Il Corriere ripropone
ai suoi lettori “La tregua” di Primo Levi, la storia di un lungo
viaggio da Auschwitz all’Italia attraverso un continente distrutto
dalla guerra. Levi ne trarrà la lezione che «la guerra è sempre»,
che c'è da combattere ogni giorno, che non si deve arrendersi mai
perchè la barbarie è sempre dietro l'angolo. Una lezione
attualissima oggi, in un'Europa attraversata da tentazioni
autoritarie, populiste e xenofobe. Proprio riprendendo Levi crediamo
che un'altra Europa sia possibile e il 25 maggio sia l'occasione per
dimostrarlo. Per questo voteremo Tsipras.
Liliana
Picciotto
Levi, se questo
è un viaggio
Quando Primo Levi dice al
suo nuovo improbabile compagno di viaggio, il greco di Salonicco
Mordo Nahum, «Ma la guerra è finita», l’altro gli risponde,
memorabilmente: «Guerra è sempre». «La guerre n’est pas finie
», gli ripeterà poco dopo a Katowice un avvocato polacco, che gli
si era fatto incontro, con il suo francese e il suo cappello di
feltro, in mezzo ad un capannello di operai del luogo, formatosi
incuriosito intorno all’ex deportato liberato. Primo gli parlò
vertiginosamente di quello che gli era successo, della sua vita ad
Auschwitz, così vicino alla città di Katowice, ma apparentemente a
tutti sconosciuto. Levi, che non sapeva il polacco, capì ugualmente
che l’uomo lo descriveva al pubblico non come ebreo italiano, ma
come prigioniero politico italiano. Quando gliene chiese conto,
stupito e quasi offeso, quello gli rispose imbarazzato, appunto: «La
guerre n’est pas finie».
Capiamo, allora, che
cosa Primo ha voluto dire con quel titolo La tregua messo al suo
magistrale libro, scritto tra il dicembre del 1961 e il novembre del
1962. Un libro che cattura l’attenzione, da cui una volta iniziato,
è difficile staccarsi. Levi racconta il suo viaggio di ritorno in
Italia dopo la prigionia alla Buna, inizialmente convinto di
intraprendere un viaggio soteriologico, dove lasciarsi indietro la
fine delle brutture della guerra e recuperare il sentore di essere
uomo, di sentirsi vivo e uguale agli altri. Lungo il viaggio invece
si accorge che quella che sta sperimentando è soltanto una tregua:
tregua dalla sofferenza, dalla rovina, dallo stravolgimento di ogni
senso, dal male ricevuto e inferto. Durante questo percorso, egli
mette in gioco un’intera visione della vita.
Non rileggevo questo libro da 50 anni, da quando me lo dettero da studiare in terza media. Errore fatale dei miei insegnanti. Non ne potevo cogliere allora la potenza visionaria. Durante il suo viaggio, Primo ci parla di ogni cosa che riguarda l’uomo: la fame incontrollata (in buona parte psicologica), l’energica coscienza morale dei combattenti politici, il senso ancestrale dell’esilio del suo popolo ebraico, il bisogno, così primordiale, dei contatti umani, la speranza di un mondo diritto e giusto, la gioia di vivere che Auschwitz aveva spenta, la pazienza virile che ha sostenuto fino alla fine i sopravvissuti, «la dignità di chi lavora e sa perché, di chi combatte e sa di avere ragione».
Il suo viaggio è popolato da decine di persone che egli fa diventare personaggi per parlare delle debolezze e delle virtù dell’uomo, così scoperte come possono diventare nei momenti di emergenza e incertezza, quando corre l’obbligo di trovare espedienti per poter dormire, mangiare, viaggiare in una Europa devastata. Primo e i suoi compagni devono affrontare decine di insormontabili problemi: dal migliaio e mezzo di chilometri da percorrere senza soldi alla mancanza di una lingua comprensibile, dalle molte frontiere da attraversare senza documenti al freddo intenso provato sui mezzi di locomozione di fortuna. Sono sostenuti solo dal sogno di poter recuperare una dimensione umana in cui riposarsi dall’insensato sradicamento subito.
