23 maggio 2014

PRIMA DI TUTTO IL LAVORO




C'è stato un tempo in cui il sindacato lottava e i sindacalisti non sedevano nei consigli d'amministrazione a cogestire l'esistente. Pierre Carniti è stato un protagonista di quella stagione. Pubblichiamo ampi stralci di un suo articolo sulla crisi e sulle proposte per creare occupazione che sarà pubblicato sul prossimo numero di «Mondoperaio».

Pierre Carniti

Se non si ridistribuisce il lavoro la disoccupazione ci divorerà

Malgrado il tema del lavoro sia oggetto di sempre più debordanti inchini retorici, la disoccupazione resta un problema dei disoccupati. Né potrebbe essere diversamente, considerato che negli ultimi anni le politiche pubbliche si sono concentrate sulla cosiddetta «riforma del mercato del lavoro», che ha moltiplicato forme e normative dei rapporti di lavoro lasciando ovviamente immutata la dimensione della disoccupazione. Così, più diventava chiaro che il problema con cui eravamo (e siamo) alle prese è la mancanza di domanda di lavoro, più ci si è accaniti con interventi sul versante dell’offerta.

Quel che è certo - venga aggiunta o meno qualche nuova immaginifica norma al già ricco armamentario dei contratti di lavoro - è che non ci saranno effetti sulla disoccupazione. Per affrontare concretamente il problema il primo aspetto di cui si deve tenere conto è la disoccupazione provocata da «insufficienza da domanda effettiva»: ossia da domanda assistita da una adeguata distribuzione dei redditi. L’assunto è semplice. Essendo necessaria manodopera per produrre le merci, se queste non trovano domanda adeguata sul mercato l’occupazione è inevitabilmente destinata a calare. È appunto quanto è avvenuto nel corso della crisi con cui siamo ancora alle prese. Il rimedio a simile disoccupazione (detta «keynesiana», perché descritta magistralmente da Keynes) consiste nel rilancio della domanda tramite aumento dei consumi delle famiglie e dello Stato.

Purtroppo il potere d’acquisto dei salari, e dunque delle famiglie, perde colpi perché la contrattazione langue (quando addirittura non regredisce). Mentre, per quanto riguarda la domanda pubblica, più stringenti sono i vincoli di bilancio (e questo è appunto il caso dell’Italia), più probabile è che le misure di rilancio si rivelino insufficienti. O che comunque, proprio a causa dei vincoli di bilancio, tra misure tendenzialmente espansive ed interventi restrittivi della spesa pubblica il saldo algebrico sia alla fine negativo.

Il secondo tipo di disoccupazione, di cui poco si parla ma le cui conseguenze sono sempre più evidenti ed estese, è quella tecnologica. Il punto da avere ben chiaro in proposito è che non esiste più (ammesso che sia mai esistita in passato) una correlazione pratica e stabile tra produzione di merci ed occupazione. In ogni caso, mentre è ancora vero che se la produzione cala anche l’occupazione scende, non è più vero il contrario. In sostanza non ha alcun fondamento la convinzione, per altro ancora assai diffusa, che se la produzione riprende pure l’occupazione aumenta. Tant’è vero che sempre più spesso, pur in presenza di un aumento degli investimenti o di modesti aumenti del Pil, i disoccupati crescono invece di diminuire.

La spiegazione per questo andamento asimmetrico è semplice: i posti di lavoro che si guadagnano dove si «producono» le macchine e si innova la tecnologia non compensano quelli che si perdono dove si «introducono» le macchine e le innovazioni tecnologiche. Si tratta appunto della «disoccupazione tecnologica». Fenomeno non nuovo (già individuato da Ricardo nel XIX secolo) di sostituzione del lavoro con macchine. Ma che ora, con la diffusione dell’informatica, dell’automazione e della robotica, ha assunto un’ampiezza ed una velocità eccezionali. Sia pure su scala e con una intensità diversa, si tratta di un evento già largamente sperimentato nella prima e nella seconda rivoluzione industriale, a cui (allora) si è risposto con una riorganizzazione degli orari ed una ripartizione del lavoro (...).

In effetti i cospicui incrementi di produttività ottenuti nella prima fase della rivoluzione industriale nel XIX secolo (caratterizzata dal passaggio dall’energia idraulica al vapore e poi all’elettricità) sono stati seguiti da una riduzione dell’orario di lavoro prima da 80 a 72 e poi fino a 60 ore settimanali. Allo stesso modo nel XX secolo, quando le economie industrializzate hanno sperimentato una nuova organizzazione produttiva (con il fordismo e le linee di montaggio), il forte aumento della produttività ha condotto ad un ulteriore accorciamento della settimana lavorativa, che è arrivata a 48 ore e poi a 40.

Analizzando la storia economica e facendo una previsione sul futuro, in una celebre conferenza tenuta a Madrid nel 1930 (Prospettive economiche per i nostri nipoti), Keynes si diceva convinto che nel giro di un secolo l’umanità avrebbe potuto risolvere definitivamente quello che negli ultimi due secoli era stato il suo assillo principale, il problema economico: «Mi sentirei di affermare che di qui a cent’anni il livello di vita dei paesi in progresso sarà da quattro a otto volte superiore a quello odierno. Non vi sarebbe nulla di sorprendente, alla luce delle nostre conoscenze attuali. Peraltro non sarebbe fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di progressi anche superiori». E partendo da queste premesse giungeva ad una conclusione che non esitava a definire «sconcertante».

Perché sconcertante? Perché, a suo avviso, non esiste paese o popolo che possa guardare senza terrore all’era del tempo libero e dell’abbondanza: «Per troppo tempo infatti siamo stati allenati a faticare anziché godere. Per l’uomo comune, privo di particolari talenti, il problema di darsi un’occupazione è pauroso, specie se non ha radici nella terra e nel costume o nelle convenzioni predilette di una società tradizionale. Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi, che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono (però) tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi».

