13 maggio 2014

LA FIGURA DELL'OMINO CON LA GOBBA IN W. BENJAMIN




In una let­tera al suo amico Ger­shom Scho­lem, Ben­ja­min scrive che la fol­lia è l’essenza dei per­so­naggi di Kafka e aggiunge che solo l’aiuto di un folle è vera­mente un aiuto. Alla figura dell’«omino con la gobba»  Benjamin affida una promessa di salvezza

Raffaele K. Salinari

Walter Benjamin e l’omino con la gobba

C' è un per­so­nag­gio che accom­pa­gna, nasco­sto nel pro­fondo per­ma­nente ed immu­ta­bile degli arche­tipi infan­tili, tutta la vita di Wal­ter Ben­ja­min; un «chi è» che tro­viamo armeg­giante nei nascon­di­gli imma­gi­nali in cui il filo­sofo dei Pas­sa­ges ha voluto espli­ci­ta­mente col­lo­care la sca­tu­ri­gine del suo pen­siero. Un essere meta­fo­rico che si nasconde nel buio più recon­dito da cui ori­gi­nano le sue fol­go­ranti intui­zioni, e che da quella posta­zione gli disa­mina la visione delle cose.

Que­sto per­so­nag­gio ha solo una spe­ciale richie­sta, che fa per per­pe­trarsi nel tempo e nel ricordo di altre gene­ra­zioni, eter­niz­zare la sua essenza mutan­done la forma, come avviene per ogni immor­ta­lità sim­bo­lica: chiede che il suo nome resti segreto. In caso con­tra­rio egli spa­ri­rebbe, e con lui il mondo che lo ospita. È il dyb­buk di Wal­ter Ben­ja­min: l’«omino con la gobba» che tro­viamo nasco­sto anche nell’automa gio­ca­tore di scac­chi della prima Tesi sul con­cetto di sto­ria. «È noto che sarebbe esi­stito un automa costruito in un modo tale da rea­gire ad ogni mossa di un gio­ca­tore di scac­chi con una con­tro­mossa che gli assi­cu­rava la vit­to­ria.

Un mani­chino vestito da turco, con una pipa in bocca, sedeva davanti alla scac­chiera, posta su un ampio tavolo. Con un sistema di spec­chi veniva data l’illusione che vi si potesse guar­dare attra­verso da ogni lato. In verità c’era seduto den­tro un nano gobbo, mae­stro nel gioco degli scac­chi, che gui­dava per mezzo di fili la mano del mani­chino. Un cor­ri­spet­tivo di que­sto mar­chin­ge­gno si può imma­gi­nare nella filo­so­fia. Vin­cere sem­pre deve il mani­chino detto «mate­ria­li­smo storico».

Esso può com­pe­tere senz’altro con chiun­que se prende al suo ser­vi­zio la teo­lo­gia, che oggi, com’è a tutti noto, è pic­cola e brutta, e tra l’altro non deve lasciarsi vedere». Ma que­sto «nano gobbo», per ammis­sione dello stesso Ben­ja­min, è in realtà un suo «dop­pio», il dyb­buk che lo pos­siede e lo spinge a fare ciò che vuole, così dirà nel suo sag­gio Avan­guar­dia e rivo­lu­zione, citan­dolo come impa­ren­tato ai per­so­naggi scan­zo­nati, vaga­bondi e gio­iosi di Robert Wal­ser «che si muo­vono nella notte, dove essa è più nera; una notte vene­ziana, se si vuole, illu­mi­nata dai deboli lam­pioni della spe­ranza, con qual­che luce di gioia negli occhi».

Il dyb­buk, nella tra­di­zione popo­lare ebraica polacca e tede­sca, è lo spi­rito disin­car­nato al quale è stato vie­tato l’ingresso in para­diso per aver com­messo pec­cati mor­tali, come il sui­ci­dio per amore. Ad alcune di que­ste anime, per imper­scru­ta­bili motivi, viene data la pos­si­bi­lità di emen­darsi con­di­vi­dendo l’anima di un altro corpo, ed avere così una seconda possibilità.

