Dalla Russia con amore. Un romanzo sconosciuto di Simone de Beauvoir
di Clotilde Bertoni
«Poco importa in qual misura e in qual
maniera la finzione si ispiri alla realtà: essa si edifica solo
polverizzandola per farla rinascere a un’altra esistenza. Le comari
intente a frugare nella cenere si lasciano sfuggire ciò che un libro può
offrire loro»: in un tempo in cui le fluttuazioni tra fiction e non fiction
erano meno teorizzate di adesso ma sempre ampiamente praticate, Simone
de Beauvoir commenta così l’ostinazione di vari critici a interpretare i
suoi romanzi (specialmente il più noto, I mandarini) non come
libere reinvenzioni ma come trascrizioni puntuali di fatti autentici, e a
sommergerli di insinuazioni e pettegolezzi. Forse anche per reazione a
questo tipo di accoglienza, dalla fine degli anni Cinquanta Beauvoir
rinuncia alle ibridazioni troppo strette tra verità e fantasia,
innanzitutto ripercorrendo direttamente la sua storia con
un’autobiografia in tre volumi (a cui si aggiungerà poi un quarto, A conti fatti), in seguito imperniando su storie dalla sua molto lontane nuove opere narrative: Le belle immagini, la raccolta di romanzi brevi Una donna spezzata,
e, prima ancora, un altro romanzo breve, iniziato nel 1965 e poi
accantonato, che, apparso postumo nel 1992 sulla rivista «Roman 20-50»
con il titolo Malinteso a Mosca (Malentendu à Moscou),
e ripubblicato nel 2013 in volume, esce ora da noi per Ponte alle
Grazie (pp. 128, E 12,00), curato e tradotto con grande finezza da
Isabella Mattazzi.
Esile, scorrevole, in apparenza tipico “testo minore”, Malinteso a Mosca
nasce in effetti da una sfida complessa, trasferire spunti del proprio
vissuto in dimensioni a esso estranee, esplorare, attraverso prospettive
distanti dalla propria, problematiche vissute intensamente in prima
persona, due in particolare: l’atmosfera della guerra fredda e l’ansia
crescente dell’invecchiamento. Il libro narra un viaggio in Russia di
Nicole e André, rodata coppia di sessantenni, come Beauvoir e Sartre
all’epoca; ma si tratta di due oscuri professori in pensione, uniti,
anziché da una relazione libera, da un ménage coniugale dei più
classici; e se il loro soggiorno (in compagnia di Maša, figlia di primo
letto di André divenuta per scelta cittadina sovietica) ricorda quelli
effettuati dai due scrittori lungo gli anni Sessanta (al fianco di
un’interprete, Lena Zonina, su cui Maša sembra parzialmente modellata), è
alimentato da convinzioni differenti (l’approccio di André all’Urss
muove da una costante, sebbene non più salda, militanza comunista,
mentre quello di Beauvoir e Sartre era sforzo di proseguire, sempre su
posizioni indipendenti, un dialogo già interrotto dopo i fatti
d’Ungheria, e poi faticosamente ricucito in nome dei comuni obiettivi di
lotta).
Inoltre, se il confronto dei
protagonisti con il passaggio degli anni può apparire di ispirazione
autobiografica (come Beauvoir, Nicole patisce il declino del suo aspetto
e delle sue energie; come Sartre, André cerca di ritrovare slancio nel
«calore gioioso» dell’alcool), i loro punti di vista, che si avvicendano
in serrata alternanza, lo legano a altre esperienze e a altre emozioni,
tanto più avvincenti perché di segno opposto. Il restringimento
dell’avvenire sancisce la fine della protratta indeterminatezza di
André, che, dopo aver rifuggito ogni vocazione precisa per restare più
disponibile alle sollecitazioni dell’esistenza, si ritrova costretto
nell’identità di anziano pensionato («la vita […] gli si richiudeva
addosso; né il passato né il futuro gli offrivano più alcun alibi»); la
perdita di presa sul tempo implica invece il definitivo scacco di una
determinazione antica per Nicole, che ha provato a infrangere i vincoli
imposti al suo sesso con ambizioni intense («si era ripromessa di
combattere il suo destino»), ma le ha presto sacrificate all’amore e
alla famiglia (quel sacrificio di cui Beauvoir analizza lacerazioni e
costi attraverso personaggi vari, dalla Paule dei Mandarini alla Monique di Una donna spezzata).
