Perché si affermano i partiti populisti? Basta guardare al profilo per età del voto populista, giovane al Sud e vecchio al Nord.E la soluzione passa per politiche europee che sappiano affrontare davvero il problema della disoccupazione giovanile nei paesi più periferici.
Tito Boeri
Dietro il populismo
Squilibri e spinte migratorie. Se si pensa all’Unione Europea come a un
unico paese e si guarda alla diseguaglianza dei redditi, concentrandosi
in particolare sui giovani, si comprendono bene le ragioni che stanno
dietro alla vittoria dei movimenti populisti alle elezioni
europee. L’indice più comune per misurare la diseguaglianza, il
coefficiente di Gini, tra i redditi delle famiglie con capofamiglia di
meno di 30 anni è cresciuto marcatamente in tutto il periodo della
grande recessione e della crisi del debito dell’Eurozona. È passato dal
28,5 per cento nel 2007 al 31,5 per cento nel 2011: un aumento del 10
per cento. E il rapporto “primi dieci-ultimi dieci” è aumentato in
maniera simile, da 4 a 5: significa che il reddito medio nel decile più
alto nella distribuzione è ora cinque volte maggiore del reddito medio
nel decile più basso. L’aumento della disuguaglianza tra i giovani non è
dovuto, come per gli altri gruppi d’età, a una concentrazione nella
parte più alta della scala dei redditi, con alcune persone molto ricche
che aumentano la loro distanza dal resto della popolazione. I giovani,
che già all’inizio della crisi erano sottorappresentati nella parte più
alta della distribuzione del reddito, sono oggi una percentuale ancora
minore rispetto agli altri gruppi di età.
La diseguaglianza dei redditi è aumentata principalmente a causa delle
differenze nei livelli di disoccupazione giovanile. In Grecia e Spagna i
tassi di disoccupazione in quella fascia sono oltre il 50 per cento, in
Italia sopra il 40 per cento, mentre in Austria e Germania sono sotto
la doppia cifra. È significativo che sia l’aumento della diseguaglianza
dei redditi sia l’aumento delle differenze nei tassi di disoccupazione
giovanile tra le diverse aree dell’Unione Europea abbiano una dimensione
marcatamente nazionale: la diseguaglianza tra paesi è quasi
raddoppiata, mentre all’interno dei paesi la crescita delle
diseguaglianze è stata molto più contenuta; nel caso dei tassi di
disoccupazione, la variazione inter-regionale all’interno di ogni paese
si è dimezzata, mentre la differenza tra paesi è aumentata di due volte e
mezzo.
Populismi del nord e populismi del sud. Perché tutto questo è importante per capire la vittoria del populismo alle elezioni europee? I giovani sono la componente più mobile della popolazione e sperimentare la disoccupazione così presto, quasi all’inizio della loro vita lavorativa, lascia cicatrici profonde. Quelli che vivono nei paesi con un’alta disoccupazione (il cosiddetto ClubMed, incluso il Portogallo) hanno solo due opzioni: exit or voice - andarsene via o “farsi sentire”. Londra e Berlino sono state inondate da giovani italiani e spagnoli. E ancora di più da giovani bulgari o rumeni che hanno lasciato l’Italia o la Spagna per cercare lavoro altrove. L’alternativa è farsi sentire e i movimenti populisti del Sud Europa tendono a consentire ai giovani proprio quel tipo diprotesta radicale contro le istituzioni europee e l’euro che più apprezzano. Il profilo di età dei voti di Tsipras in Grecia, del movimento di Grillo in Italia, di Podemos in Spagna e del Front National in Francia è molto ben definito: in molte circoscrizioni, questi movimenti sono il primo partito tra coloro che hanno meno di 30 anni.
Populismi del nord e populismi del sud. Perché tutto questo è importante per capire la vittoria del populismo alle elezioni europee? I giovani sono la componente più mobile della popolazione e sperimentare la disoccupazione così presto, quasi all’inizio della loro vita lavorativa, lascia cicatrici profonde. Quelli che vivono nei paesi con un’alta disoccupazione (il cosiddetto ClubMed, incluso il Portogallo) hanno solo due opzioni: exit or voice - andarsene via o “farsi sentire”. Londra e Berlino sono state inondate da giovani italiani e spagnoli. E ancora di più da giovani bulgari o rumeni che hanno lasciato l’Italia o la Spagna per cercare lavoro altrove. L’alternativa è farsi sentire e i movimenti populisti del Sud Europa tendono a consentire ai giovani proprio quel tipo diprotesta radicale contro le istituzioni europee e l’euro che più apprezzano. Il profilo di età dei voti di Tsipras in Grecia, del movimento di Grillo in Italia, di Podemos in Spagna e del Front National in Francia è molto ben definito: in molte circoscrizioni, questi movimenti sono il primo partito tra coloro che hanno meno di 30 anni.
