Non nascondiamo che la
sconfitta dei fascistelli (a loro insaputa) del M5S ci abbia fatto
piacere e che la vittoria di Renzi sia nel quadro attuale il male
minore. Resta il fatto che, pur raggiungendo il quorum e dunque un
risultato positivo, la sinistra abbia ancora perso voti (oltre 700
mila) rispetto alle politiche di un anno fa. Niente trionfalismi,
dunque, ma una seria riflessione sul come ripartire per rilanciare
la presenza anche in Italia di una sinistra alternativa ad una
politica (PD) incapace di pensare l'esistente al di fuori della
logica del capitale. I segnali che ci arrivano da SEL e PRC non ci
paiono incoraggianti. Da un lato la tentazione dell'accodamento
opportunistico al carro dei vincitori, dall'altro un massimalismo
nostalgico e identitario del tutto privo di prospettive. Tacciamo,
per pudore, dell'estremismo infantile da terzo periodo dei residuati
groppuscolari tipo Rossa, PCL et similia. Importante invece il segnale
che viene dai movimenti di cittadinanza attiva e da una parte del mondo
intellettuale.
Alfonso Gianni
In Italia la sinistra
ricomincia da quattro
Il voto di
domenica, richiama innanzitutto una lettura
europea che non si presta a giudizi
semplificati. Per alcuni paesi, come il nostro o la
Francia si è trattato di un vero terremoto;
nel contempo, pur marcando inquietanti successi,
le destre antieuropeiste non travolgono
i rapporti di forza nel parlamento europeo,
ove aumenta di consistenza l’area di un europeismo
critico da sinistra attorno a Tsipras.
I popolari, pur restando primi, indietreggiano
e non poco, la stessa cosa fanno i socialdemocratici,
seppure in misura minore.
Nel contempo per la
prima volta dal 1979 la percentuale dei votanti non
è scesa, se non di un decimale, attestandosi sul
43%. In Italia è invece diminuita fortemente,
del 7,7%, scendendo sotto il 60% per la prima volta in una
elezione di carattere generale.
La strada delle larghe
intese sul modello tedesco continua a essere la
più probabile in quel di Strasburgo, anche se le
figure di riferimento possono cambiare. Né
Juncker né Schulz escono dalla contesa in grande salute ed
è possibile che il ruolo di presidente
della commissione possa andare ad altri. Matteo Renzi
progetta di chiedere il posto per qualcuno dei suoi,
in subordine di aspirare alla carica di ministro degli
esteri, in sostituzione della scialba Ashton, o di
avere il ricco portafoglio dell’Agricoltura. Insomma
il partito di Renzi si prepara a contare di più
in Europa, al di là del prossimo semestre italiano.
Mentre il duopolio Francia – Germania
su cui si era fondata tutta la costruzione politica,
economica e istituzionale europea
da Maastricht in poi è travolto dal disastro
francese.
Questi cambiamenti
e nello stesso tempo il perdurare e il
confermarsi di vecchie tendenze, producono
un effetto di spiazzamento anche nei giudizi di
intellettuali da sempre attenti alla dimensione
europea (si parva licet componere magnis). Ulrich Beck
proclama la fine dell’austerità. E’ vero che la Merkel
appare più sola nel contesto europeo; soprattutto
la Bce nella sua imminente riunione dei primi di giugno
si appresta ad abbassare verso lo zero i già
bassissimi tassi di interesse e di renderli
negativi per ostacolare i depositi delle
banche presso l’istituto di Francoforte che
inibiscono il credito alle imprese e alle
persone; dunque che qualche misura contro la
deflazione e la recessione verrà presa.
Ma risulta difficile
pensare che una teoria come quella dell’austerità
espansiva, falsificata dall’evidenza dei fatti
e delle cifre, possa essere superata per autoriforma,
senza che compaia a contrastarla una teoria
almeno di uguale forza e capacità di attrazione.
Questa c’è, ma per ora vive solo nei programmi che hanno
portato all’affermazione le liste che facevano
riferimento a Tsipras e poco più. Quello
che è vero, e le conseguenze sono ancora
peggiori, è che le teorie del rigore rivivono
nella dimensione della precarietà espansiva,
ovvero delle devastanti misure strutturali che
precarizzano definitivamente il
lavoro, su cui il nostro governo si è particolarmente
distinto con il decreto Poletti.
Dal canto suo Alain Touraine, prima invoca un sussulto repubblicano in Francia per contenere l’ondata populista dei Le Pen, poi consiglia di dare più poteri al primo ministro Manuel Valls, ovvero al più destrorso della scombiccherata compagine di Hollande, il che provocherebbe esattamente l’effetto opposto se è vera la sua analisi di una “connessione sentimentale” fra il Fn e gli strati popolari.
In questo quadro
assume una importanza decisiva l’affermazione di liste
che fanno riferimento a Tsipras o che
chiedono di fare gruppo assieme — come “Podemos” la
formazione elettorale che trae origine dal
movimento degli indignadosspagnoli (che con
il suo 8% ha eletto ben 5 deputati) – e naturalmente
il risultato di Syriza che lo conferma primo partito
in Grecia. E’ dall’insieme di queste forze che bisogna
ripartire per mettere seriamente in crisi le
politiche di austerità, evitare la loro
camaleontica riproposizione e invertire
la rotta verso politiche anticicliche,
solidali e occupazionali.
La vicenda italiana
è contrassegnata dall’enorme balzo in avanti
del Pd su livelli che solo la vecchia Dc aveva toccato in
un lontano passato e dalla sconfitta secca del
M5Stelle che cede soprattutto voti all’astensione. Chi aveva
pensato a un neobipolarismo
Renzi-Grillo deve rivedere le sue analisi. Verrebbe da
dire che dal bipartitismo imperfetto di cui
parlava lo storico Giorgio Galli, basato sul
duopolio Dc-Pci (con la conventio ad
excludendum nei confronti di quest’ultimo) si
stia passando a un monopartitismo
imperfetto, fondato sul Pd e su un sistema di partiti
il maggiore dei quali non raggiunge che la metà dei
suoi voti.
In questo quadro
è evidente che l’espressione stessa centrosinistra,
con o senza trattino, ha perso ogni significato.
Almeno per quanto riguarda il governo nazionale. Veltroni
non ha torto di gongolare, anche se il partito
a vocazione maggioritaria che lui aveva
pensato, mandando in crisi di fatto il secondo governo
Prodi e riaprendo la strada a Berlusconi, si
realizza sotto un’altra stella. Chi, d’altro canto, parla di
fare un partito unico con il Pd, finge di non accorgersi di
predicare una semplice confluenza.
Il quorum de
“L’altra Europa con Tsipras” ha interrotto la serie
dei fallimenti elettorali a sinistra.
E’ vero che è un risultato risicato e che il
numero di voti conquistati non fa la somma delle
organizzazioni che hanno dato il loro appoggio
alla lista. Ma questo segnala per l’appunto la perdita di
consensi di questi micro partiti e la scelta
vincente di dare vita a una lista di
cittadinanza.
Interrompere questa esperienza sarebbe un suicidio senza resurrezioni. Lo sarebbe anche per la democrazia italiana che vedrebbe ulteriormente ristretta le possibilità di espressione e rappresentanza politica, aprendo a nuove derive neoautoritarie. Aprire una fase costituente di una forza di sinistra, dal basso e dall’alto, sul piano della produzione culturale e dell’elaborazione politica, come su quello della prassi nei movimenti è il compito che ci spetta.
il manifesto - 31 Maggio
2014
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