Levi incontra, nei nove mesi che lo separano dal rimpatrio, un mondo ramingo e variopinto fatto di ex militari dell’Armir, ex deportati ad Auschwitz, ex lavoratori della Todt, rei comuni, prostitute, soldati russi in disarmo. È un romanzo a suo modo epico che può essere a giusto titolo avvicinato all’Armata a cavallo di Isaak Babel, del 1926. Non mancano frangenti che sfiorano il comico come quando una guardia russa, senza tante storie, mette in mano a Levi, che sta a malapena in piedi dopo la scarlattina, una pala e gli ordina di spalare la neve. Lui ha un attimo di incertezza, non è in grado di affrontare quella fatica, se riesce a girare l’angolo nessuno lo vedrebbe e potrebbe andarsene tranquillo, ma come sbarazzarsi della pala? Venderla? Nasconderla? Portarsela dietro? Alla fine, la lascia cadere nella finestrella di una cantina e si ritrova libero.
Un’altra volta, in società con il greco Mordo, si ritrova al mercato di Cracovia a vendere una camicia, procurata chissà come nel lager. Il suo contributo consiste nel mettere in mostra e decantare la merce in un polacco stentato: «Camicia, signori, camicia». Un’altra volta, nella piazza del mercato di Katowice, si mette a vendere assieme al suo amico del lager, Cesare, una camicia bucata. La situazione è paradossale, Cesare è un ambulante del ghetto di Roma, non sa nessuna lingua, si mette a gesticolare e sventolare la merce tenendola per il colletto dove è il buco, ne proclama le doti con eloquenza torrenziale, con inserti e divagazioni insulse, apostrofando il pubblico con osceni nomignoli romaneschi. Dopo finita la contrattazione e venduta la merce ad un panzone, Primo e Cesare se la diedero a gambe (fecero resciudde , così si dice in giudeoromanesco).
Un’altra volta, con l’inseparabile compagno, entra in uno sperduto villaggio russo per barattare sei piatti, trascinati per chilometri in un sacco, con una gallina. Seguono scene esilaranti in cui Cesare cerca di farsi capire dai perplessi contadini mimando coccodè (suono per nulla universale che circola esclusivamente in Italia) e facendo mosse di covare un uovo. I contadini li prendono per matti, stanno minacciosamente per mandarli via quando a Primo viene in mente di disegnare per terra la sagoma di una gallina da cui esce un uovo. L’impresa è così felicemente conclusa.
Levi, per tornare nella sua Torino, percorre mezza Europa: dalla Polonia alla Russia, dalla Romania all’Ungheria, dalla Cecoslovacchia all’Austria, dalla Germania di nuovo all’Austria e finalmente, all’Italia. Nel viaggio, a piedi, su carretti o su tradotte militari, attraversa steppe deserte, foreste, piane grandiose, villaggi bui e sperduti, città semidistrutte, fiumi lenti e maestosi, stagni e paludi, cittadine diroccate. Dovunque, bivaccano migliaia di displaced persons in transito o in cerca di un rimpatrio, appartenenti a tutte le nazioni d’Europa. Incontra greci, francesi, italiani, iugoslavi, belgi, russi, polacchi, ungheresi, slovacchi, donne ucraine andate volontarie in Germania e rimpatriate in Russia tra il disprezzo generale.
È il contrario dell’Europa dei popoli come la pensiamo noi oggi. È solo una collettività disgregata, descritta magnificamente da un grande umanista, con piglio ora indulgente, ora ammirato, ora divertito, sempre vigile e attento, non sopraffatto dalla rabbia. Mai sguardo più lucido fu posato sull’Europa disfatta, disgregata, oltraggiata e ci viene in mente che mai come leggendo La tregua la necessità di una Europa dai valori condivisi appare più attuale.
Il Corriere della sera -
19 maggio 2014
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