[Nicanor Parra, uno dei più famosi scrittori sudamericani, compirà cento anni il prossimo 5 settembre. Questo articolo è uscito sull’ultimo numero di «Il Reportage»].
La leggenda di Nicanor Parra
29 maggio 2014 |
di Gabriella Saba
Ci sono almeno dieci gradi di differenza
tra Santiago e la cittadina costiera di Las Cruces. Il sole che nella
capitale ti incolla la maglietta alla pelle, comincia a sparire a mano a
mano che la strada abbandona le Ande per addentrarsi tra vigneti e
prati, costeggia il litorale e approda infine in quel paesino balneare
di tetti aguzzi e strade vuote che sembra una Rimini fuori tempo, però
in versione sudamericana e pretenziosa: con i negozi scarni e vuoti e le
bandiere che si agitano perché non basta il sole che è sparito, c’è
anche un vento umido che fa piegare gli alberi e increspa il mare di
ondine bianche e burrascose: un mare azzurro cupo, ostile. È solo di
recente che il tempo è cambiato, a Las Cruces, e il clima rovente
dell’estate di qualche anno fa si è trasformato in quell’autunno freddo
che si vede adesso. Così, almeno, mi dice il tizio intabarrato in un
giubbotto a vento che mi accompagna per un tratto lunga la strada larga e
anonima che sale e scende fino alla spiaggia bruna in mezzo a un arco
di rocce. Camminiamo, poi, a sinistra, proprio all’inizio del sentiero
che si affaccia sulla spiaggia, ecco la casa del quasi centenario poeta
Nicanor Parra, la leggenda, che vorrei intervistare.
Dovrei bussare alla sua casa e aspettare
che lui, se ne ha voglia, si affacci alla finestra e decida se aprirmi o
meno. In genere non apre. E in ogni caso è raro che si affacci. Parra
non dà interviste, se ti riceve è per parlare di quello che decide lui.
So tutto sul poeta, sono una sua groupie da tempo immemorabile.
Da quando ero una ragazzina e lui un ultrasessantenne famoso. Ho letto
non solo quello che ha scritto (una produzione non vastissima, in
realtà), ma anche le interviste con pochi giornalisti fortunati. E i
resoconti, molto più numerosi, dei desencuentros, gli
appuntamenti promessi a mai accordati, e le storie di reazioni
schernevoli alle domande inviate per iscritto, lasciate lì a languire
per mesi prima di scatenare risposte come questa: “Che cosa penso di
Neruda? Ammirazione religiosa e rispetto per l’uomo e la sua opera”.
Oppure: “Cosa consiglio ai giovani poeti? Che scrivano come gli pare”.
L’unico mio contatto con il poeta era
stato telefonico: l’avevo chiamato da Santiago decine di volte, per
settimane, prima che si decidesse a rispondere, fingendosi il
maggiordomo: “Interviste no, non se ne parla, don Nicanor non ne
rilascia”, mi aveva interrotto subito e solo quando avevo aggiunto, così
implorante da scivolare sotto la soglia minima di dignità: “Ma io non
voglio intervistarlo, gli dica per favore che sono venuta dall’Italia
apposta e mi basterebbe incontrarlo”, solo quando avevo aggiunto questo
il sedicente maggiordomo si era addolcito un po’, non tanto: “Lei provi a
venire, e se per caso don Nicanor è dell’umore giusto, ma è difficile,
capace che la riceva. Magari è fortunata, chi lo sa”.
Non è che somigli tanto a Isla Negra,
quel posto di Las Cruces, se non per l’atmosfera rarefatta, finis
terrae, che hanno in generale le spiagge cilene sul Pacifico. Eppure,
dicono che Parra si sia trasferito là perché gli ricordava quell’altra
località ben più famosa in cui aveva vissuto all’incirca cinquant’anni
fa, un’epoca in cui quando gli chiedevano: “Le piacerebbe essere
considerato il miglior poeta del Cile?”, lui rispondeva pronto: “No, mi
accontento di essere il migliore di Isla Negra”. A Isla Negra abitava
anche Neruda, e la risposta, una provocazione, venne fissata negli
annali per definire il controverso rapporto di ammirazione e odio tra i
due, la molto probabile e mai dichiarata invidia di Nicanor per un
Neruda superstar e la soddisfazione per l’ascendente che Parra, non
Pablo, esercitava sugli autori più giovani: a partire da Bolaño,
per ammissione di quest’ultimo, la cui scrittura irridente e caustica
deve parecchio alle invenzioni dell’antipoeta, come si definì lo stesso
Nicanor.
