Ambiguità e rischi
del regalo. Ma proprio qui sta il carattere sovversivo del dono come
gesto gratuito. Non a caso i giovani lettristi rivoluzionari
chiamarono Potlach la loro rivista.
Matteo Aria e
Adriano Favole
Il cavallo
di Troia svela che il dono non è (sempre) un beneficio
Immaginate di ricevere un
regalo da una persona che conoscete a malapena. È il vostro
compleanno e, complice Facebook che spiffera tutto a tutti, quella
persona vi porta in regalo un’ottima marmellata autoprodotta di
piccoli frutti raccolti nel bosco. Che fate? Avete davanti un paio di
possibilità: potete per esempio rifiutare il dono, perché quella
persona non vi va a genio. Si tratta di un gesto forte, che tronca la
relazione e certo non vi renderà amici. La seconda possibilità è
accettare il dono con un sorriso, invitare il vostro nuovo amico a
bere un bicchiere e, alla prima occasione, ridonare a vostra volta.
Sono passati novant’anni da quando Marcel Mauss, antropologo francese nipote del più famoso Émile Durkheim, scrisse un libro che rappresenta una pietra miliare degli studi antropologici, il Saggio sul dono (Einaudi, 2002, edizione originale 1923-24). Mauss scoprì che numerose società studiate dagli antropologi all’inizio del Novecento scambiavano per lo più beni e servizi attraverso la logica del «dono», quella forza che crea il legame sociale e che ci fa sentire obbligati (pur essendo in teoria liberi di non farlo) a dare, ricevere e ricambiare.
Se l’essere umano
agisse solo per interesse egoistico, pensava Mauss, non si
spiegherebbe perché, ricevendo un dono, ci sentiamo obbligati a
ricambiare o comunque ci sentiamo vincolati da un debito. Il dono era
la migliore risposta all’interrogativo che Durkheim aveva posto ai
suoi allievi sull’origine della solidarietà sociale. Mauss
riteneva che, purtroppo, la logica del dono svolgesse ormai un ruolo
residuale in Occidente.
In realtà, gli studi compiuti a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, soprattutto nell’ambito di un gruppo di ricerca francese che si è auto-definito con la sigla Mauss (Movimento anti-utilitarista nelle scienze sociali), hanno mostrato viceversa la grande rilevanza del dono nelle società e nelle economie contemporanee (Jacques Godbout, Lo spirito del dono , Bollati Boringhieri, 2002). Dal volontariato al dono del sangue; dai servizi alla persona in famiglia che integrano o suppliscono uno Stato sociale sempre più in crisi ai legami di amicizia e vicinato; dal mecenatismo alle varie forme di solidarietà sociale: sono molteplici i fenomeni riconducibili alla logica del dono piuttosto che a quella del mercato (o dello Stato).
A novant’anni, tuttavia, il «dono» di Mauss comincia a dare segni di invecchiamento. In primo luogo, esso non ritaglia necessariamente un’area di buoni sentimenti. Il cavallo di Troia, la mela di Eva, il vaso di Pandora ci ricordano che il dono può essere un’esca avvelenata. Molto più prosaicamente, le mazzette, i favoritismi, il clientelismo mettono in luce gli aspetti ambivalenti del dono. Il dono esagerato, il dono che non si può ricambiare crea gerarchie.
Come diceva George
Bataille, lo spreco, l’ostentazione, la dépense , il noblesse
oblige sono spesso l’estrema affermazione del sé. C’è poi, da
Mauss in avanti, uno snodo teorico irrisolto: il dono crea relazioni
attraverso lo scambio , è un motore che lavora su tre livelli (dare,
ricevere, ricambiare). Parlare di dono come pura spontaneità e
gratuità, di «dono senza contraccambio» (come fa Enzo Bianchi nel
suo ultimo libro, Dono e perdono , edito da Einaudi) è
maussianamente un non-senso.
Per ovviare a queste aporie teoriche, ma soprattutto per dar conto di quelle piegature di realtà che sfuggono alla presa del dono, è opportuno, a nostro parere, introdurre il concetto di «condivisione». Qualche esempio ci è di aiuto. Il tavolo della cucina su cui mangiamo insieme ai nostri figli o compagni di vita non è un dono, è uno spazio di condivisione. Il frigorifero racchiude cibi che vengono condivisi, non donati ai figli (i quali infatti, generalmente, non dicono «grazie» a ogni portata!). Come osserva Russell Belk, uno studioso americano di consumi che è stato tra i primi a proporre la distinzione teorica tra dono e condivisione (Sharing , pubblicato nel 2010 sul «Journal of Consumer Research»), il fenomeno prototipico della condivisione è la maternità. Due esseri umani condividono per vari mesi lo stesso corpo.
La condivisione ha a che fare con tutte quelle situazioni in cui vi è un «io» diffuso, con quel senso di compartecipazione che crea un «noi». Un’intera famiglia di termini in italiano, la famiglia del «con-» (convivere, convivialità, consenso…), rientra in questa prospettiva. La condivisione è il «fare insieme», l’agire insieme, il convivere in cui ci si svincola (anche solo temporalmente) dal possesso e dalla gerarchia. Una festa, un pellegrinaggio, molti riti aprono spazi di condivisione in cui non necessariamente opera la logica del dono. Possiamo forse ipotizzare, a rettifica delle proposte di Jacques Godbout e di Alain Caillé (Anthropologie du don , Desclée de Brouwer, 2000) che famiglia e parentela non siano aree esclusive del dono, ma anche della condivisione. La condivisione insomma non è un dono!
Condivisione, dono, scambio di mercato definiscono allora tre diverse modalità dell’interazione umana, anche se, a ben vedere, molti fenomeni occupano un’area di confine e di soglia tra essi. La condivisione, viene però da chiedersi, ci lega in modo nostalgico alla piccola comunità? È un concetto «buono» da pensare solo per la famiglia, la parentela, il vicinato? È destinata a scomparire nei grandi numeri che caratterizzano la società globale? Intanto è utile distinguere tra beni pubblici e beni condivisi.
I primi rappresentano una
sorta di cornice, di garanzia per le pratiche di condivisione. Un
bosco demaniale è un bene collettivo, ma diventa un bene condiviso
solo se andiamo a farci una passeggiata. Una piazza è un bene
pubblico, ma diventa condiviso nel corso di una manifestazione. Una
costituzione, una buona legge elettorale sono beni comuni che
diventano «democrazia condivisa» quando si moltiplicano le
occasioni e gli spazi di discussione, confronto e deliberazione.
La condivisione è
inevitabilmente legata a gruppi ristretti, ma si tratta di una
esperienza che può essere incrementata e può diffondersi in mille
rivoli. Si possono creare comunità di condivisione in famiglia, ma
anche sul luogo di lavoro; nelle attività di volontariato come negli
spazi del tempo liberato per lo sport e il gioco. Facendo il verso a
Lev Trotsky, potremmo forse osservare che i tempi di crisi che
viviamo sono forse propizi per lanciare l’idea di una «condivisione
permanente».
Il Corriere della sera/La
Lettura – 18 maggio 2014
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