La grandezza, le
emozioni e le ossessioni di un viandante per vocazione, alla ricerca
del suo destino.
Angela Terzani
Staude
Terzani, il senso
del viaggio è sempre un ritorno a casa
«Ognuno, ma
proprio ognuno, è il centro del mondo» dice Elias Canetti, e io
non sono d’accordo con lui. Capisco quel che intende dire, ma io
stessa non mi sono mai sentita il centro di niente. Mi sono vista
invece come la viaggiatrice nel sidecar di una motocicletta —
«si-de car» si diceva nel Dopoguerra a Firenze e ancora oggi mi
viene da pronunciarlo così — in quel carrozzino, insomma,
attaccato al lato di una moto degli anni Quaranta guidata da un
uomo in tenuta da viaggio.
Avevo trovato un
motociclista con un’idea precisa di dove voleva andare —
un’idea di destino, forse? —– e poiché la sua meta era
molto più lontana e originale della mia, m’incuriosiva
accompagnarlo per vedere dove sarebbe arrivato. La sua passione
per il viaggio e l’avventura erano tali da garantirmi che
sarebbe finito in posti nuovi, insoliti, affascinanti — e io
con lui.
In tutti i quarantacinque anni che ho vissuto accanto al mio guidatore, accompagnandolo in qualsiasi direzione volesse andare, senza mai mettere in dubbio le sue destinazioni o semplicemente la sua voglia di partire, non mi sono mai annoiata né tantomeno pentita della mia prima, istintiva decisione. E ancora oggi che lui non c’è più, continuo a viaggiare su quello stesso trabiccolo guidato da lui, come viaggiatrice a latere , come satellite.
Non mi sento per questo da meno. Non credo di aver speso male la mia vita, di non essermi realizzata. Sono stata nel mio centro: anche i satelliti ne hanno uno. Nel corso degli ultimi decenni, quelli in cui le donne hanno preso coscienza di essere sempre state satelliti e mai pianeti, sempre viaggiatrici a latere e mai guidatrici in proprio, in molte mi hanno chiesto se non fosse l’ora che anch’io mi mettessi al passo coi tempi. Ma avendo fin da giovane identificato il mio ruolo nell’essere «accanto», anziché «al centro» di un destino, ho sempre insistito che era proprio questa mia, diciamo, «seconda scelta», del tutto commisurata alle mie forze, ai miei talenti, alle capacità della mia mente, a rendere ricca la mia vita e a darle un senso.
Penso infatti che chiunque senta davvero d’essere «il centro del mondo» o, meglio, chiunque si avventuri in terre inesplorate cercando di «trovare un altro punto di vista», di «pensare nuovo», come diceva il mio motociclista, ha bisogno di avere al fianco qualcuno che crede in lui, perché sa bene che uscendo dai ranghi rischia grosso.
La solitudine degli
innovatori è sempre stata così grande che nel Romanticismo
tedesco, per esempio — e scusate se stasera ritorno talvolta
alle mie origini — l’aver trovato den verstehenden Freund,
l’amico che comprende, era considerata la più sublime delle
conquiste. Basta ricordare l’Inno alla gioia di Beethoven nelle
parole di Schiller – «wem der grosse Wurf gelungen eines
Freundes Freund zu sein », chi è riuscito nella grande impresa
d’essere l’amico di un amico — per capire quanto agognata
era quella figura.
Ogni persona, del resto, anche la meno ambiziosa, sogna la vicinanza di un amico che la comprenda — nella Cina classica lo si chiamava «colui che ti capisce come se stesso» — e io ho cercato di essere proprio questo per il pilota del mio si-de car. Si trattava di non imporsi ma di esserci sempre, d’essere raggiungibile in ogni frangente; altre volte di restare nell’ombra, allontanarsi, scomparire.
Una cosa, però, la devo precisare: l’importante è non sentirsi mai vittime. La vittima si fa odiare perché ti fa sentire in colpa, e chi ha voglia di vivere sotto il peso di una colpa portata in spalla? Meglio in tal caso non avere nessuno a cui appoggiarsi, meglio cavarsela da soli. «Peggio del boia non c’è che la vittima», diceva Niccolò Tucci, un bravissimo scrittore oggi scomparso, mezzo russo e mezzo napoletano, cresciuto nella campagna toscana e sposato a una donna fiorentina, che negli anni Trenta emigrò negli Stati Uniti, continuando sempre a scrivere in italiano. Era un nostro grande amico di quando da giovani vivevamo a New York. Allora lui aveva sessant’anni e noi nemmeno trenta, ma la sua affascinante figura di media altezza, vestita come per la scena, è ancora davanti a me.