Cos’è un antipoeta, don Nicanor? Una
palma gigantesca svetta in mezzo a stralci di piante mai potate né
tagliate. Tetti spioventi e scuri coprono in parte il panorama sulla
spiaggia e il mare. Nel cancelletto all’entrata del giardino, sbarrato,
non c’è il campanello. Sarebbe facile scavalcarlo e percorrere il
sentierino di pochi metri che scende fino al portone in legno con su
scritto a mano Antipoesia, ma non mi azzardo e quella domanda, la prima che avrei voluto fargli, resta in sospeso, mentre mi ostino a urlare Hallo
finché una giovane donna dai capelli scuri e l’espressione un po’ truce
apre il portone e, dopo un’occhiata, me lo sbatte in faccia senza dire
una parola, lasciandomi come un’allocca con i regali per il poeta: un pan de pascua
e due bottiglie di shiraz d’annata che, ripresami dallo stupore, prima
di andarmene, finirò per appoggiare davanti all’entrata con questo
patetico bigliettino: “Don Nicanor, le auguro buon Natale e le lascio
questo pensiero per ringraziarla delle sue meravigliose poesie. Una sua
grande estimatrice dall’Italia”.
È dalla fine degli anni Ottanta,
d’altronde, che l’antipoeta ha deciso di non concedere più interviste e
di lasciare Santiago per quel paesino a centoventi chilometri sulla
costa e quella casa a punta che ha chiamato ironicamente Torre de
Márfil, la Torre d’Avorio. “Le domande dirette sono un’impertinenza e le
interviste una forma di aggressione”, aveva dichiarato in
quell’occasione e da allora si è concesso ben poco. A parte il Nobel, ha
vinto tutti i premi letterari più importanti, a partire dal Cervantes,
nel 2011, poi il Juan Rulfo e perfino il Neruda, che ha dichiarato
ironicamente di non meritare. L’antipoeta, grosso modo, è quello che
scende dal piedistallo e smette di atteggiarsi ad autorità per
confondersi con la gente, che annulla la distanza tra sé e i lettori,
che usa un linguaggio simile al loro per farsi riconoscere (poi, ci sono
le definizioni degli specialisti: secondo il professore cileno, Osvaldo
Ulloa Sánchez, l’antipoesia esprime il modo di vivere dell’uomo massa,
l’uomo della classe media in un sistema capitalista, mentre il critico
Mario Rodríguez Fernández sostiene che la funzione di “quel genere
poetico” è desacralizzare l’uomo e il mondo).
Dunque, mi ero aspettata che il viso
centenario, incorniciato da una corona spiritata di capelli bianchi e
intagliato come nel bronzo apparisse a una delle finestrelle sotto il
tetto e un Parra “maggiordomo” mi avrebbe accolto, alla fine,
compassionevole e infastidito: “Adelante, adelante, dato che è venuta
fin qui”. Perché ogni tanto succede anche questo: che il burbero poeta
sia di buon umore e che la porta venga aperta e ti ritrovi in mezzo a un
bailamme di cose strane e vecchie affastellate e libri e scatole e fiorellini in mezzo ai quali depositi il tuo pan de pascua
avvolto in una carta costellata di palline d’oro che lui osserva
meditabondo prima di cominciare un lungo monologo in cui passa da un
argomento all’altro inabissandosi ed emergendo infine con una
conclusione che lega tutti i fili.
Ex professore universitario di
cosmologia e matematica razionale, poeta e artista visivo, Nicanor è il
fratello di Violeta, autrice della celebre canzone “Gracias a la vida”,
morta suicida nel 1967, quando aveva 50 anni. Lei massima esponente
della canzone cilena di protesta, lui poeta iconoclasta e dissacrante,
che rompe con la poesia tradizionale: morti i modelli dell’arte per
l’arte e della letteratura come strumento di cambio sociale, già
nell’Ottanta teorizzava che l’unica strada era quella dell’ironia e
dell’incertezza, dei versi imprevedibili e contradditori. La sua poesia
irride il mondo e chi lo guarda: entrambi indecifrabili e mutevoli.
