La nazioni europee e la fine dell’Europa
di Mauro Piras30 maggio 2014 http://www.leparoleelecose.it/
Il quadro è cupo. L’Europa delle nazioni
tende all’autodistruzione, come già due volte nel corso del Novecento. E
nel centesimo anniversario della prima volta, che l’ha ridimensionata
definitivamente nel potere mondiale. Le elezioni di domenica scorsa ci
consegnano una Unione Europea indebolita e frammentata, lacerata da
tendenze contraddittorie, in cui predomina la diffidenza non solo verso
le istituzioni europee, ma anche verso il proprio vicino di casa.
La partecipazione a queste elezioni,
43,1 %, è bassa, ma non diversa da quella del 2009, anzi in leggerissimo
aumento, con una inversione della tendenza costante alla diminuzione
dell’affluenza alle elezioni europee dal 1979 a oggi. In alcuni paesi le
percentuali sono state più basse: in Gran Bretagna, nei Paesi Bassi, in
Francia. Ma è stata intorno al 60 % sia in Italia che in Grecia. In
generale comunque c’è stato un astensionismo diffuso, che solitamente ha
colpito i partiti al governo e i partiti tradizionalmente europeisti,
quindi popolari e socialisti. In Gran Bretagna il basso tasso di
partecipazione ha favorito l’Ukip, e ha svuotato le urne per Laburisti e
Conservatori (per tacere dei Liberaldemocratici). In Francia, stessa
situazione nei rapporti tra Front National, Ump e Ps. L’Italia fa
eccezione, perché come vedremo più sotto l’astensione ha colpito invece i
partiti di opposizione, anche “euroscettici”, e non il Pd.
Il dato politico fondamentale è la
svolta antieuropea. Il disagio sociale generato dalla crisi è stato
incanalato in prevalenza verso forze politiche ostili all’Unione
Europea, nazionaliste, con tendenze populiste. In numerosi paesi,
infatti, queste forze sono arrivate prime o seconde, con risultati
elettorali intorno al 20%, se non ben oltre. L’Italia in un certo senso
non fa eccezione a questo quadro, il M5S è arrivato secondo con il 21%.
Dove non hanno vinto queste forze, hanno vinto invece partiti di
sinistra radicalmente critici nei confronti delle politiche economiche
dell’Unione, che anche se non si sono presentati come anti-europei,
hanno però più volte attaccato la moneta unica e presentato la propria
nazione come vittima dell’internazionalismo del capitale. In Spagna,
Izquierda Unida con i suoi alleati ha ottenuto un buon risultato (9,99
%), che unito alla nuova sigla nata dagli indignados, Podemos (7,97 %), porta quest’area di sinistra al 18 %. In Grecia, la vittoria di Syriza è nota.
Il tratto comune di queste elezioni, in
tutti i paesi, è il fallimento dei partiti istituzionali europei, quelli
dell’area PPE e PSE. I partiti socialisti sono crollati miseramente in
Francia, Spagna e Grecia, e nel complesso hanno fatto una performance
mediocre; l’Spd cresce rispetto alle politiche dell’anno scorso, ma
resta su un poco significativo 27%. Per questa ragione i socialisti
europei non sono riusciti a rovesciare la maggioranza a favore dei
popolari, alla quale in fondo poteva essere addebitata la politica
economica di questi anni. I partiti popolari quindi, come è evidente,
hanno vinto solo parzialmente la partita, perché molto ridimensionati. E
se hanno vinto è perché anch’essi, in fondo, sono generati dal
nazionalismo. La politica economica miope che ci ha portato
all’esasperazione della crisi del debito è stata imposta prevalentemente
dagli interessi dei governi nazionali. In questo, il successo relativo
della Cdu a guida Merkel è una conferma della tendenza generale: come
già alle elezioni nazionali del settembre scorso, questo partito
contiene in sé non soltanto le spinte moderate, ma anche il populismo
nazionalista che tutela gli interessi locali a scapito dell’equilibrio
europeo. La differenza rispetto ai paesi del sud o alla Francia è che
questo è il populismo dei vincitori, non dei perdenti, e quindi tende a
preservare le posizioni di rendita della Germania nell’economia europea.
