambine. Da qualcosa che sanno, che hanno visto, perché tutto è sfracelo e distruzione e corruzione, e solo la campagna ti può salvare. Solo restando uniti. Le loro intenzioni sono sincere, anche se a volte si esprimono in maniera rabbiosa. Ma come spiegarlo a Gelsomina, la primogenita, la principessa ereditaria, l’amore del babbo? Lei vorrebbe una vita più semplice, più abbinata e serena, una famiglia con meno ideali e più saggezza come quella delle sue amiche. Wolfgang sente che la figlia in cui ripone tutto, quella figlia che è più brava di lui a lavorare con le api, che è solida e responsabile, le sta sfuggendo. Ma se le bambine se ne vogliono andare – a Milano? In Florida? - allora che senso ha tutta questa fatica?
il paese delle meraviglie
La meraviglia è qualcosa che ci toglie la parola, ci rende impossibile l’espressione, la cerniera tra il mondo terreno e quello ultraterreno. Ma esattamente come la parola “tradizione”, anche la meraviglia negli ultimi tempi è divenuta una parola di facile scambio, associata spesso a promesse di grandi emozioni, meravigliose appunto.
In questo film ci sono piccole meraviglie, fatte di luci, ombre, animali e segreti di bambine, e poi ci sono le grandi meraviglie, quelle legate all’apparizione di Milly Catena, la presentatrice di un concorso a premi che promette di fare rivivere come c’era una volta.
Abbiamo provato a raccontare una televisione al tempo stesso reale e fiabesca, innocente, una televisione pre-analitica. Abbiamo deciso di ignorare tutta la storia degli ultimi vent’anni, tutto quello che abbiamo visto, letto, e cercato di raccontare la trasmissione televisiva come se fosse un’astronave senza passato che arriva nelle campagne dell’Etruria. Perché violento è il mezzo televisivo quasi più della sua storia.
C’è una presentatrice donna, una dea bianca, e una troupe di uomini vestiti di nero. Li incontriamo nel bosco, e Gelsomina ne è incantata.
Appena si entra nella scatola televisiva, la lente trasforma le persone, le abbrutisce e le esalta: vero è ciò che è efficace, ciò che può essere sintetizzato in uno slogan di poche battute. Il contadino Portarena che partecipa al concorso televisivo dice poche frasi, che abbiamo già sentito milioni di volte, ma funziona. È un animale da palcoscenico. Wolfgang invece vorrebbe dire troppo, e si confonde. Non c’è contenitore per lui, lui non funziona. Ma forse non funzionare vuol dire anche essere liberi, non poter essere chiusi in quella scatola dove le prime vittime sono quelli che l’hanno inventata.
“Le meraviglie” camminano su questo filo, tra un paesaggio che cambia, un concorso televisivo e una famiglia senza luogo. È un film che racconta probabilmente un grande fallimento. Le persone non cambiano, non migliorano, se non hanno posto all’inizio non lo troveranno alla fine. Non ci sono buoni e cattivi. Ci sono solo persone più esposte e persone che scavano tane. Spesso quelli che si espongono, falliscono.
Ma riuscire a provare tenerezza per se stessi e per il proprio fallimento è una via di felicità.
un film
Ancora un film? E perché? Ma ne abbiamo davvero bisogno?
“Ci sono cose che esistono ma si trasformano in nulla se si studiano, se vengono estrapolati dalla loro materia, le meduse, i sogni.” In un epoca dove tutto è analizzabile, dove i brutti sogni diventano malattie, dove le molecole si dividono all’infinito e la politica si trasforma in una specie di psicoterapia di massa, io credo ci sia bisogno di sintesi, di meduse. E i film possono esserlo.
Possono, ma è un percorso difficile perché è pieno di trabocchetti - come per esempio perdersi alla ricerca di una storia che funzioni meglio di altre, o ricattare il pubblico cavalcando le sue sciagure, o rincitrullirlo tempestandolo di forti emozioni – e c’è bisogno di tanta attenzione.
Nella nostra storia la famiglia di Gelsomina fa il miele, e siamo sicuri che sia un miele buonissimo, ma il loro laboratorio, il modo in cui lavorano è completamente illegale: le mura non sono disinfettabili, manca un tombino sifonato, il bagno con l’antibagno. E che dire poi della manodopera minorile? Insomma, quello che loro fanno è buono, ma se andiamo a vedere da vicino non rispettano nessuna legge e potremmo davvero sbatterli in prigione.
Una cosa simile accade anche nel nostro lavoro, e spesso i buoni film non possono rispettare tutte le leggi narrative e produttive. Certo, c’è il rischio che gli spettatori, un po’ come i NAS, ti facciano chiudere. Ma io credo che prima di pensare a quanto miele vendere, bisogna chiedersi se è buono, soprattutto se lo possiamo dare da mangiare ai nostri bambini.
Da: http://www.minimaetmoralia.it/wp/alice-rohrwacher-e-le-meraviglie-a-cannes/
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