Era quasi all’inizio del suo cammino
poetico quando cominciò a scandagliare un passato che gli fornisse gli
strumenti per un linguaggio artistico popolare e che ride di sé: “A
furia di cercare trovai nel Medioevo una poesia della strada che in
quell’epoca aveva raggiunto la sua potenza massima e mi ispirai a
quella”, disse. Sparito l’io lirico, la voce delle sue opere è spesso
quella della corte dei miracoli che popola le strade delle metropoli
latinoamericane, interpretata dai suoi protagonisti. Nel 1954 esce il Poemas e antipoemas,
che lo consacra a livello internazionale attirandogli l’ammirazione di
Ginsberg e degli altri poeti americani della beat generation. Nel 1958
pubblica La cueca larga, nel 1962 i Versos de salón e nel 1971 Los profesores, nel 1993 i Poemas para combatir la calvicie.
Il linguaggio che adotta attinge dal burocratese, le frasi idiomatiche e
pompose dei politici, le formule ridicole e forbite, utilizza i luoghi
comuni della letteratura “finta” per mescolarli in un calderone poetico
che in genere ha un epilogo caustico e a cui non sfugge nemmeno Dio:
“Padre Nostro che sei nei cieli – recita Padre Nuestro, una
delle sue poesie più famose – Pieno di ogni genere di problemi/ Con
l’espressione corrucciata come fossi una persona qualunque /Non pensare
più a noi”.
Gli Artefactos sono tra le sue
idee più geniali: aforismi scritti su foglietti e accompagnati da
disegni, che ha messo dentro scatole apposite e che all’occasione lancia
a chi si trova intorno.La izquierda y la derecha unidas jamás serán vencidas, dice uno di essi, con uno sfondo di testine tonde e uguali.
Con la speranza, ancora, di essere
ricevuta, vago per Las Cruces a raccattare lacerti di Parra tra i suoi
concittadini, i suoi vicini. Di fronte a casa sua, c’è la villa color
ocra di Colombina, una dei sei figli avuti da diverse convivenze e
matrimoni, uno con la svedese Inga Palmen. “Se riesci a diventare amica
di Colombina è possibile che convinca il padre”, mi hanno detto nel
paesino, e così grido Hallo anche davanti alla casa ocra, ma mi
risponde solo il latrato di un cane all’angolo della strada. Entro nei
bar deserti, nei negozi che vendono pollos asados e nelle botillerias,
nell’internet point all`angolo del vialone, nel ristorante con le
tendine in pizzo a quadrettini e in quel locale di bambola, due metri
per due, in cui mi servono il caffe più lungo che abbia mai bevuto nella
mia vita. “Don Nicanor? Gli vogliamo tutti bene e lui vuole bene a
tutti, è il vanto di questa cittadina”, mi dicono in uno di quei luoghi.
Ma in un altro scuotono la testa: “È un vecchio odioso e maleducato,
quei fessi che hanno le case qui, la gente piu importante di Las Cruces,
ogni anno per il compleanno vanno sotto la sua casa a cantargli le
serenate, a festeggiarlo, e lui nemmeno si affaccia. Neruda, guardi, non
lo avrebbe mai fatto”.
Ad ogni modo, quando ritorno davanti
alla Torre de Márfil, i regali che avevo lasciato davanti alla porta
sono spariti, ma la casa tra gli alberi ha lo stesso aspetto vuoto e
inospitale di qualche ora prima. La vecchia Volkswagen grigia, un
cimelio, ha lo stesso aspetto abbandonato e sperduto. Ad un tratto
un’auto si ferma davanti alla casa, vi discende, carica di sacchetti, la
donna che poco prima mi aveva chiuso la porta in faccia. Mi guarda
timida mentre mi avvicino e mi chiede: “È lei che ha lasciato il vino e
il pan de pascua?”. “Sì, ma mi sarebbe piaciuto incontrare Don
Nicanor”. “Mi dispiace, è difficile, vengono da tutto il mondo e lui non
riceve quasi nessuno. Lei da dove arriva?”. “Io? Dall`Italia”. La donna
fa un cenno col capo, dispiaciuta. Ha i capelli arruffati e il viso
tondo, triste: “Poverina. Saranno almeno due ore di pullman, no?”. Si
chiama Rosita ed è la sua domestica da molti anni, tanto da essere
entrata anche lei nella variopinta mitologia parriana. Dicono non
risponda quasi mai quando il poeta le parla. E se per caso lui le chiede
perché quel silenzio, lei dice: “Non c’è bisogno di rispondere alle
sciocchezze”.