Quindi, chi fallisce del tutto sono i
partiti europeisti istituzionali, che restano attaccati a una visione
tradizionale dell’equilibrio europeo, fatta di compromessi tra governi e
soluzioni tecnocratiche. Questa visione porta in sé di fatto il germe
delle forze nazionaliste che prevalgono dietro le quinte di questi
equilibri, e che esplodono in altre direzioni una volta che la politica
della UE si è dimostrata fallimentare. Esplodono cioè verso una tendenza
a smantellare le istituzioni europee, a diminuire i vincoli
nell’illusione che così ogni nazione sarà padrona di se stessa, come
dice Marine Le Pen. Come è noto, l’Italia, con la vittoria del Pd, fa
eccezione. Ma solo in parte: il Pd ha vinto, conquistandosi di fatto la
guida politica del gruppo Pse al Parlamento europeo, perché si è
smarcato brutalmente dal linguaggio, dallo stile e dalle proposte di
partiti socialisti tradizionali Qualcuno ha osservato giustamente che
anche Renzi, come i suoi avversari politici, Berlusconi e Grillo, ha
condotto una campagna in cui non ha mai difeso l’UE. È vero che si è
sempre dichiarato a favore delle istituzioni europee, dell’euro, degli
impegni presi ecc., però ha sempre tuonato contro la politica europea,
contro i vincoli, contro i tecnocrati ecc. Insomma, ha cavalcato il
disagio antieuropeo, per quanto lo abbia incanalato diversamente.
Inoltre, una cosa che forse non è stata notata abbastanza, dopo il voto,
è quanto lui abbia insistito sull’idea di nazione: in ogni intervento
pubblico ha sempre detto che queste elezioni erano un’occasione per
l’Italia, ha sempre fatto appello ai sentimenti degli Italiani ecc. In
questo, ha assunto su di sé vigorosamente la spinta nazionalista.
Quindi, in un certo senso, anche il Pd di Renzi ha seguito l’onda
dominante. E infine, è ben noto che Renzi incarna anche una componente
populista, dal momento che è riuscito a stabilire un rapporto diretto
tra elettorato e leader, che manca nei partiti tradizionali, così come
mancava al Pd; ed è invece ben forte tra la Merkel e il suo elettorato.
I risultati di questo quadro iniziano a
vedersi. Nel Consiglio Europeo che si tiene in questi giorni la miopia
dei governi nazionali prevale di nuovo. Diversi capi di governo, e in
particolare Cameron e la Merkel, si sono opposti alla candidatura di
Juncker alla guida della Commissione, nonostante la vittoria dei
popolari e nonostante i partiti del Parlamento europeo avessero già dato
il loro accordo a questa candidatura. Questa nasce, come è noto, dalla
novità più importante di queste elezioni: la svolta imposta dai partiti
europei, che hanno interpretato il Trattato di Lisbona nel senso di far
eleggere direttamente dai cittadini il presidente della Commissione.
Poiché però sulla carta l’ultima parola spetta al Consiglio Europeo, i
capi di governo si sono messi di traverso. Perché ai governi fa più
comodo avere presidenti politicamente deboli, e anche perché Cameron
cerca così di apparire più nazionalista di Farage. Come dovevasi
dimostrare, gli interessi nazionali e le spinte nazionaliste determinano
i giochi e minano la democrazia europea. Gli elettori europei, se
prevalgono questi orientamenti, vengono beffati: dopo averli portati al
voto dicendogli che stavano scegliendo il presidente della Commissione,
li si priva improvvisamente di questa libertà, imponendo una decisione
dall’alto. Questo mina ulteriormente la legittimità delle istituzioni
europee. Le cause e gli effetti della crisi politico-economica
dell’Europa si avvitano in una spirale suicida: la difesa degli
interessi nazionali che ha esasperato la crisi del debito porta a un
rafforzamento elettorale nei nazionalismi che distrugge ancora di più
quel poco di democratico e di veramente europeo che c’è nella UE. La
disaffezione crescerà ancora, e le chiusure nazionalistiche porteranno a
un ulteriore aggravarsi della crisi economica.