E se mi chiedete se Tucci nella solitudine della sua attività di scrittore avesse almeno trovato «l’amico che comprende», vi dico di sì. Ma era una donna, era la moglie italiana da cui si era separato anni prima e che come lui era rimasta a vivere a New York. I due non si incontravano mai, ma ogni giorno che Dio metteva in terra lui dopo mezzanotte le telefonava e si parlavano per molte ore. Perché lei capiva. E quando lei morì, anche la vita di Niccolò Tucci in un certo senso finì.
Era amicizia, quella? O era l’amore non-possessivo dei poeti sufi? Esiste un amore che vuole possedere l’altro, inchiodarlo, metterlo in catene per averlo sempre vicino ed è l’amore che schiavizza ed è a sua volta schiavo. E c’è quell’altro, che dà la libertà.
Ma ora, per non parlare soltanto del passeggero nel si-de car senza dire del guidatore della moto, vorrei dire due parole su chi nella nostra coppia si è sentito il centro del mondo e in quel centro ci è voluto stare: non per darsi importanza ma, come appare dai suoi diari, per dare importanza alla meravigliosa occasione di poter vivere per alcuni anni su questa Terra: appena 66 nel suo caso. La sfida implicita in questa chance lui l’ha raccolta in pieno, senza mai desistere dall’usarla per vivere una vita intensa e originale, sempre cercando di scrivere di quel che gli era capitato e lo aveva fatto pensare.
Gli premeva
comunicare con gli altri e venerava la parola scritta perché
solo in quella resta traccia di una vita che passa e scompare, a
meno che non la si fermi con la scrittura. In questo la pensava
come i contadini cinesi d’una volta, che veneravano un pezzo di
carta se sopra vi era scritto anche un solo ideogramma. Forse,
per sentire la drammaticità del fatto che gli anni a nostra
disposizione sono pochi e fugaci, bisogna avere fin da
giovanissimi la consapevolezza della morte.
E lui, della morte,
già a 19 anni, quando ci siamo conosciuti, ne parlava
spessissimo. Mi regalava i versi di Pavese, «Verrà la morte e
avrà i tuoi occhi», mi recitava «Alle cinque della sera», il
lamento di García Lorca sull’amico ucciso. Nella prima lettera
che ho ricevuto da lui, non firmata perché era sotto forma di
racconto, un contadino diceva all’altro: «È morto Tiziano»,
e quasi ogni lettera successiva conteneva il dubbio se la vita
gli sarebbe bastata per poter dare un segnale che testimoniasse
che lui l’aveva vissuta e apprezzata.
Quando arrivò a trovarsi là dove voleva essere — in Asia — e a fare ciò che voleva fare — scrivere, quest’angoscia si placò. Ma appena cominciò a rendersi conto di quanta poca presa facevano i suoi sforzi di influire sull’andamento del mondo, la preoccupazione per il volare del tempo si ripresentò. Nei suoi ultimi anni, già prima di ammalarsi, rientrando da una cena o un ricevimento mi chiedeva: «Quante ore mi restano da vivere: 33.924? Ebbene, tre le ho appena sprecate».
Se c’era angoscia nella sua consapevolezza che il tempo scade, la sua gioia di essere «a giro» era di una intensità equivalente. Spaziava con delizia per la bella Saigon nei giorni della guerra, per l’immensa Cina fra i resti del comunismo, nei dimessi casinò sull’isola di Macao, fra gli dèi indiani che aleggiano attorno alle vette dell’Himalaya. Ma neppure questo gli sarebbe bastato se non avesse potuto scriverne per chi restava a casa. Sentiva forte la responsabilità di essere «gli occhi, le orecchie e il naso» dei suoi lettori, di dover riferire a chi non aveva le sue stesse opportunità di fare grandi esperienze, inclusa quella di aspettare la morte a occhi aperti per sette lunghi anni.
Di quella sua
avventura, da lui definita la più interessante, ha voluto
rendere conto minuto per minuto, quasi fino all’ultimo respiro.
Le sue ultime conversazioni con il figlio sono state interrotte,
per mancanza di forze, solo poche settimane prima che chiudesse
gli occhi e se Folco ha intitolato il libro che le raccoglie La
fine è il mio inizio è perché così — come un ritorno
nell’infinito dello spirito di cui ugualmente siamo fatti —
suo padre aveva inteso il concludersi della propria vita.
Viaggiando nel mio si-de car accanto a lui, ho visto molto mondo anch’io. Bei paesaggi, destini drammatici, culture in trasformazione. E ho visto lui, forte e rapido nelle decisioni, ora amabile ora sprezzante, secondo il caso. Sempre però col controllo assoluto delle situazioni, perché prima di ogni altra cosa era uno che sapeva viaggiare.