Nelle vec­chie sina­go­ghe di Ber­lino, quando Ben­ja­min era ancora bam­bino, si nar­rava anche che i dyb­buk fos­sero fug­giti dalla gehen­naa, un ter­mine ebraico tra­du­ci­bile libe­ra­mente con «luogo dei mia­smi». Ma ciò che dà il senso ultimo del dyb­buk è l’etimologia della parola, che deriva dall’ebraico davok, «attac­carsi»: il dyb­buk dun­que è un qual­cosa che si attacca ad un vivente per coa­bi­tare in esso, in senso ampio una «pos­ses­sione». Que­sta sim­biosi forma un dib­bu­kim, ed è così che descrive la pro­pria rela­zione con l’«omino gobbo» il filo­sofo ber­li­nese in una let­tera all’amico Ger­shom Scho­lem: «con­serva le mie imma­gini, io non posso divi­dermi da lui», come ad evo­care qual­che cosa di deter­mi­na­tivo per tutto il suo essere.

Que­sto per­so­nag­gio appare la prima volta nella rac­colta di imma­gini Infan­zia ber­li­nese, edita postuma nel 1950 a cura dell’amico Theo­dor Adorno: «Nel 1932, men­tre ero all’estero, ini­ziai a ren­dermi conto che pre­sto avrei dovuto dire addio per molto tempo, forse per sem­pre, alla città in cui ero nato… Nella mia vita inte­riore avevo più volte spe­ri­men­tato come fosse salu­tare il metodo della vac­ci­na­zione, lo seguii anche in que­sta occa­sione e inten­zio­nal­mente feci emer­gere in me le imma­gini — quelle dell’infanzia — che in esi­lio sono solite risve­gliare più inten­sa­mente la nostal­gia di casa.

Cer­cai di con­te­nerla restando fedele non al cri­te­rio della cau­sale irre­cu­pe­ra­bi­lità bio­gra­fica del pas­sato bensì a quella, neces­sa­ria, di ordine sociale. Ciò ha com­por­tato che i tratti bio­gra­fici che si deli­neano piut­to­sto nella con­ti­nuità che nella pro­fon­dità dell’esperienza, in que­sti brani restino del tutto sullo sfondo. E con essi le fisio­no­mie — quelle della mia fami­glia al pari di quelle dei miei com­pa­gni. Mi sono invece sfor­zato di impa­dro­nirmi di quelle imma­gini in cui l’esperienza della grande città si sedi­menta in un bam­bino della bor­ghe­sia. Ritengo pos­si­bile che a tali imma­gini sia riser­vato un par­ti­co­lare destino. Non sono ancora attese da forme ben model­late come quelle di cui, nel sedi­mento della natura, da secoli dispon­gono i ricordi di una infan­zia tra­scorsa in cam­pa­gna. Le imma­gini della mia infan­zia nella grande città invece sono forse ido­nee a pre­for­mare nel loro intimo l’esperienza sto­rica suc­ces­siva. Almeno in que­ste, spero, appare com­pren­si­bile quanto colui di cui qui sui parla in una fase suc­ces­siva fece a meno della sicu­rezza che era toc­cata alla sua infanzia».

