Motivi per cui ha stravinto Renzi
1. Gli 80 euro. Mossa elettorale? Elemosina? Primo timido tentativo di una redistribuzione economica dalle rendite al reddito? Fatto sta che a me venerdì, ossia due giorni prima del voto, nella scuola dove lavoro mi hanno fatto firmare un foglio su cui dovevo autocertificare se ero nelle condizioni di beneficiare del bonus. Credo di non essere stato il solo. Non ci vuole molto per ricordare come la campagna elettorale di Forza Italia per le politiche 2013 si sia retta esclusivamente su una serie di finte lettere in cui si “restituiva l’Imu”. Ha avuto ragione Renzi nel dire che quegli 80 euro sono uno stimolo ai consumi di quel ceto medio che è la sua base elettorale (una pizza, due libri, un concerto, una bolletta). Almeno per maggio.
(Perché, per dire, il giorno stesso, sempre venerdì, mi è stato comunicato che probabilmente il lavoro di consulenza storica che faccio da due anni per Rai Storia non mi verrà prorogato l’anno prossimo, perché i 150 milioni di tagli – necessari per recuperare i da cui i miei 80 euro – si abbatterranno sulle reti tematiche – Rai Edu, in primis – e sulla radio.)
2. Le amministrative. Il voto delle europee coincideva in due regioni e molti comuni con le amministrative. Che sono storicamente elezioni che favoriscono il centrosinistra. E in questo caso molti dei candidati del Pd locali erano molto più forti degli altri, vedi Chiamparino in Piemonte, o Nardella a Firenze. In più il voto contemporaneo delle amministrative ha limitato molto l’astensionismo.
3. Il disastro Berlusconi. Quella di Berlusconi è stata la peggiore campagna elettorale dal 1993. Bolso, stonato, in uno stato di pre-Alzheimer conclamato, non ha creduto nemmeno lui alla tenuta di Forza Italia. Marina!, deve aver pensato con una specie di esprit de escalier quando ieri ha visto il successo di Front National in Francia. Quando poche settimane fa sparava un obiettivo del 25% sembrava farlo per motivi d’ufficio, un piazzista che appena si spegne la telecamera vende sottocosto. Nel frattempo il terreno intorno a lui franava come nelle pagine finali di una copia fallata dell’Autunno del patriarca: Bonaiuti e Bondi l’avevano abbandonato come due vecchi compari che non gli regge più, Scajola riceveva l’ennesimo e forse definitivo colpo alla sua credibilità politica gangsteristica, Dell’Utri borbottava singulti da satrapo in declino piantonato in un ospedale a Beirut. Per un partito d’opinione, un partito leggero, che si è retto per vent’anni sull’immagine, non è stato il massimo. A tener su la baracca sono rimasti Santanché, Brunetta e Toti – ossia tre figure repulsive. A prendere voti, alla fine, sono stati quelli che hanno le loro clientele locali, tipo Fitto.
4. L’apocalisse Monti. Mario Monti è stato una delle meteore che ha bruciato più in fretta della Seconda Repubblica. Più rapido di Lamberto Dini, di Mario Segni, di Gianfranco Fini, il suo disegno moderato – si è capito subito – era uno spin-off di una serie che doveva essere solo messa in produzione. Che bisogno c’era di Monti se lo stesso tipo di passaggio politico poteva essere gestito da Renzi? Le parole di Andrea Romano, capogruppo alla Camera, sul sito di Scelta Civica o sulla sua pagina Facebook sono il segno non di consapevolezza, ma di resa (“Da oggi si apre una riflessione sul futuro di Scelta Civica che dovrà essere libera e priva di qualunque inibizione”). I commenti non gli concedono nemmeno l’onore delle armi. È molto probabile che Romano, Giannini e gli altri – sempre meno – sciolgano il loro gruppo parlamentare nel Pd. I loro elettori li hanno semplicemente preceduti.
5. Il voto cattolico. Matteo Renzi va a messa, Beppe Grillo no. I tentativi in chiusura di campagna di accattivarsi l’elettorato cattolico da parte dei Cinque Stelle sono stati scomposti. Papa Francesco segue il mio blog (Grillo dixit), Date una carezza a chi non vota 5 Stelle e dite che questa è la carezza del MoVimento (Casaleggio dixit). I due si sono accorti fuori tempo massimo che l’Italia non è un paese luterano, e che i processi di massa non sono ancora così popolari in un Paese abituato ancora a formare la sua etica sul sacramento della confessione.
