In una serie di scritti, finalmente disponibili anche in Italia, Károly Kerényi (1897–1973) si interroga sul rapporto fra l'uomo e le manifestazioni del sacro (termine che decisamente preferiamo a “divino”). Per il grande studioso il rito (e il mito) diventano il mezzo con cui l'uomo rende accessibile e gestibile l'esperienza del sacro, altrimenti devastante o incomprensibile. Una tesi, che abbiamo già trovato negli scritti di Eliade, e che ci convince. Quanto alla fede, crediamo si tratti di un percorso individuale e conscio, dunque molto diversa dell'esperienza del sacro che è invece insita nell'inconscio collettivo della specie.
Giorgio
Montefoschi
La lezione
di Kerényi: senza rito non c’è fede
«Tutto ciò che è
religioso — scrive Károly Kerényi (1897–1973) in Rapporto con
il divino e altri saggi — presuppone il divino, nessun elemento
religioso è concepibile senza la rivelazione di qualcosa di divino».
Dio è il prima, l’origine, il Tutto. Ed è impensabile e non
rappresentabile. L’uomo, però — ed è questa la verità
altrettanto luminosa e innegabile — può entrare in contatto con il
divino, addirittura trasformarsi nel divino: e in tal modo superare
la tragedia della impensabilità di Dio.
Questo è possibile
attraverso il rito. Il rito (il sacrificio), è il momento nel quale
l’uomo che pensa e annaspa nel pensiero va oltre se stesso ed entra
in una dimensione nella quale lo spazio e il tempo scompaiono, perché
anche il rito va oltre se stesso: «Verso qualcosa che può contenere
allusivamente solo come un frammento o una ripetizione di qualcosa di
più grande».
Tutto il resto — l’immenso corpo delle religioni e del mito — è il dopo. È interpretazione. Racconto. Kerényi cita Martin Buber: «Dio parla all’uomo nelle cose e negli esseri che gli invia nella vita, e l’uomo risponde, proprio attraverso la sua azione nei riguardi di queste cose e di questi esseri. Ma c’è un pericolo, che si distacchi qualcosa dal lato umano di questa relazione e lo si renda autonomo, ponendo questo qualcosa al posto della relazione reale».
Questo «qualcosa» cui
accennano Buber e Kerényi è il «pericolo delle religioni»: il
pericolo di una narrazione che si limiti a una rappresentazione
gratificante o terrificante, inquietante o consolatoria, distesa nel
nostro tempo, umana in defintiva, e dimentichi il «momento vero».
Che è fuori del tempo. Nel quale è Dio la «materia».
Fondamentale, per vivere il rapporto con il divino — spiega convintamene Kerényi — è l’atteggiamento interiore di chi si accosta al divino. Di nuovo si può descriverlo solo con parole comprensibili in senso figurato: è il suo porsi immediato davanti all’assoluto. Perché ciò possa accadere, l’uomo deve presentarsi purificato nel suo corpo terreno, e nudo. L’atteggiamento esteriore, spia di quello interiore, è altrettanto importante a quel punto. Nel merito, Kerényi rilegge W.F. Otto: «Il portamento umano è il primo testimone del mito; compare qui non nella parola, ma nell’erigersi proprio del corpo.
Il significato religioso
di altri comportamenti, in uso da tempo immemorabile, ci è ben noto.
È ad esempio il caso dello stare in raccoglimento, del sollevare le
braccia e le mani o, all’opposto, del piegarsi fino ad
inginocchiarsi o gettarsi a terra, del congiungere le mani e di tanti
altri, che non occorre menzionare. Questi comportamenti non
dipendono, nella loro natura originaria, da un sapere o da una fede
ricompresi in parole, né sono l’espressione di una indicibile
commozione: sono il mito rivelato, il mito stesso».
Silenzio, raccoglimento, intonazione del canto, intonazione e intensità della preghiera, misura dei gesti, significato dei gesti e delle parole, luce e buio: la stolta, meccanica, vuota liturgia occidentale ha dimenticato da tempo immemorabile tutto ciò, convinta che la liturgia debba stare al passo con i tempi e, dunque, sia quasi un suo obbligo strizzare l’occhio alle liturgie televisive (così la gente, questa è l’idiozia sovrana, andrà più numerosa in chiesa).
Per ritrovare quel
«portamento umano» tanto povero e semplice quanto denso di
significati, bisogna oggi inerpicarsi nelle montagne, attraversare la
neve e il ghiaccio, e raggiungere i conventi benedettini più
sperduti e lontani. Oppure, bisogna approdare alle rive incontaminate
del Monte Athos, svegliarsi nel cuore della notte e, dai lunghi
corridoi dei monasteri ormai semideserti, scendere nella chiesa così
oscura che i monaci non si distinguono negli scranni.
«Il sacrificio — scrive Sylvain Lévi in un libro famoso, La dottrina del sacrificio nei Brahmana (Adelphi), dedicato a quanto anticamente avveniva in India e avviene ancora oggi — è un’operazione magica; la fede non è che la fiducia nella virtù dei riti; il passaggio al cielo è una ascensione per gradi; il bene è l’esattezza rituale».
Se il bene è l’esattezza
rituale, come mai, si domanda Roberto Calasso nella introduzione al
volume, molti antropologi moderni (a differenza, diciamo noi, di
quanto fa Kerényi nel libro pubblicato da Bompiani) vorrebbero
segretamente dimenticare il sacrificio (il rito) ed espellerlo dalla
comunità degli studi? Forse — scrive Calasso — lo fanno «per
evitare di essere risucchiati nel vortice sacrificale. Forse anche
perché obbliga — quel vortice — a pensare troppo. O, avrebbero
detto i ritualisti brahmanici, a pensare tutto».
Il Corriere della sera –
25 maggio 2014
Károly Kerényi
Rapporto con il divino
e altri saggi
Bompiani, 2014
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