Giuseppe Berta -
Un saggio per capire
.
La civiltà
contemporanea è sempre più fondata su una base urbana. Sono le città a
scandire le nuove prospettive di sviluppo. Ne fornisce una conferma
eloquente il libro di un economista, Enrico Moretti, che viene già
considerato fra gli studi più importanti usciti quest’anno (“La nuova geografia del lavoro”,
Mondadori). Moretti, un bocconiano che oggi insegna all’università
californiana di Berkeley, spiega in pagine penetranti che il reddito e
la qualità del lavoro sono determinati in larga parte dall’area in cui
viviamo. Non è vero dunque che “il mondo è piatto” e che la
globalizzazione renda tutto livellato e omogeneo. Le ricerche dimostrano
semmai il contrario, che la vera differenza passa tra i centri ad alta
intensità di conoscenza e di innovazione e quelli dove c’è meno
istruzione. Nel futuro sarà ancora di più così, perché stando accanto a
persone qualificate si potenziano le nostre capacità e il nostro
potenziale.
La storia
d’Italia sotto il segno del declino: questo il senso della rilettura che
della vicenda repubblicana propongono Giuliano Amato e Andrea Graziosi
in un libro scandito dalle cifre (“Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia”,
Il Mulino). Una ricostruzione che non fa sconti, improntata com’è a un
forte senso della realtà e del presente effettivo dell’Italia, con
l’invito a liberarsi di quelle illusioni che hanno rallentato la presa
di consapevolezza della natura e della portata dei problemi. Il libro
traccia un profilo impietoso di sette decenni di storia, in cui le ombre
finiscono col prevalere sulle luci. Certo, l’Italia ha saputo rendersi
capace di una trasformazione che nessuno aveva previsto, ma l’ha fatto
senza rendersi conto degli ostacoli crescenti che doveva incontrare sul
suo cammino. Oggi la sua è la condizione di un Paese declinante
all’intemo di un continente, l’Europa, anch’esso in rapido declino.
Uscito
appena prima delle elezioni politiche dello scorso inverno, il saggio
che Marco Revelii ha dedicato alla caduta dei partiti (“Finale di partito”,
Einaudi) ha assunto quasi un tono profetico. La sua è una diagnosi
spietata, che non lascia speranza ai partiti, eternamente protesi a
parlare del loro improbabile rinnovamento. La forza dell’argomentazione
di Revelli sta in un’analogia: i grandi partiti organizzati stavano alla
politica così come le grandi imprese fordiste stavano all’economia. Non
solo: gli uni e le altre appartenevano a un’epoca storica che non è
quella in cui viviamo. Ma se i partiti che conosciamo sono privi di
futuro, che ne sarà la democrazia? Siamo ormai entrati in un’epoca
post-democratica dominata dalle oligarchie? O invece è ancora possibile
rivitalizzare lo spazio democratico? Dipende dalla piega che prenderà la
crisi di fiducia che vive la nostra soceità.
I giornali attraversano uno dei momenti peggiori della loro storia,
incalzati da una crisi che mette in questione la loro continuità. Ma in
Italia la crisi dei giornali ha anche un altro, più specifico aspetto,
che dipende dal ruolo anomalo che essi giocano sulla scacchiere
politico. Infatti, nel nostro Paese il giornalismo è una manifestazione
della lotta politica, come dice esplicitamente Giuliano Ferrara. Una
dimensione ben illuminata dalla ricognizione che due collaboratori del
“Financial Times”, l’italiano Ferdinando Giugliano e l’inglese John
Uoyd, dedicano ai nostri media (“Eserciti di carta. Come si fa informazione in Italia”,
Feltrinelli), adottando un acuto sguardo critico. Dall’analisi degli
stili di comunicazione come dalle interviste di direttori di testate,
traspare il profilo di un’opinione pubblica incerta e combattuta, che
deve riscoprire il proprio ruolo.
Ezio
Tarantelli venne ucciso dalle Brigate Rosse nel 1985 a causa delle sue
proposte di riforma del meccanismo della scala mobile, che allora
condizionava la dinamica dell’inflazione e dei redditi.Tarantelli era un
economista quarantenne di straordinario talento che aveva lavorato alla
Banca d’Italia e studiato a Mit di Boston. Coltivava l’intento di
conciliare il rigore econometrico dei suoi studi di econometria con la
passione civile che lo portava a collaborare con le organizzazioni
sindacali e il mondo del lavoro. Lo ricorda il figlio Luca Tarantelli,
bambino all’epoca dell’attentato, con un libro (“Il sogno che uccise mio padre. Storia di Ezio Tarantelli che voleva lavoro per tutti ”,
Rizzoli) che si distingue dalle altre testimonianze sulle vittime del
terrorismo. Qui è l’impegno riformatore di Tarantelli a costituire il
centro del racconto, che si snoda attraverso le testimonianze di amici e
collaboratori, evocando una stagione in cui ancora politica e
competenza potevano essere complementari.
I ruoli
lavorativi non sono più codificati rigidamente e sta cadendo il
principio basilare del taylorismo, quello che prescriveva una netta
separazione fra chi il lavoro lo progetta e chi lo esegue. Anche per
questo Chris Anderson, giornalista e scrittore che a lungo ha diretto la
rivista “Wired”, parla degli artefici della nuova rivoluzione
industriale ripristinando l’immagine antica del «produttore» (“Makers. Il ritorno dei produttori. Per una nuova rivoluzione industriale”,
Rizzoli Etas). L’elemento di maggiore novità è che tutti possiamo
diventare o ritornare produttori. A patto di saper lavorare con
sicurezza sul computer e soprattutto di saperlo collegare a una
stampante a tre dimensioni. Anderson spiega infatti che questa è la
macchina-simbolo della nuova rivoluzione industriale, la stampante in
grado di replicare oggetti o parti di un oggetto, esattamente come la
vecchia stampante bidimensionale elabora e riproduce la pagina di un
documento o di un libro.
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