L’ho visto anche ritornare a casa dove, se la vita si faceva ripetitiva e a volte noiosa, si metteva a ordinare le sue collezioni di tappeti, le gabbie dei grilli e soprattutto i suoi libri: se li faceva spedire dai librai antiquari di Londra, gli dava la cera, li timbrava, li sistemava negli scaffali. Poi studiava i nuovi cataloghi e ne ordinava ancora. Imparava sempre. E se non c’era altro con cui svagarsi, come in Giappone, si inventava mete oscure, ormai dimenticate da tutti, come le isole Curili, scoprendo che nelle nebbie fitte e basse di quel gelido, piccolo arcipelago si era nascosta la flotta giapponese prima di partire all’attacco di Pearl Harbour: e così lo rimetteva sulla carta geografica. Oppure andava in cerca di indovini...
Ha avuto alcuni grandi amici, rapporti intensi centrati su interessi comuni, oppure — e quelle erano le amicizie vere — sulla passione per la vita stessa. Due anni prima di morire, ha conosciuto un uomo più vecchio di lui, un indiano che abitava nei monti dell’Himalaya, e insieme, lui col Vecchio e il Vecchio con lui, hanno goduto di una gioiosa intesa che non è durata moltissimo, ma è stata così perfetta da rendere felici entrambi.
Ha avuto varie vite, il guidatore del mio si-de car. Molte le conoscevo, alcune le vivevamo insieme. Poi c’era quell’altra, sotterranea, che faceva paura persino a lui, tanto era dirompente. Era lì, in quel drammatico sottosuolo portato alla luce dai suoi diari, che nasceva tutto. Avendo lui, però, un forte senso della forma e della misura, ed essendo anche un fiorentino consapevolissimo della necessità di fare «bella figura», un attore che sapeva benissimo recitare se stesso, quel sottosuolo lo teneva per sé.
Leggere i suoi diari,
quindi, mi ha fatto capire ancora di più quanta sofferenza ha
accompagnato le sue battaglie. Era in quella stiva che covava il
fuoco che ha finito per consumarlo: prima con una inaspettata
tendenza alla depressione, poi con la precoce malattia. In questo
senso i diari completano, per me, l’idea che avevo della sua
persona: sono lo yin rispetto allo yang, il buio che accompagna
la luce.
Spesso il mio motociclista partiva da solo, con il si-de car vuoto. Era attratto dalle lontananze, dai mondi oltre i consueti orizzonti. Sentiva la curiosità per terre e modi di vivere diversi dai nostri, e che più diversi erano più lo stimolavano a viverci in mezzo. Era guidato da una vivida Sehnsucht — ancora una parola tedesca — una «brama di vedere», come anche dal suo opposto: la nostalgia di casa.
Si era fatto una
famiglia proprio per non impazzire di solitudine, per avere
sempre un porto al quale riportare la sua nave. Perché se non
avesse avuto casa, dove avrebbe messo la preda, il leone che
aveva appena catturato? Somigliava a quei primati di milioni di
anni fa che, come ho letto in un bel libro di Luigi Zoja,
riuscivano a ricordare il luogo da cui erano partiti in cerca di
qualcosa da mangiare, e a ritornarci ripercorrendo la stessa
strada.
Con questo saper tornare a casa è cominciata la storia dell’uomo. È da allora che ci interessano soltanto i viaggiatori che tornano a casa, non quelli che si perdono, i vagabondi, i senza meta. Ci interessano quelli che ritornano con qualcosa da raccontare.
Lui partiva, come gli antichi, a caccia di conoscenza, e tornava ogni volta con le valige piene. Riportava stoffe leggere, colbacchi di pelo di cane contro il freddo, sandali di rafia, sciarpe con cui asciugarsi il sudore, pararsi dal sole o fasciarsi una ferita. C’erano anche belle stuoie su cui sedersi o dormire, tappeti con cui rendere accogliente una yurta, incensi e statue di idoli, buddha in pose tranquille che sarebbero vissuti fra le nostre cose. E soprattutto tornava con tante belle storie.
Ogni suo ritorno sembrava il ritorno dal paese delle meraviglie. Tutti insieme disfacevamo le sue valige e aggiungevamo nuovi pezzetti di storia alla nostra casa. Poi lui si metteva a scrivere e a chiarirsi le nuove mete. Per la sua vivida immaginazione, la sponda del fiume sulla quale si trovava era sempre quella sbagliata. Dopo un po’, invariabilmente, agognava di trovarsi sull’altra… e ripartiva.
Dall’ultimo viaggio non è tornato e io, da allora, viaggio da sola. Parto per brevi tragitti, prendo strade che ricordo sperando di non sbagliarmi, vado a racimolare quel che lui strada facendo aveva seminato — o nascosto nei suoi diari — e lo riporto a casa.
Il Corriere della Sera -
27 Maggio 2014
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