Concretezza e sentimento. Marina Cvetaeva, Taccuini 1919-1921
di Paola Quadrelli
Marina Cvetaeva asseriva nel saggio Un poeta a proposito della critica
che «la creazione è successione e gradualità» e che dunque «la
cronologia è la chiave per la comprensione» dell’opera di un artista.
L’intensa e travagliata biografia della poetessa russa è invero nota
anche al lettore italiano grazie all’attenzione particolare che
l’editoria del nostro Paese ha riservato alla Cveateva a partire dagli
anni Ottanta. Numerosi sono i testi a cui far riferimento per conoscere
fatti esteriori ed evoluzione letteraria e psicologica della poetessa;
le prose autobiografiche degli anni Trenta, in cui la Cvetaeva, dalla
lontananza dell’esilio, rievoca persone ed episodi della sua infanzia (Il diavolo, Editori Riuniti 1981), gli scritti raccolti in Indizi terrestri,
che costituiscono una cronaca della vita di Marina a Mosca negli anni
1917-1919 (Guanda 1980), i due volumi adelphiani delle lettere, nonché
l’esaustiva biografia di Viktoria Schweitzer (Mondadori 2006)
permettono, infatti, di conoscere nel dettaglio le esperienze, gli
incontri, le letture e i tragici colpi del destino che segnarono la
biografia della poetessa, nata a Mosca nel 1892 e morta suicida a
Elabuga nel 1941.
A questo ampio novero di opere si aggiungono ora i taccuini relativi al biennio 1919-1921 (Taccuini 1919-1921,
traduzione e cura di Pina Napolitano, pp. 428, € 20,00) che Voland
pubblica in un’edizione ricca di note e di illustrazioni e corredata di
un’utile prefazione della curatrice volta a enucleare e illustrare i
temi portanti di queste annotazioni. Si tratta di materiale rimasto a
lungo inedito anche in patria e reso accessibile ai ricercatori
solamente dopo il 2000, ovvero allo scadere del divieto di accesso al
lascito della poetessa posto dalla figlia Ariadna Efron.
All’inizio degli appunti Marina vive
sola a Mosca con le due figlie piccole, senza ricevere più da mesi
notizia alcuna del marito, Sergej Efron, che si è unito all’esercito
volontario antibolscevico nel Sud della Russia. Le condizioni di vita a
Mosca negli anni del “comunismo di guerra” sono terribili: i viveri
scarseggiano, per il pane e i beni di prima necessità è stato introdotto
il tesseramento, nelle case mancano il riscaldamento, la luce elettrica
e l’acqua. Gli ampi appartamenti di proprietà delle famiglie borghesi
sono stati ridivisi e pure nell’appartamento di vicolo Boris e Gleb in
cui la Cvetaeva abita dal 1912 si sono installati nuovi inquilini. Per
scrivere Marina si rifugia nella mansarda, una soffitta fatiscente e
polverosa in cui regnano il disordine e il gelo e le cui travi vengono
spesso utilizzate come legna per alimentare la stufa. Proprio nelle
prime pagine del taccuino Marina descrive la tipica routine di una
giornata qualsiasi: lavare, andare in giro nei mercati della città alla
ricerca di cibo, pelare patate, segare la legna, provvedere alle figlie.
Alcuni anni dopo, ormai all’estero, la Cvetaeva creerà sulla base di
queste note il testo In soffitta, contenuto in Indizi terrestri,
un libro a cui la poetessa va già pensando in questi ultimi mesi del
1919, quando annota: «Scriverò un giorno una Storia della vita
quotidiana a Mosca nel 1919!». La natura dei taccuini è in stretta
correlazione con il completo scardinamento delle abitudini quotidiane
provocato dalla Rivoluzione; la Cvetaeva, adusa sino ad allora a
frequentare esclusivamente ambienti dell’élite intellettuale, entra ora
in contatto, nei mercati o nelle file davanti ai negozi, con la gente
comune, sviluppando una sensibilità per la lingua popolare e per le
tradizioni folcloriche che non resterà priva di conseguenze per la sua
produzione letteraria. I taccuini nascono dunque dal bisogno di annotare
ciò che ella vede e sente, dall’esigenza di cogliere e trattenere
quanto di nuovo ha fatto irruzione nella sua vita: «adesso sono
appassionatamente assorbita dai taccuini: tutto quello che sento per
strada, quello che dicono gli altri, che penso io…» dichiara la Cvetaeva
nel maggio 1920 in una lunga e importante conversazione con il poeta
Vjačeslav Ivanov, a sua volta riportata nei taccuini. L’osservazione del
mondo esterno («osservare diventa per me una passione, mi rende una
creatura per metà astratta, quasi invulnerabile») si pone, del resto,
come una pratica antitetica al narcisismo, all’egocentrismo e
all’auscultazione del sé che la Cvetaeva sente come caratteristiche
specifiche della propria personalità; «per ora vedo solo me stessa e le
mie cose nel mondo», obietta, infatti a Ivanov, che la esorta a scrivere
un «Romanzo, un vero grande romanzo».
