Chagall
Relazione di Lea Malandri al convegno organizzato dall’Università dell’autobiografia ad Anghiari il 7 maggio 2004:
La scrittura, il sogno d’amore e l’impresentabile della vita
Ci sono scritture d’amore che nascono nel momento stesso in cui si decanta il sogno d’amore, inteso come ideale ricongiungimento di forze opposte, quel “matrimonio dei contrari”, fusione di maschile e femminile, che secondo Virginia Woolf rende la mente “androgina”, “naturalmente creatrice, incandescente e indivisa”, capace di trasmettere l’emozione senza ostacoli. Che costo di follia, sofferenza e morte abbia avuto questo sforzo di rendere “fertile” la mente, per le donne che hanno tentato “creature di spirito anziché di sangue”, è scritto nelle loro biografie.
Identificate con la “natura vivente” dell’origine, con un “Tu privo di volto e di lingua”, le donne non potevano che muoversi con difficoltà, contraddizioni, lacerazioni, tra un’esperienza corporea, sentimentale, emozionale, considerata “ostacolo”, “materia estranea”alla creazione artistica, e una parola salvifica capace di rigenerarla, ma solo a patto che fosse “interamente consumata” (1). L’”istinto d’amore, di bellezza, di armonia”, scrive Sibilla Aleramo, è “infinitamente tirannico ed esige da solo i più folli sforzi”. Se la poesia è, per un verso, la “rorida potenza” che sottrae la “larva femminile” al silenzio, per l’altro è anche quell’immagine sublime che potrebbe “cancellarla” dalla vita.
“Questa mia sotterranea, seconda vita… Questa corrente tacita di pensieri e di sentimenti… questa che lui vorrebbe io traducessi in poesia, violentandomi, disumanandomi, forse uccidendomi? Questo lui fa sopra di sé, ma lui è uomo e non ne muore…”(2)
Anticipando consapevolezze e intuizioni che saranno del femminismo degli anni ’70, l’Aleramo fa della sua scrittura un singolare processo di “svelamento”, un’autoanalisi più che un’autobiografia, rilettura e riscrittura del sogno d’amore visto sotto diversi aspetti: “miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso”, ma anche ideale di interezza, “sensi e ragione”, riportato sia alla vita che alla creatività poetica. Nel momento in cui si decanta l’altalena tra “gelo” e “estasi”, che contraddistingue la favola amorosa, quello che si profila è un “mesto, lucido sguardo” capace di dare voce al “mistero singolo”, al “fastidioso obbligo di vivere per sé”, alla malinconia con cui si va costruendo un’individualità femminile, nel distacco da ciò che si era amato e in cui si era creduto.
Anche Virginia Woolf mette la scrittura in rapporto con la “parte invisibile e tacita” della sua vita, ma anziché intraprendere un lavoro di scavo e di analisi, diffidente verso l’autobiografia e il “dannato egocentrismo” femminile, lascia che sia il travaglio inconscio a riportare sulla superficie del presente l’ombra di scene e figure del passato, mentre tocca alla narrazione dare a quei frammenti disordinati, oscuri, inquietanti, un’architettura solida, unitaria, che abbia la parvenza della realtà. Ma, consapevole delle “scosse”, degli assalti dolorosi con cui i rari “momenti di essere” emergono dall’ “ovatta” del “non essere”, in un breve scritto poco noto, Quando si è malati, Virginia riconosce che c’è una larga parte dell’esperienza, legata più direttamente al corpo, che ancora non ha posto nella lingua, nella “dicibilità”.
