C'è stato un tempo in cui il sindacato lottava e i sindacalisti non
sedevano nei consigli d'amministrazione a cogestire l'esistente. Pierre
Carniti è stato un protagonista di quella stagione. Pubblichiamo ampi
stralci di un suo articolo sulla
crisi e sulle proposte per creare occupazione che sarà pubblicato
sul prossimo numero di «Mondoperaio».
Pierre Carniti
Se non si ridistribuisce il lavoro la disoccupazione ci divorerà
Malgrado il tema del lavoro sia oggetto di sempre più debordanti inchini retorici, la disoccupazione resta un problema dei disoccupati. Né potrebbe essere diversamente, considerato che negli ultimi anni le politiche pubbliche si sono concentrate sulla cosiddetta «riforma del mercato del lavoro», che ha moltiplicato forme e normative dei rapporti di lavoro lasciando ovviamente immutata la dimensione della disoccupazione. Così, più diventava chiaro che il problema con cui eravamo (e siamo) alle prese è la mancanza di domanda di lavoro, più ci si è accaniti con interventi sul versante dell’offerta.
Quel che è certo - venga aggiunta o meno qualche nuova immaginifica norma al già ricco armamentario dei contratti di lavoro - è che non ci saranno effetti sulla disoccupazione. Per affrontare concretamente il problema il primo aspetto di cui si deve tenere conto è la disoccupazione provocata da «insufficienza da domanda effettiva»: ossia da domanda assistita da una adeguata distribuzione dei redditi. L’assunto è semplice. Essendo necessaria manodopera per produrre le merci, se queste non trovano domanda adeguata sul mercato l’occupazione è inevitabilmente destinata a calare. È appunto quanto è avvenuto nel corso della crisi con cui siamo ancora alle prese. Il rimedio a simile disoccupazione (detta «keynesiana», perché descritta magistralmente da Keynes) consiste nel rilancio della domanda tramite aumento dei consumi delle famiglie e dello Stato.
Purtroppo il potere
d’acquisto dei salari, e dunque delle famiglie, perde colpi
perché la contrattazione langue (quando addirittura non
regredisce). Mentre, per quanto riguarda la domanda pubblica, più
stringenti sono i vincoli di bilancio (e questo è appunto il caso
dell’Italia), più probabile è che le misure di rilancio si
rivelino insufficienti. O che comunque, proprio a causa dei
vincoli di bilancio, tra misure tendenzialmente espansive ed
interventi restrittivi della spesa pubblica il saldo algebrico sia
alla fine negativo.
Il secondo tipo di disoccupazione, di cui poco si parla ma le cui conseguenze sono sempre più evidenti ed estese, è quella tecnologica. Il punto da avere ben chiaro in proposito è che non esiste più (ammesso che sia mai esistita in passato) una correlazione pratica e stabile tra produzione di merci ed occupazione. In ogni caso, mentre è ancora vero che se la produzione cala anche l’occupazione scende, non è più vero il contrario. In sostanza non ha alcun fondamento la convinzione, per altro ancora assai diffusa, che se la produzione riprende pure l’occupazione aumenta. Tant’è vero che sempre più spesso, pur in presenza di un aumento degli investimenti o di modesti aumenti del Pil, i disoccupati crescono invece di diminuire.
La spiegazione per
questo andamento asimmetrico è semplice: i posti di lavoro che si
guadagnano dove si «producono» le macchine e si innova la
tecnologia non compensano quelli che si perdono dove si
«introducono» le macchine e le innovazioni tecnologiche. Si
tratta appunto della «disoccupazione tecnologica». Fenomeno non
nuovo (già individuato da Ricardo nel XIX secolo) di sostituzione
del lavoro con macchine. Ma che ora, con la diffusione
dell’informatica, dell’automazione e della robotica, ha
assunto un’ampiezza ed una velocità eccezionali. Sia pure su
scala e con una intensità diversa, si tratta di un evento già
largamente sperimentato nella prima e nella seconda rivoluzione
industriale, a cui (allora) si è risposto con una
riorganizzazione degli orari ed una ripartizione del lavoro (...).
Analizzando la storia economica e facendo una previsione sul futuro, in una celebre conferenza tenuta a Madrid nel 1930 (Prospettive economiche per i nostri nipoti), Keynes si diceva convinto che nel giro di un secolo l’umanità avrebbe potuto risolvere definitivamente quello che negli ultimi due secoli era stato il suo assillo principale, il problema economico: «Mi sentirei di affermare che di qui a cent’anni il livello di vita dei paesi in progresso sarà da quattro a otto volte superiore a quello odierno. Non vi sarebbe nulla di sorprendente, alla luce delle nostre conoscenze attuali. Peraltro non sarebbe fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di progressi anche superiori». E partendo da queste premesse giungeva ad una conclusione che non esitava a definire «sconcertante».
Perché sconcertante?
Perché, a suo avviso, non esiste paese o popolo che possa
guardare senza terrore all’era del tempo libero e
dell’abbondanza: «Per troppo tempo infatti siamo stati allenati
a faticare anziché godere. Per l’uomo comune, privo di
particolari talenti, il problema di darsi un’occupazione è
pauroso, specie se non ha radici nella terra e nel costume o nelle
convenzioni predilette di una società tradizionale. Per ancora
molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così
forte in noi, che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere
soddisfatti. Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici
ore possono (però) tenere a bada il problema per un buon periodo
di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che
sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di
noi».