Così Wal­ter Ben­ja­min motiva la ricerca delle sue immagini-guida nell’introduzione di Infan­zia ber­li­nese. Qui il tema del ricordo, della recher­che di tipo prou­stiano, si ali­menta, ma solo in appa­renza, di un per­corso metro­po­li­tano che, però, fini­sce ine­vi­ta­bil­mente per con­ver­gere verso quel per­so­nag­gio attorno al quale, per espli­cita ammis­sione e scelta dell’autore, gra­vi­tano tutte le imma­gini capaci di «pre­for­mare nel loro intimo l’esperienza sto­rica suc­ces­siva». Qui Ben­ja­min allude, ancora una volta, alla «debole forza mes­sia­nica» di certe imma­gini, forse in grado di sal­vare un futuro pre­sente sul quale già si sten­deva minac­ciosa l’ombra incom­bente del nazi­smo. Theo­dor Adorno bene iden­ti­fica que­sto nesso quando, nella post­fa­zione alla prima edi­zione della rac­colta afferma: «Infan­zia ber­li­nese è stata scritta all’inizio degli anni Trenta… Le imma­gini che il libro fa emer­gere fino ad una scon­cer­tante vici­nanza, non sono né idil­lia­che né con­tem­pla­tive. Su di loro si stende l’ombra del reich hitle­riano. Come in sogno, con­giun­gono l’orrore che que­sto suscita a ciò che è stato. Di fronte alla dis­so­lu­zione del pro­prio pas­sato bio­gra­fico, l’intellettuale bor­ghese, con ter­rore panico, prende con­sa­pe­vo­lezza di se stesso come parvenza».

E cosa ci può essere di più par­vente, fan­ta­sma­tico, ma al tempo stesso reale e per­ma­nente, di un per­so­nag­gio infan­tile con il quale si è col­lo­quiato durante i lun­ghi anni della pro­pria for­ma­zione psi­chica? La sua cen­tra­lità è tale, nell’economia di Infan­zia ber­li­nese e non solo, che Adorno, nella post­fa­zione, dice chia­ra­mente che: «L’omino con la gobba doveva ser­vire da conclusione».

Dunque nel rito messianico che Benjamin amministra attraverso l’accurata scelta delle immagini, all’«omino con la gobba» viene affidata una promessa di salvezza



La scan­sione delle imma­gini di Infan­zia ber­li­nese, infatti, ci guida verso l’«omino con la gobba» attra­verso la descri­zione di luo­ghi defi­niti, come il Kai­ser­pa­no­rama, un pre­cur­sore del cinema con imma­gini da vedere attra­verso ste­reo­scopi davanti ai quali sede­vano gli spet­ta­tori, o i ricordi del Tier­gar­ten, il grande parco al cen­tro della città con i suoi favo­losi ani­mali, la lon­tra, i pavoni le far­falle, o della sua casa immersa nella luce lunare che «non è desti­nata al nostro vivere diurno», con tutto il cor­teo dome­stico di armadi, cal­zini, la sca­tola con gli stru­menti per cucire, o il tele­fono che, all’epoca, se ne stava «incom­preso ed esi­liato». Dun­que nel rito mes­sia­nico che Ben­ja­min ammi­ni­stra attra­verso l’accurata scelta delle imma­gini, all’«omino con la gobba» viene affi­data una pro­messa di salvezza.

Dopo que­ste «stanze», a mo’ di intro­du­zione, ecco ad un tratto appa­rire un essere, una entità, total­mente distinta, un tota­li­ter ali­ter cui Ben­ja­min, ina­spet­ta­ta­mente, attri­bui­sce il ruolo di alter ego, ma di un tipo affatto par­ti­co­lare, dato che è lui a vedere, senza essere visto, tutte le imma­gini pre­ce­denti: «Quando com­pa­riva restavo con un palmo di naso (nell’originale tede­sco Ben­ja­min usa l’espressione das Nach­se­hen haben, alla let­tera «seguire le cose con lo sguardo»). E intanto le cose si ritrae­vano, sino a che, pas­sato un anno, il giar­dino divenne un giar­di­netto, la mia camera una came­retta, la panca una pan­chetta. Le cose si assot­ti­glia­vano, ed era come se spun­tasse loro una gobba che le assi­mi­lava all’omino. L’omino mi anti­ci­pava sem­pre. E nell’anticiparmi intral­ciava il mio cam­mino. In realtà non faceva che riscuo­tere di ogni cosa cui vol­gevo la mia atten­zione, la metà del dimen­ti­care… Fu sem­pre solo lui a vedere me. Mi vide nel nascon­di­glio e davanti al recinto della lon­tra, nei mat­tini d’inverno e davanti al telefono…».