L’altro lato della medaglia è il populismo del Nord Europa, che somiglia
molto a una collezione di sentimenti anti-immigrazione. L’Ukip ha fatto
la sua campagna contro il flusso di cittadini europei, chiedendo lo
smantellamento della libera mobilità dei lavoratori, uno dei pilastri
dell’Unione Europea fin dal trattato di Roma. E non sorprende che il
profilo di età sia, in questo caso, speculare rispetto al populismo del
Sud: quasi il 90 per cento dei sostenitori di Nigel Farage ha più di 40
anni, 3 sostenitori del People’s Party danese su 4 hanno più di 50 anni e
il FPÖ austriaco ha percentuali doppie tra gli ultra cinquantenni. La
concentrazione all’altro capo dello spettro di età nel populismo del
Nord è dovuta al fatto che i lavoratori più anziani rappresentano le
componenti meno mobili della popolazione ed è quindi probabile che
soffrano di più per la competizione dei giovani lavoratori che arrivano
da altre parti dell’Unione.
Come spendere meglio le risorse. Se l’analisi è corretta, ne consegue
che sarà difficile per i movimenti populisti europei coordinare i loro
voti utilizzando la grande fetta di seggi che si sono guadagnati nel
Parlamento europeo. Ma ci sono lezioni ancora più importanti da imparare
riguardo al futuro dell’Europa. A meno che non si faccia qualcosa per
affrontare il problema delle diseguaglianze tra paesi e della
disoccupazione giovanile, questa tendenza proseguirà e porterà con sé,
al Nord, tensioni per l’immigrazione e, al Sud, fuga di cervelli ed
euroscetticismo. Non è una prospettiva positiva per l’integrazione: è
poco probabile che così si promuova un’identità europea, qualunque essa
sia. I politici tedeschi conoscono molto bene la questione, dal momento
che l’hanno dovuta affrontare dopo l’unificazione della Germania,
spendendo molto per prevenire la migrazione da Est a Ovest.
Fortunatamente, in questo caso, non c’è bisogno dei massicci
trasferimenti fiscali registrati dall’Ovest verso l’Est dopo la caduta
del Muro di Berlino. Sarebbe sufficiente prestare più attenzione allo
sviluppo nelle economie più periferiche quando si prendono decisioni di
politica monetaria, partendo col pianificare una svalutazione dell’euro
rispetto al dollaro.
Allo stesso tempo, il bilancio europeo dovrebbe essere usato meglio per
affrontare i problemi legati alla disoccupazione giovanile. Oltre a
essere troppo contenuta (6 miliardi di euro, ovvero, circa 400 euro per
giovane disoccupato all’anno), l’Iniziativa europea per l’occupazione
giovanile si dà obiettivi sbagliati e coinvolge attori sbagliati: si
propone di avviare al lavoro i giovani nei paesi in cui non ci sono
posti disponibili per loro; inoltre, trasferisce denaro dal bilancio
europeo direttamente alle regioni povere, saltando le giurisdizioni
nazionali, mentre l’aumento della disoccupazione giovanile ha una
dimensione marcatamente nazionale. Il risultato sono programmi regionali
co-finanziati dall’Ue che, per contrastare la disoccupazione giovanile,
si affidano a una grande varietà di progetti di piccola portata e di
durata limitata. Vi rientrano molti corsi di formazione più adatti ad
arricchire chi tiene il corso (spesso con curricula limitati, come
quelli per estetista) che ad aiutare effettivamente coloro che
dovrebbero beneficiare della formazione.
Nell’ambito dell’iniziativa non c’è spazio, invece, per le riduzioni
fiscali permanenti e i sussidi salariali che promuoverebbero la domanda
di lavoro per i più giovani nei paesi con un alto tasso di
disoccupazione. Insomma, si ripetono esattamente gli stessi errori
compiuti nell’allocazione dei fondi strutturali: spesso i governi locali
non sanno che fare di questi soldi e finiscono o per non spenderli (la
stessa efficiente amministrazione tedesca utilizza non più del 60 per
cento delle allocazioni dei fondi strutturali) o per disperderli in una
miriade di piccoli progetti, i cui costi di gestione superano
frequentemente il 50 per cento del budget di ciascun singolo progetto.
Con le regole attuali, alle nazioni in crisi converrebbe arrivare a un
accordo di “zero a zero”: non contribuire in alcun modo al bilancio Ue e
non riceverne nulla in cambio. Ma se chi più ha bisogno di sostegno
sotto i colpi di crisi asimmetriche ricava un maggior beneficio
chiamandosi fuori dal fondo comune, è evidente che quel fondo comune non
ha ragione di esistere sotto il profilo della condivisione del rischio e
del mutuo soccorso. L’Iniziativa europea per l’occupazione giovanile
dovrebbe quindi essere riconsiderata, consentendo il finanziamento di
programmi nazionali per la creazione di posti di lavoro nei paesi con
un’alta disoccupazione giovanile, mentre i fondi strutturali dovrebbero
trasformarsi in strumenti per sostenere quelle riforme strutturali che
incrementino la convergenza economica all’interno dell’Unione.
Dovrebbero essere fondi per compensare gli svantaggi della
liberalizzazione economica secondo la filosofia dei Contractual Arrangements, oltre che per assorbire gli shock.
Oggi non ci sono le basi per un ampliamento del bilancio dell’Ue, ma
possiamo iniziare a spendere meglio il denaro a disposizione
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