24 maggio 2014

UOMINI SENZA QUALITA' IN ...CACANIA

Singolare manifestazione di protesta davanti ad un celebre quadro

Mi piace riprendere questa mattina un pezzo pubblicato da Nicola Lagioia su http://www.minimaetmoralia.it/wp/bentornati-in-cacania/
 
 BENTORNATI IN CACANIA
Nel giorno delle elezioni europee, a un secolo da quel 1914 che torna in forme sempre nuove e sorprendenti, ho piacere di condividere con i lettori di m&m questo celeberrimo brano da L’uomo senza qualità. L’invito – per chi non l’ha mai fatto – è ad accostarsi a questo libro dal respiro sempre più continentale.
La traduzione è quella superba di Anita Rho, Gabriella Benedetti e Laura Castoldi dell’edizione Einaudi. (nicola lagioia)



"Nell’età in cui sarti e barbieri han­no ancora un’enorme importanza e ci si guarda con piacere allo spec­chio, s’immagina anche sovente un luogo dove si vorrebbe passare la vita, o almeno un luogo dove sa­rebbe di stile vivere, pur sentendo magari che non ci si starebbe vo­lentieri. Così da tempo si è giunti necessariamente al concetto di una specie di città super-americana, dove tutti corrono o s’arrestano col cronometro in mano. Aria e terra costituiscono un formicaio, attra­versato dai vari piani delle strade di comunicazione. Treni aerei, tre­ni sulla terra, treni sotto terra, po­sta pneumatica, catene di automo­bili sfrecciano orizzontalmente, ascensori velocissimi pompano in senso verticale masse di uomini dall’uno all’altro piano di traffico; nei punti di congiunzione si salta da un mezzo di trasporto all’altro, e il loro ritmo che tra due velocità lanciate e rombanti ha una pausa, una sincope, una piccola fessura di venti secondi, succhia e inghiotte senza considerazione la gente, che negli intervalli di quel ritmo uni­versale riesce appena a scambiare in fretta due parole. Domande e ri­sposte ingranano come i pezzi di una macchina, ogni individuo ha soltanto compiti precisi, le profes­sioni sono raggruppate in luoghi determinati, si mangia mentre si è in moto, i divertimenti sono radu­nati in altre zone della città, e in al­tre ancora sorgono le torri che con­tengono moglie, famiglia, gram­mofono e anima.
Tensione e disten­sione, attività e amore son ben di­visi nel tempo e misurati secondo esaurienti ricerche di laboratorio. Se svolgendo una qualsiasi funzio­ne s’incontrano difficoltà, si desi­ste subito, perché si trova un’altra cosa, oppure un metodo migliore, o ancora vi sarà un altro che s’inca­richerà di scoprire la strada giusta; e questo non porta danno, perché il massimo sperpero delle forze co­muni è causato dalla presunzione di esser chiamati a compiere la propria opera fino in fondo. In una collettività ogni strada porta a una meta buona. La meta è posta a bre­ve distanza; ma anche la vita è bre­ve, e così si ottiene un massimo di buoni successi; di più non occorre all’uomo per essere felice, perché il successo conseguito foggia l’ani­ma, mentre quello a cui si aspira senza ottenerlo la storce soltanto; per essere felici non ha importanza lo scopo prefisso, ma solo il fatto di raggiungerlo. E inoltre la zoologia insegna che da una somma di indi­vidui limitati può benissimo risul­tare un insieme geniale.
Non è certo che avverrà proprio co­sì. Ma simili immaginazioni sono affini ai sogni di viaggi, in cui si ri­specchia il senso dell’incessante movimento che ci trascina con sé. Sono superficiali, irrequiete e bre­vi. Sa Iddio quale sarà veramente il futuro. Si direbbe che ad ogni istante noi abbiamo in mano gli elementi, e la possibilità di fare un progetto per tutti. Se non ci piace la faccenda delle velocità, inventia­mo qualche altra cosa! Per esem­pio, una cosa molto lenta, con una felicità fluttuante come un velo, misteriosa come una chiocciola marina, e con quel profondo occhio bovino di cui già s’estasiavano i greci.