A sua volta il fondatore della Fiat Giovanni Agnelli, muovendo da considerazioni pratiche, ha sostenuto che è anche nell’interesse delle imprese rispondere alla innovazione tecnologica con una riduzione degli orari di lavoro. Il suo ragionamento è esplicitato in una lettera del 5 gennaio 1933 diretta a Luigi Einaudi: «Partiamo dalla premessa che in un dato momento, in un dato paese, a ipotesi nella parte industrializzata di questo nuovo mondo, via siano 100 milioni di operai occupati. Sia il loro salario medio di un dollaro. Sulla base di un dollaro ogni giorno nasce una domanda di 100 milioni di dollari di beni e servizi e ogni giorno industriali ed agricoltori mettono sul mercato 100 milioni di merci e di servizi.

Produzione, commercio, consumi si ingranano perfettamente l’un l’altro. Non esistono disoccupati. Non si parla di crisi. Noi industriali diciamo, nel nostro linguaggio semplice, che gli affari vanno. Alla macchina economica non occorrono lubrificanti. A un tratto uno o parecchi uomini di genio inventano qualcosa e noi industriali facciamo a chi arriva prima ad applicare la o le invenzioni le quali permettono risparmio di lavoro e maggiore guadagno. Quando le nuove applicazioni si siano generalizzate risulta che con 75 milioni di uomini si compie il lavoro il quale prima ne richiedeva 100. Rimangono 25 milioni di disoccupati nel mondo. Quale la causa? La incapacità dell’ordinamento del lavoro a trasformarsi con velocità uguale alla velocità di trasformazione dell’ordinamento tecnico (...).

Rendiamo uguali le velocità dei due movimenti progressivi, quello tecnico e quello, chiamiamolo così, umano. Poiché a produrre una massa invariata di beni e servizi occorrono 600 invece che 800 milioni di ore di lavoro, tutti i 100 milioni di operai occupati nel primo momento per 8 ore al giorno rimarranno occupati nel secondo momento per 6 ore al giorno. Poiché essi producono la stessa massa di beni di prima, il salario rimarrà invariato in un dollaro al giorno. La domanda operaia di beni e servizi resta di 100 milioni di dollari. Nulla è mutato nel meccanismo economico, il quale fila come oro colato. Non c’è disoccupazione, non c’è crisi» (...).

Dunque il fatto tanto indiscutibile quanto trascurato è che la disoccupazione attuale (se si esclude l’occupazione derivante dai servizi alla «persona», o certi lavori manuali, come ad esempio l’idraulico) ha una chiara impronta «ricardiana», come conseguenza del passaggio dalla produzione fordista a quella post-fordista. Che ha significato progressiva sostituzione dell’informatica, dell’automazione e della robotica al lavoro. Ne è derivato un eccesso di manodopera che viene espulsa dalla produzione e che, in assenza di politiche capaci di dare risposte concrete al problema, resta lì. Nella terra di nessuno. Almeno finché sopporta la propria esclusione.

Questa disoccupazione era già presente negli ultimi decenni del secolo scorso, ma allora si era pensato di poterla recuperare, almeno in parte, tramite la «precarizzazione» del mercato del lavoro, in base all’assunto che le imprese avrebbero avuto «convenienza» ad utilizzare quei lavoratori «usa e getta». Almeno in una certa misura così è stato. Ma con l’ovvia conseguenza di un calo sensibile della produttività del lavoro. Perché se si possono costringere i precari a lavorare di più non gli si può imporre anche di lavorare meglio. Da qui la comparsa di una occupazione flessibile ma a bassa produttività. Come hanno ampiamente messo in evidenza diverse ricerche. Contro l’occupazione patologicamente flessibile ha provato a muoversi la riforma Fornero. Con soluzioni discutibili, ma con una motivazione giusta: il lavoro precario deve costare di più del lavoro stabile.

Oggi, con il decreto sul lavoro del governo Renzi, siamo alla «riforma della riforma». Giustificata da una discussione surreale. Essa verte infatti, non su se sia utile o meno disincentivare forme dilaganti di lavoro flessibile e precario, ma su se l’obbligo a motivare la causale sia da ritenere una ragione sufficiente o meno a scoraggiare le aziende dal fare assunzioni. Inutile dire che non è certo da simile approccio che potrà derivare un aumento dell’occupazione. E peraltro nemmeno la tanto auspicata crescita porterà i nuovi posti di lavoro che invece servirebbero. Almeno per i prossimi anni. Le ragioni sono tante. Non ultima quella relativa al fatto che, come detto, la disoccupazione con cui siamo alle prese è appunto in larga misura di tipo «ricardiano»: quindi non può essere curata con «placebo» e rimedi estemporanei che intervengono solo sui sintomi invece che sulle cause (...).

Resta il fatto che la ridefinizione del ruolo dell’individuo e delle organizzazioni che rappresentano il lavoro in una società sempre più deprivata del lavoro di massa costituisce sicuramente la questione fondamentale con cui dovrà sapersi confrontare la società del futuro. Nello stesso tempo bisogna sapere che per riuscire ad affrontare concretamente questa sfida il punto da avere chiaro, fin da ora, è che sarà impossibile fare davvero i conti con la questione della disoccupazione se si continuerà ad ignorarne la sua duplice natura, «keynesiana» e «ricardiana». Perciò di una cosa occorre essere consapevoli: fino a quando questa presa di coscienza non incomincerà a farsi adeguatamente strada, la disoccupazione continuerà purtroppo a restare (per quanto ciò venga a parole considerato riprovevole) essenzialmente un problema dei disoccupati.


l’Unità – 19 maggio 2014

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