6. La fatica di Tsipras. Con tutti gli auguri che si possono fare ai tre neo-eletti per l’Altra Europa, non si possono però, ex-post, risparmiare le critiche a un movimento che è riuscito a centrare il quorum per un pelo per colpa dei media certo che l’hanno ignorato ma anche dell’inesperienza e dell’innata litigiosità non solo caratteriale ma ideologica. Viale non era d’accordo con Flores D’Arcais, Sel non condivideva le cose che diceva Spinelli. Sentire i comizi italiani di Tsipras e le dichiarazioni d’intenti di Barbara Spinelli danno conto di un equivoco di fondo che, ottenuto il riconoscimento elettorale (un milione e centomila elettori non sono pochi) va risolto. Il molto buono che c’è in quest’esperienza si è visto nella capacità di nuova partecipazione che ha saputo creare nel vuoto pneumatico che si è creato a sinistra tra partiti e movimenti dopo le fiammate di Fabbriche di Nichi, movimenti per l’acqua, movimenti degli studenti, militanza di movimento in generale… Speriamo che le responsabilità vengano affidate a persone capaci e generose tipo Marco Furfaro (uno dei tre neoeletti) o Claudio Riccio, per evitare di aver bisogno la prossima volta di candidature-bandierine.
7. La comunicazione di Renzi. Renzi sa usare i mezzi di comunicazione e i giornalisti gli vogliono bene. Mi piacerebbe fare un’intervista a Filippo Sensi (responsabile ufficio stampa Pd) sul backstage di questa campagna elettorale, sono sicuro che avrebbe l’intelligenza per trarre fuori un ritratto di un valore simile a quello di David Foster Wallace al seguito di John McCain. Gli va dato merito di aver saputo – in pochi mesi – rinnovare completamente il brand Pd. Il fatto che D’Alema, Cuperlo, Fassino, Bersani siano scomparsi in campagna elettorale, è stato, alla luce del risultato, un bene. C’è una vecchia classe dirigente del Pd che è stata trattata bad company, ma, c’è da dire, come ci sia stata della scaltrezza al tempo stesso, se io mi sono ritrovato sulla scheda elettorale gente come Gasbarra o Bettini.
8. L’assolutismo renziano. Il Pd è Renzi. La decisione di non portare al governo nessuno che gli potesse fare ombra è risultata una scelta premiante. Il Pd è riuscito a vincere identificandosi totalmente con il leader. È riuscito a vincere non grazie a ma nonostante la Bonafé e la Picierno. I suoi uomini e le sue donne vivono della sua luce riflessa che riesce a occultare le molte ombre. La lotta contro la Kasta di Beppe Grillo non ha trovato gli obiettivi a cui mirare. Chiamare “ebetino” Renzi non è stato efficace quanto chiamare Bersani Gargamella.
9. Il ritardo della crisi. È vero che la crisi italiana è pervasiva, ma evidentemente non ancora strutturale. Il risparmio famigliare continua a dare ossigeno a molti disoccupati. Il fatto che il nostro paese sia veramente too big to fail ha permesso di aver un minimo di dilazione nell’assoggettamento ai dettami tedeschi. E quindi ha concesso a Renzi la possibilità di mostrare, almeno mostrare, una possibile inversione di rotta. La contrattazione con la Merkel sul Fiscal Compact, ora che i laburisti britannici sono un argomento di storia del Novecento e Hollande è solo uno che ha una tresca con Julie Gayet, sarà il vero banco di prova e del suo peso politico e della presenza di tracce di socialismo nel suo programma.
10. L’inerzia italiana. Ida Dominijanni ha scritto sul suo blog un bel post che così conclude: “Si parla adesso, per questo, di nuova Dc, ma è bene sapere che il Pd non è la Dc, è un animale nuovo figlio della seconda repubblica e non della prima, della società forgiata dal berlusconismo e non di quella plasmata dal dopoguerra. L’effetto di ritorno segnala al contempo quanto sia stata fragile la costruzione della seconda repubblica sul piano istituzionale, e quanto sia stata forte sul piano della trasformazione antropologica, sociale e delle identità politiche. Sono i miracoli delle rivoluzioni passive, che restano la caratteristica più singolare di questo singolare paese”. Sembra inconfutabile, da Vincenzo Cuoco in poi, che in Italia non possa darsi una vera trasformazione sociale: non solo una rivoluzione dal basso – la retorica grillina ha incenerito per almeno un bel po’ questa possibilità – ma nemmeno un rinnovamento dei dispositivi di fare politica. L’idea di partito di Fabrizio Barca o di Giuseppe Civati vengono purtroppo molto ridimensionate da quest’idea di partito-Stato che esce da questo plebiscito.
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