A sua volta il fondatore della Fiat Giovanni Agnelli, muovendo da considerazioni pratiche, ha sostenuto che è anche nell’interesse delle imprese rispondere alla innovazione tecnologica con una riduzione degli orari di lavoro. Il suo ragionamento è esplicitato in una lettera del 5 gennaio 1933 diretta a Luigi Einaudi: «Partiamo dalla premessa che in un dato momento, in un dato paese, a ipotesi nella parte industrializzata di questo nuovo mondo, via siano 100 milioni di operai occupati. Sia il loro salario medio di un dollaro. Sulla base di un dollaro ogni giorno nasce una domanda di 100 milioni di dollari di beni e servizi e ogni giorno industriali ed agricoltori mettono sul mercato 100 milioni di merci e di servizi.
Produzione, commercio,
consumi si ingranano perfettamente l’un l’altro. Non esistono
disoccupati. Non si parla di crisi. Noi industriali diciamo, nel
nostro linguaggio semplice, che gli affari vanno. Alla macchina
economica non occorrono lubrificanti. A un tratto uno o parecchi
uomini di genio inventano qualcosa e noi industriali facciamo a
chi arriva prima ad applicare la o le invenzioni le quali
permettono risparmio di lavoro e maggiore guadagno. Quando le
nuove applicazioni si siano generalizzate risulta che con 75
milioni di uomini si compie il lavoro il quale prima ne richiedeva
100. Rimangono 25 milioni di disoccupati nel mondo. Quale la
causa? La incapacità dell’ordinamento del lavoro a trasformarsi
con velocità uguale alla velocità di trasformazione
dell’ordinamento tecnico (...).
Rendiamo uguali le
velocità dei due movimenti progressivi, quello tecnico e quello,
chiamiamolo così, umano. Poiché a produrre una massa invariata
di beni e servizi occorrono 600 invece che 800 milioni di ore di
lavoro, tutti i 100 milioni di operai occupati nel primo momento
per 8 ore al giorno rimarranno occupati nel secondo momento per 6
ore al giorno. Poiché essi producono la stessa massa di beni di
prima, il salario rimarrà invariato in un dollaro al giorno. La
domanda operaia di beni e servizi resta di 100 milioni di dollari.
Nulla è mutato nel meccanismo economico, il quale fila come oro
colato. Non c’è disoccupazione, non c’è crisi» (...).
Dunque il fatto tanto indiscutibile quanto trascurato è che la disoccupazione attuale (se si esclude l’occupazione derivante dai servizi alla «persona», o certi lavori manuali, come ad esempio l’idraulico) ha una chiara impronta «ricardiana», come conseguenza del passaggio dalla produzione fordista a quella post-fordista. Che ha significato progressiva sostituzione dell’informatica, dell’automazione e della robotica al lavoro. Ne è derivato un eccesso di manodopera che viene espulsa dalla produzione e che, in assenza di politiche capaci di dare risposte concrete al problema, resta lì. Nella terra di nessuno. Almeno finché sopporta la propria esclusione.
Questa disoccupazione
era già presente negli ultimi decenni del secolo scorso, ma
allora si era pensato di poterla recuperare, almeno in parte,
tramite la «precarizzazione» del mercato del lavoro, in base
all’assunto che le imprese avrebbero avuto «convenienza» ad
utilizzare quei lavoratori «usa e getta». Almeno in una certa
misura così è stato. Ma con l’ovvia conseguenza di un calo
sensibile della produttività del lavoro. Perché se si possono
costringere i precari a lavorare di più non gli si può imporre
anche di lavorare meglio. Da qui la comparsa di una occupazione
flessibile ma a bassa produttività. Come hanno ampiamente messo
in evidenza diverse ricerche. Contro l’occupazione
patologicamente flessibile ha provato a muoversi la riforma
Fornero. Con soluzioni discutibili, ma con una motivazione giusta:
il lavoro precario deve costare di più del lavoro stabile.
Oggi, con il decreto
sul lavoro del governo Renzi, siamo alla «riforma della riforma».
Giustificata da una discussione surreale. Essa verte infatti, non
su se sia utile o meno disincentivare forme dilaganti di lavoro
flessibile e precario, ma su se l’obbligo a motivare la causale
sia da ritenere una ragione sufficiente o meno a scoraggiare le
aziende dal fare assunzioni. Inutile dire che non è certo da
simile approccio che potrà derivare un aumento dell’occupazione.
E peraltro nemmeno la tanto auspicata crescita porterà i nuovi
posti di lavoro che invece servirebbero. Almeno per i prossimi
anni. Le ragioni sono tante. Non ultima quella relativa al fatto
che, come detto, la disoccupazione con cui siamo alle prese è
appunto in larga misura di tipo «ricardiano»: quindi non può
essere curata con «placebo» e rimedi estemporanei che
intervengono solo sui sintomi invece che sulle cause (...).
Resta il fatto che la ridefinizione del ruolo dell’individuo e delle organizzazioni che rappresentano il lavoro in una società sempre più deprivata del lavoro di massa costituisce sicuramente la questione fondamentale con cui dovrà sapersi confrontare la società del futuro. Nello stesso tempo bisogna sapere che per riuscire ad affrontare concretamente questa sfida il punto da avere chiaro, fin da ora, è che sarà impossibile fare davvero i conti con la questione della disoccupazione se si continuerà ad ignorarne la sua duplice natura, «keynesiana» e «ricardiana». Perciò di una cosa occorre essere consapevoli: fino a quando questa presa di coscienza non incomincerà a farsi adeguatamente strada, la disoccupazione continuerà purtroppo a restare (per quanto ciò venga a parole considerato riprovevole) essenzialmente un problema dei disoccupati.
l’Unità – 19 maggio
2014
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