“Quando si pensa all’universalità della malattia, ai tremendi cambiamenti spirituali che esse provocano…alle rovine e ai deserti dell’animo che la più leggera influenza ci svela… a come sprofondiamo nell’abisso della morte… quando ci tolgono un dente… ci stupisce il fatto che alla malattia non sia stato assegnato, assieme all’amore, alla guerra e alla gelosia, un posto fra i supremi argomenti della letteratura… La letteratura fa del suo meglio per dimostrare che la sola cosa che interessa è l’animo, che il corpo è come un volgare pezzo di vetro attraverso il quale si può vedere chiaro e netto lo spirito… che, salvo una o due passioni, come la gola e il desiderio carnale, questo corpo è trascurabile, perfino inesistente. Eppure la verità è tutt’altra. Sia di giorno che di notte il corpo sempre interviene… Gli uomini scrivono sempre sull’attività mentale… E così nessuno si occupa di quelle lunghe guerre del corpo (in cui l’animo fa la parte dello schiavo) che si svolgono nella solitudine di una stanza da letto, contro l’attacco della febbre o la minaccia della malinconia. La causa di questa negligenza non è difficile da scoprire. Per guardare queste cose in faccia, bisognerebbe avere il coraggio di un domatore di leoni; una robusta filosofia; un intelletto radicato nelle viscere della terra… La lingua inglese che può esprimere i pensieri di Amleto e la tragedia di Lear, non possiede parole per descrivere i fremiti e il mal di testa. E’ cresciuta in una sola direzione”. (3)
La malattia, come la passione, il dolore, la solitudine, il male, appartengono a quei momenti della vita individuale e collettiva in cui, come scrive Franco Rella nel suo ultimo libro, Dall’esilio (Feltrinelli 2004), “ci si sente proiettati al di là di tutto, in una terra d’esilio in cui pare sgretolarsi ogni parola, e dunque la possibilità di comunicare agli altri il senso di una esperienza che si avverte come estrema”. I tentativi di andare oltre l’“indicibile”, Rella li va a cercare “nelle pieghe” di alcuni testi letterari e a artistici, là dove la scrittura, scardinando le regole dei linguaggi conosciuti, a livello poetico e filosofico, ha tentato di forzare il mistero, l’opacità, l’imprendibilità di alcuni territori dell’esperienza, per captarne anche solo un’immagine, un frammento di verità, e darne testimonianza (come fa il superstite). Per descrivere che cosa intende per “scrittura del corpo, della passione, del dolore”, usa la metafora del “viaggio”, dell’oscillazione del pensiero intorno a un confine, a una soglia, che permette di tenere insieme concetti contraddittori: il bene e il male, la vita e la morte, il pensiero e l’assenza di pensiero, il silenzio e le parole.
Uno spostamento analogo del pensiero maschile, divenuto consapevole della mutilazione profonda che produce il dualismo -la dialettica degli opposti e di quella ideale riunificazione che è il sogno d’amore – compare nel libro di Alberto Asor Rosa, L’ultimo paradosso (Einaudi 1986), e nella Mente estatica di Elvio Fachinelli (Adelphi 1989). Le immagini sono diverse, ma analogo è il tentativo di spingere la scrittura verso un’ “area di frontiera” che l’ “uomo civile” ha accantonato, perché sentita come pericolosa per l’affermazione di un “io personale”. Asor Rosa parla di una “mineralogia del pensiero”, capace di strappare al “mare ribollente delle cose non nominate” – il mondo delle cose che “non siamo stati capaci fino a questo punto di dire” – anche soltanto “frammenti di parole, spezzoni di significato, cristalli di idee… tutto un pulviscolo di immagini e sensazioni per cui non sembriamo avere, per ora, né classificazioni né definizioni”.
Nelle notazioni rarefatte con cui si apre La mente estatica di Fachinelli, compare l’immagine delle regge di Creta “aperte verso il mare”: difese che cadono, paletti lasciati andare alla deriva, un “sistema di vigilanza di impostazione virile”che si allenta per dare accoglimento a un femminile riconosciuto come “il cuore di molte e diverse esperienze”.
