Cannes. «Jimmy’s
Hall» da una vicenda vera nell’Irlanda anni 30, il nuovo
lungometraggio del regista britannico
Cristina Piccino
Ken Loach e la paura
rossa
Lo ha annunciato
come il suo ultimo film, almeno con degli attori, ancor prima della
selezione in concorso, se Jimmy’s Hall lo sarà
davvero da vedere (e infatti in conferenza stampa si
è un po’ smentito…), di certo è che molti
scommettono sul suo protagonista, Barry
Ward per la Palma d’oro al migliore attore.
La storia si ispira
a una figura reale, quella di Jimmy Gralton, deportato
negli Stati uniti, nel’33 dall’Irlanda dove non tornerà mai
più. A New York, Gralton continuerà a fare
politica, fino alla morte nel’45.
Per rafforzare
lo statement di «verità» il film si apre con gli archivi
in bianco e nero, immagini dell’America di Harlem,
del jazz e della Grande Depressione. Gralton vi si era
rifugiati già dieci anni prima, fuggendo da preti
e latifondisti che volevano ammazzarlo
perché aveva aiutato i contadini
a riprendere le loro terre.
Ora siamo nel 1932,
a County Leitrim la guerra civile irlandese è finita
da dieci anni, lasciando molti morti alle sue spalle. Anche il
fratello di Jimmy è stato ucciso, e lui è tornato
per aiutare la madre ormai anziana
Il ritorno di Jimmy
è perciò malvisto e quando riapre il
suo club è guerra. Il prete compila liste di
proscrizione e boicotta con ogni mezzo quel luogo
di libertà e divertimento, che diffonde il
comunismo, Karl Marx e l’esempio dei temibili
wobblies i sindacalisti americani.
Per non dire del jazz, la musica dell’Africa, la musica del
diavolo.
Chiesa e poteri
economici, sodalizio ben collaudato.
Con repressione, divieti, anche ballare è intollerabile
nell’Irlanda in cui dopo la guerra le generazioni più
giovani sperano nel cambiamento. Col suo
sceneggiatore Paul Laverty, Loach traduce la
vicenda di Gralton in una dimensione universale,
e anche oltre l’epoca storica in cui si ambienta. La sua
figura racconta la lotta contro i poteri forti, le
alleanze della politica e delle istituzioni,
stato e chiesa, per eliminare gli elementi
provocatori, chi resiste, lotta, per
impossessarsi dei mezzi di produzione
e dell’immaginario.
Rispetto a film più
lontani, il cinema di Loach sembra ormai quasi «classico»,
millimetrato nella sceneggiatura che
dosa, equilibra, modula temperature
emozionali e movimenti narrativi.
Funziona (moltissimi applausi) perché
è rassicurante, non disturba, divide i buoni
dai cattivi, dà tutto quello che ti aspetti, commozione,
indignazione, amore, lotta, musica. Come una buona,
vecchia tazza di the…
Il Manifesto – 23
maggio 2014
Nessun commento:
Posta un commento