Da qualche anno, Parra ha cominciato ad
annotare anche le osservazioni di Rosita, i suoi gesti, insieme alle
frasi dei nipoti e delle persone che passano per la casa. Finisce tutto
per diventare materiale poetico, o meglio, antipoetico: secco e crudo e
privo di tabù, che solo ogni tanto ha punte di tenerezza, come nella
poesia Defensa de Violeta Parra, dedicata all’amatissima
sorella. Il poeta più postmoderno di tutti. Taoista, donnaiolo,
ambientalista, astemio. E allendista. Moderato.
“Perché ho studiato cosmologia e
matematica? Perché erano le materie in cui andavo peggio, e quindi per
sfida, per una sfida con me stesso”, disse in una rara intervista. Vinse
una borsa di studio e andò a studiare a Santiago, ma – dicono i critici
– che è a Chillan, nella sua cittadina di origine, che si è formata la
prima scorza dell’antipoesia: in quella casa in cui viveva con il padre
maestro di scuola alcolizzato e povero, ma cantante popolare e geniale,
la madre sarta e i sette fratelli. Un figlio d’arte. Oltre a Violeta
c’erano, tra i suoi fratelli, clown e musicisti. Nel 1937 pubblica il Cancionero sin nombre
e da quel momento comincia a viaggiare, in Gran Bretagna e Stati Uniti.
Riceve premi, insegna all’università, scrive. Tornerà definitivamente
in Cile nel 1951. Elio Gandolfo, critico uruguaiano e curatore
dell’antologia Parranda Larga, robusta selezione delle sue
opere, lo ha paragonato a Bob Dylan per la “consapevolezza nella sua
opera di un luogo in perpetuo movimento, che comprendeva sia la poesia
della strada sia quella considerata alta”. Di certo c’è che Patti Smith
ha usato qualcuna delle sue poesie per delle canzoni.
Questa faccenda di Neruda, questa
rivalità con Neruda, quanto è vera? (altra domanda che avrei voluto
fargli, e probabilmente non gli avrei fatto). Nel 1962 Parra celebra
Neruda in un discorso che diventerà famoso, ma è un elogio che sconfina
nell’irrisione. L’incerta e pericolante amicizia diventa ostilità
ufficiale quando Parra accetta, durante un soggionro negli Stati Uniti
nel 1970, di andare a bere il tè dalla first lady di allora, Pat Nixon.
Attaccato da Neruda, cominciò da allora a dire cose come queste: “Pablo è
petto di tacchino, io sono la zampa del gallo”, fingendo di accreditare
il rivale ma in realtà massacrandolo. Perché la zampa di gallo è più
grezza e popolare ma più saporita, mentre il tacchino fa la sua figura,
ma il sapore è poca cosa.
Sia fatta la volontà di Nicanor. Seduta
sul gradino di un negozio, attendo il pullman per tornare a Santiago.
Nel frattempo, scambio qualche parola con una coppia di anziani che
hanno casa vicino a lui e che mi raccontano di quando, ogni tanto, lo
vedono arrancare con quell’auto che va a singhiozzo. Sul pullman, una
signora sui sessant’anni, ancora molto vivace, che vive tra Santiago e
Las Cruces, mi dice di sapere tutto del poeta e si rammarica del mio desencuentro.
Per consolarmi, mi confida che i Parra erano noti per il pessimo
carattere: “Violeta, per esempio. Un genio, ma con un caratterino….”.
Osservo il paesaggio al finestrino, un sole sbiadito illumina a stento
prati e vigne. L’allegra voce della signora mi tiene compagnia per tutto
il viaggio. “Violeta non era bella”, riesco ancora a sentire, prima che
a causa del rollìo del pullman e forse di quel sole allentato scivoli
nel dormiveglia.
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