18 maggio 2014

PER CAPIRE IL PRESENTE








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Giuseppe Berta -
Un saggio per capire
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La civiltà contemporanea è sempre più fondata su una base urbana. Sono le città a scandire le nuove prospettive di sviluppo. Ne fornisce una conferma eloquente il libro di un economista, Enrico Moretti, che viene già considerato fra gli studi più importanti usciti quest’anno (“La nuova geografia del lavoro”, Mondadori). Moretti, un bocconiano che oggi insegna all’università californiana di Berkeley, spiega in pagine penetranti che il reddito e la qualità del lavoro sono determinati in larga parte dall’area in cui viviamo. Non è vero dunque che “il mondo è piatto” e che la globalizzazione renda tutto livellato e omogeneo. Le ricerche dimostrano semmai il contrario, che la vera differenza passa tra i centri ad alta intensità di conoscenza e di innovazione e quelli dove c’è meno istruzione. Nel futuro sarà ancora di più così, perché stando accanto a persone qualificate si potenziano le nostre capacità e il nostro potenziale.
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La storia d’Italia sotto il segno del declino: questo il senso della rilettura che della vicenda repubblicana propongono Giuliano Amato e Andrea Graziosi in un libro scandito dalle cifre (“Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia”, Il Mulino). Una ricostruzione che non fa sconti, improntata com’è a un forte senso della realtà e del presente effettivo dell’Italia, con l’invito a liberarsi di quelle illusioni che hanno rallentato la presa di consapevolezza della natura e della portata dei problemi. Il libro traccia un profilo impietoso di sette decenni di storia, in cui le ombre finiscono col prevalere sulle luci. Certo, l’Italia ha saputo rendersi capace di una trasformazione che nessuno aveva previsto, ma l’ha fatto senza rendersi conto degli ostacoli crescenti che doveva incontrare sul suo cammino. Oggi la sua è la condizione di un Paese declinante all’intemo di un continente, l’Europa, anch’esso in rapido declino.
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Uscito appena prima delle elezioni politiche dello scorso inverno, il saggio che Marco Revelii ha dedicato alla caduta dei partiti (“Finale di partito”, Einaudi) ha assunto quasi un tono profetico. La sua è una diagnosi spietata, che non lascia speranza ai partiti, eternamente protesi a parlare del loro improbabile rinnovamento. La forza dell’argomentazione di Revelli sta in un’analogia: i grandi partiti organizzati stavano alla politica così come le grandi imprese fordiste stavano all’economia. Non solo: gli uni e le altre appartenevano a un’epoca storica che non è quella in cui viviamo. Ma se i partiti che conosciamo sono privi di futuro, che ne sarà la democrazia? Siamo ormai entrati in un’epoca post-democratica dominata dalle oligarchie? O invece è ancora possibile rivitalizzare lo spazio democratico? Dipende dalla piega che prenderà la crisi di fiducia che vive la nostra soceità.
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I giornali attraversano uno dei momenti peggiori della loro storia, incalzati da una crisi che mette in questione la loro continuità. Ma in Italia la crisi dei giornali ha anche un altro, più specifico aspetto, che dipende dal ruolo anomalo che essi giocano sulla scacchiere politico. Infatti, nel nostro Paese il giornalismo è una manifestazione della lotta politica, come dice esplicitamente Giuliano Ferrara. Una dimensione ben illuminata dalla ricognizione che due collaboratori del “Financial Times”, l’italiano Ferdinando Giugliano e l’inglese John Uoyd, dedicano ai nostri media (“Eserciti di carta. Come si fa informazione in Italia”, Feltrinelli), adottando un acuto sguardo critico. Dall’analisi degli stili di comunicazione come dalle interviste di direttori di testate, traspare il profilo di un’opinione pubblica incerta e combattuta, che deve riscoprire il proprio ruolo.
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Ezio Tarantelli venne ucciso dalle Brigate Rosse nel 1985 a causa delle sue proposte di riforma del meccanismo della scala mobile, che allora condizionava la dinamica dell’inflazione e dei redditi.Tarantelli era un economista quarantenne di straordinario talento che aveva lavorato alla Banca d’Italia e studiato a Mit di Boston. Coltivava l’intento di conciliare il rigore econometrico dei suoi studi di econometria con la passione civile che lo portava a collaborare con le organizzazioni sindacali e il mondo del lavoro. Lo ricorda il figlio Luca Tarantelli, bambino all’epoca dell’attentato, con un libro (“Il sogno che uccise mio padre. Storia di Ezio Tarantelli che voleva lavoro per tutti ”, Rizzoli) che si distingue dalle altre testimonianze sulle vittime del terrorismo. Qui è l’impegno riformatore di Tarantelli a costituire il centro del racconto, che si snoda attraverso le testimonianze di amici e collaboratori, evocando una stagione in cui ancora politica e competenza potevano essere complementari.
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I ruoli lavorativi non sono più codificati rigidamente e sta cadendo il principio basilare del taylorismo, quello che prescriveva una netta separazione fra chi il lavoro lo progetta e chi lo esegue. Anche per questo Chris Anderson, giornalista e scrittore che a lungo ha diretto la rivista “Wired”, parla degli artefici della nuova rivoluzione industriale ripristinando l’immagine antica del «produttore» (“Makers. Il ritorno dei produttori. Per una nuova rivoluzione industriale”, Rizzoli Etas). L’elemento di maggiore novità è che tutti possiamo diventare o ritornare produttori. A patto di saper lavorare con sicurezza sul computer e soprattutto di saperlo collegare a una stampante a tre dimensioni. Anderson spiega infatti che questa è la macchina-simbolo della nuova rivoluzione industriale, la stampante in grado di replicare oggetti o parti di un oggetto, esattamente come la vecchia stampante bidimensionale elabora e riproduce la pagina di un documento o di un libro.

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