Il calore dell’amore sembra dunque che possa entrare nella vita e nella scrittura, paradossalmente, proprio quando si riesce a prendere distanza dall’eccitazione e dalla febbre raggelante dell’illusione amorosa, quando, rinunciando alla pretesa di “rinominare” il mondo, la scrittura, in qualunque forma si manifesti, sopporta di collocarsi dentro un terreno ibrido, dove si danno insieme, indisgiungibili, corpo e pensiero, sentimenti e ragioni, vita e morte, bellezza e orrore, dicibile e indicibile. Se per il pensiero maschile si tratta soprattutto di abbattere gli sbarramenti che la cultura ha messo alla memoria della materia, richiamo temibile alla parziale indistinzione originaria con la madre, per le donne la strada è più tortuosa, dovendo venire a capo di un duplice esilio: dal corpo, con cui sono state identificate, ma che si è modellato sullo sguardo di un uomo, sulle sue paure e desideri, e dalla parola, che non era destinata a loro.
Dalla difficile navigazione tra uno scoglio e l’altro, la scrittura femminile – quella letteraria ma anche quella del privato – ha creduto generalmente di potersi salvare con il miraggio di una ideale ricomposizione, facendo propria fatalmente la forma storica che ha preso l’idea di felicità e armonia: il mito androgino, l’uomo-femmina, il sole gravido di Zarathustra, i “mille seni dell’acqua” che vanno a nutrire il cielo, la madre che si ricongiunge al figlio, la divinità duplice dell’origine in forma capovolta.
Nelle scritture del privato, pubblicate nelle rubriche di Posta che ho tenuto su “Ragazza In” (1983-1986), e “Noi donne” (1990-1993), erano frequenti i riferimenti al parto e alla nascita per indicare un immaginario ricorrente che vede nella scrittura il corpo “fecondo” per una rigenerazione di sé nell’interezza, o l’“operazione chirurgica” capace di svellere il dolore e disperderlo. Lettere, diari, note di quaderno, nate dalla solitudine e dal silenzio, si affrettano quasi sempre a riempire quel vuoto con una parola “piena”, che nello sforzo quasi mistico di sovrapporsi alla vita, si condanna in realtà alla retorica e all’insignificanza.(4)
Un cambiamento significativo avviene quando le scritture, pur continuando a essere prodotte nel privato, vanno a collocarsi in un ambito collettivo, esposte nella loro nudità agli sguardi di altri, alla possibilità quindi di essere riconosciute o contrastate, colte in ciò che dicono e che non dicono, interrogate in presenza di chi le ha prodotte. Mi riferisco agli scritti che nascono spontaneamente all’interno dei corsi delle donne sulla base di una riflessione su di sé volta a cogliere nelle singole storie la traccia di una storia più generale, riguardo al rapporto tra i sessi, ma anche tra individuo e società, tra inconscio e coscienza. Una “rappresentazione aprioristicamente ammessa” si sgretola, come si augurava Sibilla Aleramo, “per virtù d’analisi”, e perché l’attenzione vigile di altre permette a chi parla o scrive di essere ascoltata “come se sognasse”.
L’andirivieni tra sogno e lucidità di analisi è il tratto più significativo di scritture che risentono non solo di una consapevolezza nuova, più libera da modelli interiorizzati, ma anche di quella pratica originale del femminismo che è stata l’”autocoscienza”: un fare e disfare la narrazione di sé, lo svelamento continuo di false “nudità”, un riattraversamento della memoria disposto a sopportarne i meandri, le zone oscure, i paradossi, le intuizioni lucide. Qualcosa di simile si è verificato nella rubrica di “posta del cuore” del settimanale “Ragazza In”, quando le lettere delle adolescenti, portate fuori dallo schema domanda/risposta, e spinte all’ascolto reciproco, come in una sorta di gruppo virtuale di autocoscienza “tramite scrittura”, hanno potuto aprire una breccia nell’involucro che il sogno, la solitudine, il mondo interno creano attorno all’individuo.
