Un articolo di Paolo
Favilli, professore presso l'Università di Genova, apparso il 25
aprile su il Manifesto (e dunque prima dello scandalo Expo e
dell'arresto di Scajola) evidenzia l'intreccio ai vertici stesso
dello Stato di criminalità e politica e di come il nostro Paese sia
stato negli ultimi decenni ostaggio di logiche malavitose.
Paolo Favilli
La mostruosa normalità
di un sistema
L'uso senza limiti del
linguaggio iperbolico in un dibattito
politico quasi sempre privo di spessore analitico
ci sta privando della possibilità di
orientarci. Se la politica finanziaria connessa
all’attuale gestione dell’euro diventa «Auschwitz». Se
ogni approvazione di leggi da parte della maggioranza
(spesso davvero ingiuste e intrise di conflitti
d’interessi) diventa «colpo di stato». Se la reale tendenza
al progressivo concentrarsi del potere in
ristrette oligarchie diventa «ritorno al fascismo»,
ebbene la specificità e il peso di ogni
fenomeno scompaiono ed orientarsi in «una notte
in cui tutte la vacche sono nere» è impresa assai
difficile.
In un articolo apparso su questo giornale qualche giorno fa (15 aprile, Berlusconi-Napolitano «gli esiti criminali della politica separata») ho usato anch’io tinte molto forti. Si tratta, però, e credo che questa affermazione possa reggere l’onere della prova, di un linguaggio con alto grado di mimesi nei confronti della realtà. Il problema è che il fenomeno al centro di quello scritto, se analizzato davvero, è in grado di produrre disvelamenti, tanto sull’oggi che su un itinerario storico ventennale, che i facitori di opinione sembrano impossibilitati a sopportare. Meglio la rimozione.
Luigi Pintor diceva
che dopo mezzogiorno con il quotidiano si
potevano incartare le patate. Visto con quanta facilità
si dimentica, mi si scuserà se faccio riferimento
all’articolo citato.
I dati di fatto non sono controvertibili. Dall’insieme delle sentenze relative a Berlusconi, Previti, Dell’Utri (su quest’ultimo si attende ancora quella definitiva della Cassazione che, come ricordiamo, non è giudice di merito) emerge un quadro criminale impressionante. Il centro del quadro è rappresentato da un enorme e ramificato sistema corruttivo espanso in tutte le possibili varianti. Il sistema corruttivo è necessità funzionale come uscita di sicurezza per una molteplicità di comportamenti delinquenziali. La politica è una delle varianti più importanti tanto come uscita di sicurezza che come luogo privilegiato del circuito potere-denaro.
I dati di fatto non sono controvertibili. Dall’insieme delle sentenze relative a Berlusconi, Previti, Dell’Utri (su quest’ultimo si attende ancora quella definitiva della Cassazione che, come ricordiamo, non è giudice di merito) emerge un quadro criminale impressionante. Il centro del quadro è rappresentato da un enorme e ramificato sistema corruttivo espanso in tutte le possibili varianti. Il sistema corruttivo è necessità funzionale come uscita di sicurezza per una molteplicità di comportamenti delinquenziali. La politica è una delle varianti più importanti tanto come uscita di sicurezza che come luogo privilegiato del circuito potere-denaro.
La triade suddetta è stata il fulcro, il soggetto agente della costruzione di un soggetto politico che per lunghi anni ha esercitato il potere ad ogni livello della vita pubblica. Ancora oggi il soggetto creato vent’anni fa è tutt’altro che marginale e le sue prospettive non sono necessariamente perdenti. Naturalmente sarebbe una sciocchezza pensare che il successo di quella forza politica sia derivato da una logica criminale, ma quella logica, tenuto conto del ruolo centrale della triade, ha informato di sé aspetti importantissimi delle pratiche di governo. Inoltre è stato punto di riferimento legittimante di analoghe pratiche locali: il paradigma Cosentino si comprende meglio nell’ambito di tale insieme strutturale.
Per la prima volta nella
storia dell’Italia repubblicana i gangli
fondamentali della vita politica si trovano
ad essere intrinsecamente legati a una
operazione criminale.