I taccuini testimoniano, poi, della
(prima) tragedia che investì la famiglia di Marina: la morte per stenti
della seconda figlia Irina, affidata dalla madre, insieme alla sorella
Alja, a un orfanotrofio, nella speranza che lì potesse ricevere
un’alimentazione adeguata. Intense e commoventi sono le pagine in cui
descrive le visite alle figlie e in cui annota pensieri e relativi a
Irina, una bambina affetta da un ritardo nello sviluppo, non amata da
Marina, in vita, ma oggetto di laceranti sensi di colpa dopo la morte:
«Irina! Com’è morta? Cosa provava? Si dondolava? Che ricordi le
sfilavano davanti? Forse un angolino della casa di Borisoglebskij – Alja
– me? Cantava “Ai dudu-dudu-dudu”… Capiva qualcosa? Qual è stata
l’ultima cosa che ha detto? (…) Irina! Se esiste un cielo, tu sei in
cielo, comprendimi e perdonami se sono stata per te una cattiva madre,
che non ha saputo superare la sua avversione per la tua natura oscura e
incomprensibile. – Perché sei esistita? – Per avere fame – per cantare
“Ai dudu”…, per camminare sul letto, scuotere le sbarre, dondolarti (…).
Strana – incomprensibile – misteriosa creatura (…)».
Agli “indizi terrestri”, agli appunti
inerenti la vita quotidiana, si uniscono poi nei taccuini pagine di
memorie (splendido il ritratto della madre, poi rielaborato in Mia madre e la musica),
brevi annotazioni, quasi aforismi, sulla poesia e l’amore, appunti
della precocissima figlia Alja, narrazioni di sogni, minute di lettere,
ritratti di contemporanei, resoconti di incontri, conversazioni e serate
di poesia. La durezza della vita quotidiana e le sciagure private non
frenano, infatti, la vivacità e la curiosità intellettuale e umana della
Cvetaeva; le già citate pagine iniziali dei taccuini, in cui la
poetessa annota la faticosa lotta quotidiana per la sopravvivenza,
forniscono al contempo testimonianza dell’orgogliosa e appassionata
vitalità di Marina: «Non ho annotato la cosa più importante: l’allegria,
l’acutezza del pensiero, la gioia per ogni minimo successo, i progetti
di lavori teatrali (…)». In questi anni la Cveateva compone, infatti,
oltre a poesie e poemi, anche sei pièces in versi, destinate
agli attori del Secondo e Terzo studio del Teatro d’Arte di Mosca che
ella allora frequentava. Al gruppo degli attori del Secondo Studio,
diretto da Vachtangov, apparteneva pure Sofia Holliday con cui la
Cvetaeva intrattenne un intenso rapporto di amorosa amicizia e che
immortalò, molti anni dopo, ne Il racconto di Sonecka (La Tartaruga 2002).
L’amara esistenza quotidiana e la
sublime vita dello spirito coesistono dunque in questi diari e proprio
da questa coesistenza scaturisce lo stile originalissimo, poetico e
vibrante e al contempo nitido e diretto, che li connota. La tensione tra
aderenza alla terra e aspirazione al cielo, tra concretezza e
sentimento, del resto, informa di sé la straordinaria personalità della
Cvetaeva, donna lucida e appassionata, rigorosa e inquieta, che in
commovente passo dei taccuini definisce così la parte che la poesia
occupa nella sua vita:
Forse tutta la mia
debolezza consiste nel fatto che ho guardato sempre alla scrittura come a
un lusso, non l’ho mai presa – sufficientemente – au sérieux (mai, neanche per un giorno!)
– non l’ho tenuta in conto, per lei non ho lasciato niente e nessuno, –
così una donna felicemente sposata – o che ha forse semplicemente
deciso di restare onesta! – tratta il suo cavalier servant o il suo paggio, che non diventerà mai il suo amante. (E che amerà – forse – più di suo marito!)
Non è pigrizia – perché scrivo con passione, e questa mia passione – questa mia felicità – non ha eguali.
No, è il mio eterno spirito spartano, quella stessa severità che ho anche nei confronti dell’amore.
– Non si può passare il giorno a odorare le rose! – (Sebbene io di nulla abbia bisogno, se non di questo!)
Non è pigrizia – perché scrivo con passione, e questa mia passione – questa mia felicità – non ha eguali.
No, è il mio eterno spirito spartano, quella stessa severità che ho anche nei confronti dell’amore.
– Non si può passare il giorno a odorare le rose! – (Sebbene io di nulla abbia bisogno, se non di questo!)
FONTE: http://www.leparoleelecose.it
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