29 maggio 2014

MITO E SACRO IN K. KERENYI





In una serie di scritti, finalmente disponibili anche in Italia, Károly Kerényi (1897–1973) si interroga sul rapporto fra l'uomo e le manifestazioni del sacro (termine che decisamente preferiamo a “divino”). Per il grande studioso il rito (e il mito) diventano il mezzo con cui l'uomo rende accessibile e gestibile l'esperienza del sacro, altrimenti devastante o incomprensibile. Una tesi, che abbiamo già trovato negli scritti di Eliade, e che ci convince. Quanto alla fede, crediamo si tratti di un percorso individuale e conscio, dunque molto diversa dell'esperienza del sacro che è invece insita nell'inconscio collettivo  della specie.

Giorgio Montefoschi

La lezione di Kerényi: senza rito non c’è fede 
«Tutto ciò che è religioso — scrive Károly Kerényi (1897–1973) in Rapporto con il divino e altri saggi — presuppone il divino, nessun elemento religioso è concepibile senza la rivelazione di qualcosa di divino». Dio è il prima, l’origine, il Tutto. Ed è impensabile e non rappresentabile. L’uomo, però — ed è questa la verità altrettanto luminosa e innegabile — può entrare in contatto con il divino, addirittura trasformarsi nel divino: e in tal modo superare la tragedia della impensabilità di Dio.

Questo è possibile attraverso il rito. Il rito (il sacrificio), è il momento nel quale l’uomo che pensa e annaspa nel pensiero va oltre se stesso ed entra in una dimensione nella quale lo spazio e il tempo scompaiono, perché anche il rito va oltre se stesso: «Verso qualcosa che può contenere allusivamente solo come un frammento o una ripetizione di qualcosa di più grande».

Tutto il resto — l’immenso corpo delle religioni e del mito — è il dopo. È interpretazione. Racconto. Kerényi cita Martin Buber: «Dio parla all’uomo nelle cose e negli esseri che gli invia nella vita, e l’uomo risponde, proprio attraverso la sua azione nei riguardi di queste cose e di questi esseri. Ma c’è un pericolo, che si distacchi qualcosa dal lato umano di questa relazione e lo si renda autonomo, ponendo questo qualcosa al posto della relazione reale».

Questo «qualcosa» cui accennano Buber e Kerényi è il «pericolo delle religioni»: il pericolo di una narrazione che si limiti a una rappresentazione gratificante o terrificante, inquietante o consolatoria, distesa nel nostro tempo, umana in defintiva, e dimentichi il «momento vero». Che è fuori del tempo. Nel quale è Dio la «materia».

Fondamentale, per vivere il rapporto con il divino — spiega convintamene Kerényi — è l’atteggiamento interiore di chi si accosta al divino. Di nuovo si può descriverlo solo con parole comprensibili in senso figurato: è il suo porsi immediato davanti all’assoluto. Perché ciò possa accadere, l’uomo deve presentarsi purificato nel suo corpo terreno, e nudo. L’atteggiamento esteriore, spia di quello interiore, è altrettanto importante a quel punto. Nel merito, Kerényi rilegge W.F. Otto: «Il portamento umano è il primo testimone del mito; compare qui non nella parola, ma nell’erigersi proprio del corpo.

Il significato religioso di altri comportamenti, in uso da tempo immemorabile, ci è ben noto. È ad esempio il caso dello stare in raccoglimento, del sollevare le braccia e le mani o, all’opposto, del piegarsi fino ad inginocchiarsi o gettarsi a terra, del congiungere le mani e di tanti altri, che non occorre menzionare. Questi comportamenti non dipendono, nella loro natura originaria, da un sapere o da una fede ricompresi in parole, né sono l’espressione di una indicibile commozione: sono il mito rivelato, il mito stesso».


Silenzio, raccoglimento, intonazione del canto, intonazione e intensità della preghiera, misura dei gesti, significato dei gesti e delle parole, luce e buio: la stolta, meccanica, vuota liturgia occidentale ha dimenticato da tempo immemorabile tutto ciò, convinta che la liturgia debba stare al passo con i tempi e, dunque, sia quasi un suo obbligo strizzare l’occhio alle liturgie televisive (così la gente, questa è l’idiozia sovrana, andrà più numerosa in chiesa).

Per ritrovare quel «portamento umano» tanto povero e semplice quanto denso di significati, bisogna oggi inerpicarsi nelle montagne, attraversare la neve e il ghiaccio, e raggiungere i conventi benedettini più sperduti e lontani. Oppure, bisogna approdare alle rive incontaminate del Monte Athos, svegliarsi nel cuore della notte e, dai lunghi corridoi dei monasteri ormai semideserti, scendere nella chiesa così oscura che i monaci non si distinguono negli scranni.

«Il sacrificio — scrive Sylvain Lévi in un libro famoso, La dottrina del sacrificio nei Brahmana (Adelphi), dedicato a quanto anticamente avveniva in India e avviene ancora oggi — è un’operazione magica; la fede non è che la fiducia nella virtù dei riti; il passaggio al cielo è una ascensione per gradi; il bene è l’esattezza rituale».

Se il bene è l’esattezza rituale, come mai, si domanda Roberto Calasso nella introduzione al volume, molti antropologi moderni (a differenza, diciamo noi, di quanto fa Kerényi nel libro pubblicato da Bompiani) vorrebbero segretamente dimenticare il sacrificio (il rito) ed espellerlo dalla comunità degli studi? Forse — scrive Calasso — lo fanno «per evitare di essere risucchiati nel vortice sacrificale. Forse anche perché obbliga — quel vortice — a pensare troppo. O, avrebbero detto i ritualisti brahmanici, a pensare tutto».
Il Corriere della sera – 25 maggio 2014
Károly Kerényi
Rapporto con il divino e altri saggi
Bompiani, 2014

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