26 maggio 2014

FEDERICO L'ANTICRISTO




Castel del Monte
 Esecrato dal Papa, additato come l’Anticristo, l’imperatore favorì i rapporti tra Cristianesimo e Islam. Forse anche per questo piaceva a Dante che, pur collocandolo nell'inferno fra gli eretici, lo chiama “loico e clerico grande”.

Alessandro Barbero

Federico II, l’incontro di civiltà


«E vidi salir dal mare una bestia piena di nomi di bestemmia»: così, con una citazione dell’Apocalisse, papa Gregorio IX aprì la bolla in cui denunciava i delitti dell’imperatore Federico II, che i suoi ammiratori chiamavano stupor mundi. A dar retta al Papa, Federico considerava Cristo un impostore, metteva in dubbio la sua nascita da una vergine, e preferiva l’Islam al Cristianesimo. Non c’è da stupirsi se molti fedeli credettero di riconoscere in lui l’Anticristo, che doveva mettere il mondo a ferro e fuoco preannunziando la fine dei tempi. I più convinti erano i seguaci dell’abate Gioacchino da Fiore, il mistico calabrese che aveva profetizzato per il 1260 la rovina dell’Anticristo e l’avvento di un’età nuova. Quando, nel 1250, si sparse la notizia che Federico II era morto - senza aver conquistato il mondo, come avrebbe dovuto fare l’Anticristo - il francescano Salimbene da Parma non voleva crederci, e si disperò: la profezia era sbagliata, l’Anticristo non era lui e bisognava ricominciare ad aspettarlo.

Attraverso il clamore delle testimonianze contrastanti, delle maledizioni apocalittiche e degli elogi cortigiani, par d’intuire che nei suoi ultimi anni Federico II si trasformò davvero in un tiranno malefico, come accade ai despoti abituati male da troppi decenni di potere e inaspriti dai fallimenti. Fece ammazzare tanta gente, e spesso senza buoni motivi: così si offuscò la leggenda dell’imperatore dotto e splendido, che fondava università, promulgava codici di leggi, costruiva meraviglie come Castel del Monte, assisteva a esperimenti scientifici e nei ritagli di tempo scriveva di suo pugno quel De arte venandi cum avibus che non è solo un manuale di falconeria ma un vero trattato di zoologia.

Ma almeno una delle accuse che i Papi scagliavano contro lo stupor mundi suscita piuttosto la nostra ammirazione, e anziché contribuire alla leggenda nera alimenta semmai il mito d’un Federico lontano e superiore rispetto al suo tempo: e sono i rapporti che intrattenne col mondo musulmano. Certo, oggi siamo lontani dagli entusiasmi di Jacob Burckhardt che vedeva in lui il primo uomo moderno; ma certamente Federico fece tutto quello che poteva per contrastare il clima da scontro di civiltà in cui il mondo europeo e mediterraneo era precipitato all’epoca delle crociate.

I musulmani Federico li aveva in casa, giacché prima d’essere imperatore era re di Sicilia. Certo, non erano più i tempi in cui gli scrittori arabi esaltavano la Sicilia come la provincia più ricca del mondo islamico, e neppure quelli di suo nonno Ruggero II, nella cui cancelleria lavoravano fianco a fianco notai latini, greci, ebrei e arabi. All’inizio del suo regno Federico aveva ancora al suo servizio qualche funzionario arabo, però battezzato. Dotti musulmani a Palermo non ce n’erano più; ma c’erano alcuni dotti ebrei, cui l’imperatore commissionò traduzioni dall’arabo. Federico aveva una gran voglia di discutere con i sapienti islamici, e scrisse al sultano del Marocco ponendo una raffica di quesiti filosofici e scientifici, cui sperava che i dotti di laggiù potessero rispondere. Uno di loro, Ibn Sabin, in effetti gli rispose, anche se in tono piuttosto sostenuto, invitandolo a impadronirsi un po’ meglio della terminologia filosofica, e osservando che se aveva tanta sete di verità avrebbe fatto meglio a cominciare convertendosi all’Islam.

Ma se non c’erano più dotti, la Sicilia di Federico II era ancora piena di contadini musulmani, impoveriti e vessati dopo la riconquista cristiana. Molti di loro, riparati nelle zone montagnose e poco accessibili di Monreale e del Val di Noto, erano in stato di ribellione endemica. Federico cercò di reintrodurre le colture in cui erano più esperti, come l’indaco, lo zucchero, l’henné, ma soprattutto pubblicò leggi in loro favore, per impedire che fossero maltrattati dai suoi funzionari. Musulmani ed ebrei dovevano avere la possibilità di rivolgersi alla giustizia come tutti gli altri sudditi, e non bisognava che fossero trattati diversamente dai cristiani né sottoposti a vessazioni. Ma quando i ribelli delle montagne catturarono il vescovo di Agrigento e lo tennero prigioniero per un anno, Federico perse la pazienza.

È forte la tentazione di definire pulizia etnica le ripetute campagne che i soldati del re condussero in Sicilia, al termine delle quali non c’erano più musulmani nell’isola. Un grande storico del mondo mediterraneo come David Abulafia ha proposto, non credo con molta ragione, di vedere nella guerriglia dei saraceni le remote origini della mafia; semmai è più curioso scoprire che Federico, per ripopolare le campagne devastate, organizzò il trasferimento in Sicilia di grossi contingenti di emigranti reclutati in Piemonte, e che da loro discendono gli abitanti di Corleone. Ma il punto cruciale è che i saraceni catturati, se rifiutavano di convertirsi al Cristianesimo, non vennero messi a morte com’era abituale in clima di crociata, ma risistemati in Puglia, la provincia più amata da Federico, dove il re donò loro una città. A Lucera, dove la cattedrale era opportunamente crollata e il vescovo s’era dovuto trasferire altrove, vennero risistemati 15.000 musulmani, e fra di loro l’imperatore reclutò una guardia di fedelissimi.

Per i polemisti di parte papale, quei saraceni che accompagnavano Federico sui campi di battaglia erano la prova che l’imperatore preferiva Maometto a Cristo. Del resto, quando dopo molte insistenze l’imperatore si era deciso a partire per la crociata, non aveva rovinato tutto mettendosi d’accordo col sultano e trasformando Gerusalemme in una città aperta, dove cristiani e musulmani avevano ciascuno i propri spazi? Da entrambe le parti gli integralisti, che non mancano mai, erano inorriditi. Per noi tutto questo è piuttosto la prova che lo stupor mundi, per quanti delitti abbia commesso, era un uomo che sulla convivenza tra fedi diverse aveva saputo andare avanti, e non solo rispetto al suo tempo.

La Stampa – 22 maggio 2014

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