Ma purtroppo non è affatto così. Siamo noi, invece, in balia della cosa. Giorno e notte viaggia­mo dentro ad essa e vi svolgiamo ogni nostra attività; ci si rade, si mangia, si ama, si leggono libri, si esercita la propria professione, co­me se le quattro pareti stessero fer­me, e l’inquietante è che le quattro pareti viaggiano, senza che ce ne accorgiamo, e proiettano innanzi le loro rotaie come lunghi fili adunchi e brancolanti, senza che noi sap­piamo verso qual meta. E per di più si vorrebbe possibilmente far parte delle forze che menano il treno del tempo. È un compito assai indefi­nito, e quando si guarda fuori dopo un lungo intervallo si ha l’impres­sione che il paesaggio sia mutato; ciò che fugge davanti ai finestrini, fugge perché non può essere altri­menti, ma sebbene noi siamo sotto­messi e rassegnati ci domina sem­pre più l’impressione sgradevole di aver già oltrepassato la meta o di aver imboccato la linea sbagliata. E un bel giorno ecco il bisogno fre­netico: scendere! Saltar giù! Un desiderio di esser ostacolati, di non più evolversi, di restar fermi, di tornare indietro al punto che pre­cede la diramazione sbagliata. E nel buon tempo antico, quando c’e­ra ancora l’impero austriaco, si po­teva in quel caso scendere dal tre­no del tempo, salire su un treno co­mune d’una ferrovia comune e ri­tornare in patria.
Là, in Cacania – quella nazione incompresa e ormai scomparsa che in tante cose fu un modello non ab­bastanza apprezzato – c’era anche velocità, ma non troppa. Se trovan­dosi all’estero si pensava al paese, ecco fluttuava davanti agli occhi il ricordo di quelle strade bianche, larghe e comode del tempo delle marce a piedi e delle diligenze a cavalli, che si snodavano in tutte le direzioni come canali di un ordine stabilito, come nastri di quel tra­liccio chiaro usato per le uniformi, e cingevano le province col braccio cartaceo dell’amministrazione. E quali contrade! C’eran mari e ghiacciai, il Carso e i campi di gra­no della Boemia, notti sull’Adriati­co con stridio di grilli inquieti, e villaggi slovacchi dove il fumo usciva dai camini come dalle nari­ci di un naso camuso e il villaggio stava accovacciato fra due piccole colline come se la terra avesse di­schiuso un poco le labbra per ri­scaldare la sua creatura. Natural­mente su quelle strade viaggiavano anche automobili; ma non troppe! Si preparava anche là la conquista dell’aria; ma non troppo assidua­mente.
Ogni tanto si faceva partire una nave per l’America Latina o per l’Asia Orientale; ma non trop­po spesso. Non si avevano ambi­zioni imperialistiche; si era nel punto centrale dell’Europa, dove s’intersecano gli antichi assi del mondo; le parole «colonia» e «ol­tremare» giungevano all’orecchio come cose lontane e non sperimen­tate. Si faceva lusso; ma non così raffinato come in Francia. Si face­va sport; ma non così accanito co­me in Inghilterra. Si spendevano somme enormi per l’esercito; ma solo quanto bastava per rimanere la penultima delle grandi potenze. Anche la capitale era un po’ più piccola di tutte le altre metropoli del mondo, ma un po’ più grande di quel che non fossero di solito le grandi città. E il paese era ammi­nistrato — con oculatezza, discre­zione e abilità a smussare cauta­mente ogni punta — dalla migliore burocrazia d’Europa, alla quale si poteva rimproverare un solo difet­to: per essa genio e spirito d’inizia­tiva nelle persone non autorizzate a ciò da alti natali o da incarico go­vernativo erano impertinenza e presunzione. A nessuno del resto piace farsi dettar legge da chi non vi è autorizzato! E poi in Cacania un genio era sempre scambiato per un babbeo, mai però, come succe­deva altrove, un babbeo per un ge­nio.
In verità, quante cose curiose ci sa­rebbero da dire sul tramontato im­pero di Cacania! Per esempio, esso era imperial-regio, ed era imperia­le e regio; uno dei due segni «i.r.» oppure «i. e r.» era impresso su ogni cosa e su ogni persona, tutta­via occorreva una scienza segreta e occulta per poter distinguere con sicurezza quali istituzioni e indivi­dui fossero da considerarsi imperial-regi e quali imperiali e regi.