L’interesse per quel tipo di scrittura che ho chiamato “scrittura di esperienza”, per distinguerla dall’autobiografia e dagli “scritti del cassetto”, improntati entrambi, sia pure in modo diverso, a una preoccupazione di senso, o una esigenza interpretativa, è cominciato all’inizio degli anni ’80, ma non è mai diventato un campo di studi o di osservazione oggettiva. È stato da subito, a partire dalla scoperta dell’Aleramo, un corpo a corpo tra scritture, la mia e quella dei frammenti strappati ai testi che incontravo. La scrittura d’amore, dall’Aleramo alla posta del cuore, all’Epistolario e all’unico libro di Carlo Michelstaedter, La persuasione e la retorica, mi ha colto di sorpresa, proprio nel momento in cui l’amore veniva meno: come abbandono da parte di un uomo, ma soprattutto come perdita dell’illusione d’amore, del sogno di potersi fondere con l’altro. E da subito l’amore si è posto nella scrittura, consapevolmente, nel suo aspetto di passione originaria, impronta di quel primo “modello di ogni felicità” che Freud ha collocato nella relazione ancora indivisa tra la madre e il figlio.
I brevi frammenti con cui si apre il mio libro, Come nasce il sogno d’amore (5), parlano di una “nascita a sé” e alla scrittura che hanno come culla il gelo, ma che non hanno bisogno di allontanarlo per continuare a vivere. Una scrittura che si era fatta “rada”, disarticolata, per lasciarmi vivere, che poteva sopportare il dolore e il silenzio, nominare il cuore e i piedi, inabissarsi e riemergere per strada, alle fermate dei semafori, nelle situazioni più impensate, diventava per la prima volta intrattenimento, presenza sentimentale, compagnia, consolazione. La passione d’amore e il sogno fusionale, mentre venivano distanziati quanto bastava per poterne vedere l’incanto e l’illusorietà, rientravano nascostamente in una modalità di lettura/riscrittura degli scritti altrui, che mi è poi diventata famigliare. Il movimento è quello dello scavo e della decontestualizzazione, alla ricerca delle venature di memoria o di “preistoria” che il testo si porta dentro, a sua insaputa.
I frammenti, isolati in un primo tempo attraverso la sottolineatura, vengono poi trascritti a mano, ricalcati fino a confondersi con le orme dell’altro, in una specie di abbraccio amoroso che smarrisce entrambi i protagonisti – il lettore e l’autore – per poi restituirli, lungo il tragitto e il solco che fa la mano, in un distanziamento che li vede cambiati, più consapevoli delle reciproche somiglianze e diversità. Questa commistione di pensieri, voci, sentimenti, fa sì che si possano riportare nel cuore della scrittura interlocutori assenti, rimettere in scena i sogni a dispetto della coscienza che li ha stanati, riattraversare il dolore, la paura, la contraddittorietà dei desideri, spostandoli su una specie di doppio, accostarsi all’“indicibile” della propria esperienza appropriandosi della spudoratezza degli altri.
Il calore dell’amore è entrato nella mia scrittura insieme a quella “deriva morenica”, per usare un’espressione di Franco Rella, che è l’impasto di voci, volti, sedimenti immaginari, di cui sono fatte le nostre storie, uniche e universali, solitarie e popolate, maschili e femminili, stando alla definizione dei generi che ha dato la storia. Mi sono anche chiesta se questo modo di procedere, che opera una spoliazione dei testi, costringendoli a dire ciò che nascondono, che li svuota cercando “tesori di cultura” nascosti, verità impalpabili ma essenziali, depositate come relitti negli angoli bui del pensiero, non sia anche un tentativo di tenere insieme temporalità diverse: l’origine e la storia, il “per sempre e mai più” dell’infanzia, i residui notturni sepolti nella memoria del corpo, e la temporalità storica che prevede perdite, separazioni, mutamenti, riconoscimento del limite e della morte.
Lea Melandri
Note:
- Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, in Per le strade di Londra, Garzanti 1974, p.289.
- Sibilla Aleramo, Un amore insolito, Feltrinelli 1979, p.125.
- Virginia Woolf, Quando si è malati, in Per le strade di Londra, cit., pagg.155-156.
- cfr. Lea Melandri, La mappa del cuore, Rubbettino Editore 1992; Idem, Migliaia di foglietti ,MobyDick 1996.
- Lea Melandri, Come nasce il sogno d’amore, Rizzoli 1988 (Bollati Boringhieri 2002).
Fonte: http://www.minimaetmoralia.it/
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