L’«omino gobbo» dun­que, assi­mila pro­gres­si­va­mente il mondo visio­na­rio ed infan­tile di Ben­ja­min nella sua gobba, riscuo­tendo inol­tre la «metà del dimen­ti­care». Ecco per­ché il filo­sofo, alla fine, lo ritiene il suo dyb­buk, una entità che vive con lui, che con­di­vide i sui pen­sieri più nasco­sti, ed anche che li pro­tegge dalla sto­ria nella sua mistica gobba. Come non richia­mare un’altra immagine-guida di Ben­ja­min, quella dell’Angelo della sto­ria con il volto alle mace­rie del pas­sato e le ali già spie­gate verso il futuro?

Non è forse il mondo che l’omino con la gobba pre­serva nella sua defor­ma­zione a costi­tuire il pos­si­bile futuro verso il quale l’Angelus Novus viene spinto? Come dirà delle immagini-costellazione nei suoi Pas­sage pari­gini, l’«omino con la gobba» vive in un luogo in cui «un’epoca sogna la successiva».

Tutto ciò che si pro­duce nell’ebraismo, ha scritto Rosen­z­weig in La stella della reden­zione, com­porta una dop­pia rela­zione, da una parte con que­sto mondo e dall’altra con un mondo che deve venire: Ben­ja­min ricava il suo spa­zio in que­sta tra­di­zione. Ecco per­ché l’«omino con la gobba» di Infan­zia ber­li­nese, nasco­sto nel buio not­turno della can­tina, così come il suo cor­ri­spet­tivo nasco­sto nel buio dell’automa gio­ca­tore di scac­chi nelle Tesi sul con­cetto di sto­ria, verrà da Ben­ja­min con­ti­nua­mente citato, richia­mato, allu­si­va­mente evo­cato in una plu­ra­lità di saggi, come quello su Kafka, al fine di essere poi uti­liz­zato come vei­colo meta­fo­rico, affi­da­bile pro­prio per la sua spe­ci­fi­cità for­male, per quella carica pro­iet­tiva che in Ben­ja­min, come in tutti i grandi visio­nari, cam­biava di pola­rità mutando la defor­mità in sal­vezza.

La genia dell’omino con la gobba. Ma chi erano i sodali dell’«omino gobbo», la sua genia occulta, nasco­sta nella buca del pal­co­sce­nico infan­tile del filo­sofo ber­li­nese? Tra quali per­so­naggi della tra­di­zione ebraica egli lo aveva scelto per la capa­cità di tra­sfor­mare in visione mes­sia­nica le angu­stie e le paure della sua vita erra­bonda, in deflusso esca­to­lo­gico le ansie infan­tili? Il filo sot­tile che lega que­sti per­so­naggi viene costan­te­mente evo­cato da Ben­ja­min come in una for­mula alche­mica, in cui ciò che si legge non cor­ri­sponde a nulla di frui­bile se non per un ini­ziato che pos­segga la chiave di let­tura. L’«omino gobbo» appar­tiene, lo abbiamo accen­nato, a quella stirpe di figure che Ben­ja­min rife­ri­sce all’arte di Robert Wal­ser; in spe­ci­fico a quella parte che «ci rivela donde pro­ven­gono i suoi diletti. E cioè dalla fol­lia, e basta».

Si tratta però di una forma di «fol­lia» par­ti­co­lare, più defi­ni­bile come «mania», avrebbe detto Pla­tone nel Fedro (244 A-C), come quella che «viene dalle Ninfe», che porta i doni più ambiti, una fol­lia che «illu­mina».

Anche in una let­tera al suo amico Ger­shom Scho­lem, Ben­ja­min scrive che «la fol­lia è l’essenza dei per­so­naggi di Kafka; da Don Chi­sciotte, agli assi­stenti, fino agli ani­mali», e aggiunge che solo l’aiuto di un folle è vera­mente un aiuto.