Di fronte a tutto ciò ci troviamo a vivere in una situazione di «normalità mostruosa», come potremmo definirla con un ossimoro. Mostruosa: sia come fenomeno straordinario, che suscita stupore, sia come fenomeno orribile. Normalità: in quanto lo svolgimento della vita politica non è assolutamente toccato dalla mostruosità.
Si pensi solo alla leggerezza con cui autorevoli editorialisti di autorevoli quotidiani hanno trattato questo enorme peso che grava su tutta la nostra vita etico-civile. Commentando la sentenza che ha fissato la pena (si fa per dire) rieducativa per il delinquente, ci viene data l’immagine di un uomo «dolorante dietro l’eterno sorriso (…) un uomo che merita rispetto», un uomo i cui errori sono quelli di non aver fatto le riforme promesse, un uomo che però ha definitivamente superato una «guerra giudiziaria» finita da tempo (Massimo Franco, Corriere della sera, 16 aprile). E anche dal fronte pervicacemente antiberlusconiano (la Repubblica), dopo aver messo giustamente in rilievo lo «status particolare» che spiega l’agibilità politica concessa al delinquente, non si fa una piega di fronte alla «necessità» di farne un padre della patria, visto che Renzi avrebbe avuto una via «quasi obbligata» (Massimo Giannini, 16 aprile).
L’espressione «non ci
sono alternative», non casualmente una delle
preferite da Margaret Thatcher per
giustificare la durissima repressione
sociale, è, in genere, causa delle maggiori nefandezze.
Nel nostro caso non si tratta di «necessità» bensì di una
conclamata «sintonia» per una prospettiva
di bipartitismo forzoso su cui Renzi
e Berlusconi giocano il futuro delle loro
fortune politiche.
Ma la questione centrale su cui gli autorevoli opinionisti svolazzano entrambi, l’uno auspicando il superamento definitivo di «una guerra finita da tempo», l’altro facendo appello allo stato di necessità, è la compatibilità del quadro che esce dalle sentenze Berlusconi, Dell’Utri, Previti, con qualsiasi ruolo di rilevanza politica, figuriamoci con quello di «padre della patria». In realtà, su questo, la guerra non c’è mai stata.
Il dilemma, in fondo,
è piuttosto semplice: le sentenze dicono
il vero o sono il frutto della falsificazione
di una magistratura politicizzata? La
seconda ipotesi è sostenuta, con forza, non solo dai
condannati, ma da aree politiche e d’opinione
relativamente ampie. Gli autorevoli devono
dirci se la condividono o meno. Penso di sì,
perché è l’unica ipotesi in perfetta
coerenza con i loro svolazzamenti. Diranno
che Berlusconi ha i voti e il loro
è semplicemente realismo politico.
Non di realismo si tratta, invece, ma dell’accettazione,
della condivisione di quello stato di necrosi che
caratterizza il tessuto connettivo civile
in Italia.
Ovviamente è del
tutto inutile chiedere ai molti «autorevoli»
di uscire dal recinto in cui stanno comodi e protetti, ma
forse non è inutile chiedere a chi sta fuori il
recinto, in vari e articolati modi, di assumere
il quadro che emerge dalle sentenze come uno dei problemi
essenziali delle iniziative politiche in
corso.
Il berlusconismo non è il fascismo, certo, ma il solo modo di uscirne davvero è quello della cesura netta, sia pure in forme diverse, con la quale l’Italia è uscita dal fascismo. Sappiamo bene che nemmeno le cesure sono in grado di tagliare davvero la vischiosità profonda dei processi storici, pur tuttavia sono i soli momenti che possono segnare una, seppur parziale, discontinuità radicale.
I compagni,
i professoroni, i professori
qualsiasi (come chi scrive), devono prendere coscienza che
anche questa via d’uscita dal berlusconismo,
e da tutti gli affinismi col berlusconismo,
è una «via maestra». La battaglia difficile
per l’affermazione della lista L’altra Europa con Tsipras
non può ignorare il problema.
L’Italia deve presentarsi in Europa anche con una forza che rappresenti davvero l’antitesi a un volto del paese sfigurato dal morbo criminal-politico. Frutto di quella «passata di peste» che Paolo Volponi, profeticamente, aveva visto sopraggiungere più di vent’anni fa.
Il Manifesto – 25
aprile 2014
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