Due parole sulla provincia italiana.
Queste elezioni hanno avuto, come è ben noto, un forte significato di
politica interna, data la campagna elettorale che abbiamo visto. Però,
allo stesso tempo, e come negli altri paesi, anche un significato
europeo, dal momento che un tema dominante è stato l’attacco alle
politiche dell’UE. Questo strano intreccio spiega che l’affluenza alle
urne, nonostante il calo rispetto alle ultime europee, non sia però
crollata come si temeva. L’astensione ha avuto un forte significato
politico interno. Ha colpito infatti soprattutto Forza Italia e il M5S. I
flussi elettorali mostrano che il Pd è riuscito a mobilitare tutto il
suo elettorato, a recuperare un po’ di delusi persi alle ultime
politiche, a prendersi quasi interamente il voto di Scelta Civica e a
prendersi un po’ di voti grillini, alcuni dei quali erano migrati dal
centrodestra l’anno scorso. Sono quindi le altre forze che hanno pagato
l’astensione. Questo è in controtendenza rispetto agli altri paesi
europei, in cui l’astensione ha castigato soprattutto partiti di governo
e sinistre istituzionali, e le grandi vittorie di forze euroscettiche,
nuove o prima marginali, sono state causate proprio da questo dato e da
una grande capacità di mobilitazione. Da noi invece gli euroscettici le
hanno prese. Insomma, se l’astensione di protesta si è unita al voto di
protesta in quasi tutta Europa, in Italia l’astensione di protesta è
stata accompagnata da un voto di cambiamento, ma istituzionale. Ho già
detto sopra che il Pd di Renzi ha realizzato questa performance anche
grazie a una certa dose di nazionalismo e populismo, in questo seguendo
la tendenza dominante, ma “addomesticandola”, per così dire.
Però il Pd ha vinto anche per la
peculiarità della situazione italiana. Ovviamente, con un tasso di
partecipazione poco meno che al 60% la vittoria del Pd al 40% va
collocata nei suoi giusti limiti; probabilmente, in elezioni politiche
nazionali, con un tasso di partecipazione intorno all’80%, potrebbe
essere più bassa. Va detto però che nelle elezioni amministrative, in
cui la partecipazione è stata oltre il 70%, il Pd ha mantenuto
percentuali intorno al 40%. Qualcosa di radicale quindi è avvenuto. La
novità è che la sinistra istituzionale è stata capace di uscire dal suo
recinto elettorale, è stata capace cioè di mobilitare il voto di
elettori che hanno sempre diffidato di lei. Il segnale più importante in
questo senso viene dal voto nel Nord-Est: i piccoli imprenditori di
quest’area, tradizionalmente elettori di centrodestra, Forza Italia o
Lega, l’anno scorso hanno spostato una parte considerevole di voti su
Grillo; questi stessi voti si sono spostati domenica sul Pd. In
generale, in tutta l’Italia produttiva, quindi anche in Piemonte e
Lombardia, il Pd si è affermato con forza. È evidente che questo tipo di
elettorato non si fida più del centrodestra, diviso e senza una
prospettiva politica chiara (e colpevole di non avere mantenuto molte
promesse); né si fida dei grillini, non solo perché non hanno portato
risultati dopo la vittoria dell’anno scorso, ma anche perché in una
situazione di debolissima ripresa economica vengono sentiti come fattore
di instabilità. Non era però scontato che questo voto andasse al Pd.
Poteva finire nell’astensione, disperdersi in molti rivoli di protesta.