Per iscritto si chiamava Monarchia Austro-Ungarica, ma a voce si chiamava Austria, termine a cui il paese aveva abdicato con solenne giuramento statale ma che conser­vava in tutte le questioni sentimen­tali, a prova che i sentimenti sono importanti quanto il diritto costitu­zionale e che i decreti non sono la cosa più seria del mondo. Secondo la costituzione era uno stato libera­le, ma aveva un governo clericale. Il governo era clericale, ma lo spi­rito liberale regnava nel paese. Da­vanti alla legge tutti i cittadini era­no uguali, non tutti però erano cit­tadini. C’era un Parlamento, il qua­le faceva un uso così eccessivo del­la propria libertà che lo si teneva quasi sempre chiuso; ma c’era an­che un paragrafo per gli stati di emergenza che serviva a far senza del Parlamento, e ogni volta che tutti si rallegravano per il ritorno dell’assolutismo la corona ordina­va che si ricominciasse a governa­re democraticamente. Di tali vi­cende ne capitavano molte in Ca­cania, e fra le altre vi furono anche quei conflitti nazionali che attira­rono giustamente la curiosità dell’Europa e oggi son presentati in modo del tutto falso. Furono così violenti che per cagion loro la mac­china dello stato s’inceppava e s’arrestava parecchie volte all’an­no, ma nei periodi intermedi e nel­le pause di governo l’armonia era mirabile e tutti facevan vista di nulla. E infatti non c’era stato nul­la di reale. Soltanto l’ostilità di ogni uomo contro le aspirazioni d’ogni altro uomo, che oggi ci trova tutti unanimi, nello stato di Caca­nia aveva precorso i tempi e s’era perfezionato in un raffinatissimo cerimoniale, che avrebbe potuto ancora avere grandi conseguenze se il suo sviluppo non fosse stato troncato anzitempo da una cata­strofe.
Infatti non soltanto l’avversione per il concittadino s’era accresciuta fi­no a diventare un sentimento collet­tivo, ma anche la diffidenza verso se stessi e il proprio destino aveva pre­so un carattere di profonda proter­via. Si agiva in quel paese – e talvol­ta fino ai supremi gradi della pas­sione e alle sue conseguenze – sem­pre diversamente da quel che si pensava, oppure si pensava in un modo e si agiva in un altro. Osservatori sprovveduti hanno scambiato ciò per cortesia o anche per una debolezza di quello che essi considerano il carattere austriaco.
Ma si sono sbagliati; ed è sempre uno sbaglio spiegare le manifestazioni di un paese semplicemente con il carattere dei suoi abitanti. Perché l’abitante di un paese ha almeno nove caratteri: carattere professionale, carattere nazionale, carattere statale, carattere di classe, carattere geografico, carattere sessuale, carattere conscio, carattere inconscio, e forse anche carattere privato; li riunisce tutti in sè, ma essi scompongono lui, ed egli non è in fondo che una piccola conca dilavata da tutti quei rivoli, che v’entran dentro e poi tornano a sgorgarne fuori per riempire assieme ad altri ruscelletti una conca nuova. Perciò ogni abitante della terra ha ancora un decimo carattere, e questo altro non è se non la fantasia passiva degli spazi non riempiti; esso permette all’uomo tutte le cose meno una: prender sul serio ciò che fanno i suoi altri nove caratteri e ciò che accade di loro; vale a dire, con altre parole, che gli vieta precisamente ciò che lo potrebbe riempire. Questo spazio che, bisogna ammetterlo, è difficile a descriversi, in Italia ha un colore e una forma diversi che in Inghilterra, perché ciò che ne risalta ha un’altra forma e un altro colore, e tuttavia è uguale nell’uno e nell’altro luogo, appunto un vuoto spazio invisibile, entro il quale sta la realtà, come una piccola città d’un gioco di costruzioni abbandonata dalla fantasia”.
Così era accaduto in Cacania, per quel che può apparir visibile agli occhi di tutti, e in questo la Caca­nia era lo stato più progredito del mondo, benché il mondo non lo sa­pesse ancora; era lo stato che ormai si limitava a seguire se stesso, vi si viveva in una libertà negativa, sempre con la sensazione che la propria esistenza non ha ragioni sufficienti, e cinti dalla grande fan­tasia del non avvenuto o almeno del non irrevocabilmente avvenu­to, come dall’umido soffio degli oceani onde l’umanità è sorta. «E capitato che…» si diceva in Ca­cania, mentre l’altra gente in altri luoghi credeva che si fosse prodot­to un avvenimento mirabolante; era un’espressione alla buona per cui eventi e colpi del destino diventavano lievi come piume e pensieri. Sì; benché molte cose sembrino indicare il contrario, la Cacania era forse un paese di geni; e probabilmente fu questa la causa della sua rovina.

Fonte: Robert  Musil, L' uomo senza qualità

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