La forza del testo sta soprattutto nella
continua sovrapposizione tra il ritmo piano delle occupazioni e
impressioni di viaggio (le lunghe file di Mosca, l’incanto di
Leningrado, il cibo ora pessimo ora squisito, la contemplazione delle
chiese, l’oppressione della burocrazia) e quello tortuoso delle
riflessioni e dei rimpianti: improntati, come nota Mattazzi, a un
diverso rapporto con il tempo, perché se André si volge ancora al
presente, Nicole teme di vedersi sfuggire anche il passato, si interroga
su una felicità sentimentale sempre data per certa, si chiede se la sua
vita sia stata davvero «quella che lei si raccontava». Meno riuscito è
il tentativo di incanalare il pulviscolo centrifugo delle sensazioni e
dei pensieri nella tensione centripeta di un pur evanescente intreccio:
il dissapore occasionale ma doloroso in cui culminano le inquietudini
della coppia, è inscenato troppo sbrigativamente, e ancor più
sbrigativamente risolto da un finale consolatorio; inoltre, nella misura
circoscritta dalla narrazione i vasti temi messi in gioco non trovano
sempre respiro adeguato.
Probabilmente questa fu l’impressione della stessa autrice, che (a quanto emerge dai cenni di A conti fatti)
avrebbe voluto dare all’opera maggior sviluppo, e che finì per
lasciarla da parte, senza però dimenticarla: abituata ai rimaneggiamenti
meticolosi, ci tornò sopra per ricavarne un nuovo romanzo breve, L’età della discrezione, uscito nel 1967, nella già citata raccolta Una donna spezzata. Caso complesso di riscrittura (interessantissimo da analizzare), L’età della discrezione
conserva molto dell’ipotesto, anche riprendendone alla lettera parecchi
passaggi, ma ne ridisegna totalmente l’impianto. L’azione si sposta
dalla Russia alla Francia, la figura di Maša scompare, entrano invece in
scena personaggi solo evocati nella prima versione (il figlio comune,
la madre di André), i protagonisti sono trasformati in due studiosi
universitari di successo, ed è solo la prospettiva di lei (divenuta io
narrante della storia) a filtrare i loro persistenti disagi: l’imbarazzo
di non identificarsi in nessun partito, di «essere contro tutto»; e
l’imminenza della vecchiaia, di cui viene illustrato un ulteriore
risvolto, l’appannamento della vivacità intellettuale, la
fossilizzazione involontaria e persino inconsapevole nelle stesse idee.
Anche stavolta, però, Beauvoir si
dichiarò insoddisfatta dell’esito, affermando di aver solo sfiorato
questioni troppo ampie; e che forse la toccavano troppo da vicino per
provare ancora a scrutarle attraverso altri punti di vista, per farne
ancora materia di universi immaginari. Non avrebbe più raffigurato
l’inasprimento dello scenario politico, nei fatti sempre fronteggiato
insieme a Sartre, con un impegno tanto misconosciuto (attestato, proprio
in epoca contigua alla comparsa dell’Età della discrezione,
sia dall’appassionata partecipazione al maggio 68 sia dalla rottura
consumata con l’Urss dopo la repressione di Praga); avrebbe invece
continuato a indagare i pesi della vecchiaia e a demistificare i luoghi
comuni usati per camuffarli, ma in forme diverse: con il saggio La terza età, con la parte finale dell’autobiografia, e infine con La cerimonia degli addii, cronaca degli ultimi anni di Sartre, esposizione di quello che Malinteso a Mosca e L’età della discrezione
già paventano, il mortificante deterioramento del corpo e della
lucidità, l’insediamento graduale della morte nella vita quotidiana.
Un’esposizione cruda, amarissima, che sarebbe costata una nuova pioggia
di attacchi all’autrice, del resto abituata a misurarsi, oltre che con
il gossip dei recensori «comari», con l’acrimonia dei critici che non le
perdonavano un’altra rappresentazione scomoda, quella della condizione
femminile, e che arrivarono pure a rinfacciarle l’età di cui lei andava
mostrando la durezza, senza riuscire a turbarla più di tanto:
commentando Una donna spezzata, Mathieu Galey scrisse «Eh sì,
signora, è triste invecchiare»; «Benché sapessi quanto detestava le
donne, la sua villania mi sorprese», si limitò a osservare lei.
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