Invece è finito a Renzi perché lui ha rotto brutalmente con la
tradizione politica del Pd, su tutti i lati, e ha saputo cogliere gli
umori dell’elettorato, anche quelli più “neri”, per certi versi: colpire
la classe politica, gli alti dirigenti, fare le riforme istituzionali
per alleggerire la politica, attaccare i sindacati ecc. E soprattutto
mostrare che si è disposti a spendere i soldi dello stato per
intervenire sulla tassazione e sulla politica economica, dichiarando
chiusa la politica dell’austerità, senza però mostrare rischi di
destabilizzazione. Con questo equilibrismo improbabile tra tendenze
anche contraddittorie, Renzi è riuscito a mettere insieme questa base
elettorale: è riuscito nell’impresa apparentemente impossibile di
prendere i voti delle partite Iva abbassando le imposte sul lavoro
dipendente. Ma li ha presi con un radicale cambiamento di cultura
politica, quella cultura che ha relegato per decenni la sinistra in un
recinto sostanzialmente autoreferenziale.
Con questa trasformazione, tuttavia, non
si è trasformato in un partito di centro come la vecchia Dc. La
pigrizia intellettuale di non voler capire i cambiamenti e di leggere
sempre le cose con gli occhiali del passato ha spinto molti, soprattutto
a sinistra, a dire che il Pd al 40% è la nuova Dc. Tesi del tutto
infondata. La base elettorale lo mostra: anche se ha preso una parte dei
voti delle partite Iva deluse dal centrodestra e poi da Grillo, i
flussi elettorali mostrano che il Pd non ha preso quasi nulla del voto
di Forza Italia, che è sprofondato nell’astensione. Quindi attualmente
c’è un elettorato di centrosinistra, che sostiene il Pd, e un elettorato
di centrodestra, disperso e in parte inabissato, che conferma la
sostanziale polarizzazione del paese. Inoltre, è evidente che il Pd non è
la Dc per classe politica, perché il rinnovamento generazionale ha
posto alla guida persone cresciute dopo la contrapposizione Dc-Pci. E
soprattutto non lo è dal punto di vista della cultura politica, perché
la profonda trasformazione che ha reso possibile la vittoria e,
finalmente, il recupero del voto dei settori produttivi, è il rifiuto
netto, a volte persino semplicistico, della cultura della conciliazione
degli interessi, del pluralismo degli interessi, che era il fondamento
culturale e sociale della Dc, e che trovava il suo simmetrico speculare
nel pragmatismo ammantato di ideologia del Pci. Il persistere ostinato
di queste tradizioni dentro il Pd lo paralizzava, moltiplicando i tiri
incrociati delle correnti. La nascita di un partito in cui il leader si
legittima con un rapporto diretto con l’elettorato ha spazzato via tutto
questo.
Ancora una osservazione sulla pessima
prova italiana della lista Tsipras. La “sinistra sinistra” ha perso
un’occasione. I partiti che hanno appoggiato Tsipras non sono stati
capaci di unirsi veramente e di proporre un progetto politico forte,
sostenuto dai gruppi dirigenti di questi partiti con un coinvolgimento
attivo, e proponendo candidati di profilo politico forte. Si è visto
bene che la sinistra perde, e diventa sempre più marginale, perché
frammentata e senza prospettiva politica. La scelta, un po’ grillina, di
candidare solo “non politici”, che non avessero già nessuna carica,
mascherava anche il fatto che queste forze non hanno saputo unirsi
davvero. Inoltre, questa lista di intellettuali, artisti, giornalisti
ecc. ha dimostrato di essere inadatta a una campagna elettorale, e si è
fatta percepire come una “gauche caviar” un po’ fuori dal mondo. Avere
superato per un pelo la soglia di sbarramento è il prodotto finale di
tutto questo. Ma si tratta di una importante occasione mancata, data
invece la forza di Tsipras nel suo paese. Il sistema politico italiano
potrà trovare un equilibrio, e uscire dalla sua crisi ventennale, non
solo se il centrodestra esce dalla tutela berlusconiana, ma anche se la
sinistra a sinistra del Pd trova la sua consistenza, dando
rappresentanza a un’area che in tutti i paesi democratici ha una sua
presenza significativa.
(Torino, 29 maggio 2014)
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