«Vi è, come dice Kafka, un’infinita spe­ranza, solo non per noi». Ecco che il dyb­bu­kim Wal­ter Benjamin-omino con la gobba, al tempo stesso lui e non lui, può lan­ciare uno sguardo sull’infinita spe­ranza. Nel sag­gio su Kafka, Ben­ja­min ci spiega che «que­sto ometto è l’inquilino della vita distorta; e sva­nirà quando verrà il Mes­sia, di cui un gran rab­bino ha detto che non intende mutare il mondo con la vio­lenza, ma solo aggiu­starlo di pochis­simo». E allora, que­sto «aggiu­stare di pochis­simo», que­sto rad­driz­zare i torti, come forse la gobba dell’omino, met­tono il per­so­nag­gio «kaf­kiano» in diretta rela­zione col Messia.

Il «gran rab­bino» a cui Ben­ja­min fa rife­ri­mento è Rabbi Nach­man di Bre­slav, uno dei padri fon­da­tori del chas­si­di­smo, il movi­mento mistico popo­lare che vedeva la spe­ranza palin­ge­ne­tica depo­si­tata negli emar­gi­nati, i folli e gli inetti. Rabbi Nach­man soste­neva, con disar­mante sem­pli­cità, che «la venuta del Mes­sia non cam­bierà nulla, salvo che ognuno si accor­gerà della pro­pria insipienza».

Da que­sto rife­ri­mento capiamo anche l’attitudine di Ben­ja­min rispetto al mondo miste­rioso dell’infanzia, a quei segreti nasco­sti all’interno della gobba dell’omino come nel buio dell’automa gio­ca­tore di scac­chi. Per que­sta cor­rente del misti­ci­smo ebraico, infatti, il solo nomi­nare que­sti segreti senza sve­larli, poteva affret­tare l’avvento dei tempi mes­sia­nici. Per capire il chi è dell’«omino con la gobba» si deve dun­que tor­nare alle visioni infan­tili che egli ritro­vava nelle espe­rienze con l’hashish, dove ad un certo punto dice: «La male­du­ca­zione è il dispia­cere che il bam­bino prova per il fatto di non essere capace di magia. La sua prima espe­rienza del mondo non è che gli adulti sono più forti, ma la sua inca­pa­cità di pra­ti­care la magia».

L’«omino con la gobba» è dun­que un essere favo­loso che ci riporta ai momenti esta­tici, auro­rali, dell’entusiasmo infan­tile: il tempo del mistero e del segreto, quando «tutto era ancora possibile».

«Non cre­diate il destino sia più che l’intensità dell’infanzia» dice Rilke, e nes­suno più di Ben­ja­min, che ha teso tutta la sua vita tra le pola­rità di una fede poli­tica mate­ria­li­sta e una reli­gio­sità mistica, può capirlo.

Anche nel romanzo di Elias Canetti Auto da fé (nell’originale Die Blen­dung, acce­ca­mento), com­pa­riva un gob­betto gio­ca­tore di scac­chi, l’ebreo Fischerle, anche lui sim­bolo del legame che l’uomo deve avere con le rovine del pas­sato se vuole pro­get­tare il futuro. Sia per Ben­ja­min che per Canetti, allora, l’«omino gobbo» è il fan­ta­sma dell’identità che per nascon­dersi e sal­varsi, ma anche per agire sot­til­mente sul mondo, deve pren­dere forme deformi.Sullo sfondo di que­ste sto­rie si sta­gliano infine figure come quelle del Golem, creato da Jehuda Löw ben Beza­lel, rab­bino in Praga nel sedi­ce­simo secolo, o dell’Homun­cu­lus di Para­celso: simu­la­cri di vita pro­dotti arti­fi­cial­mente ed al ser­vi­zio del loro padrone certo, ma solo in quanto ani­mati dalle stesse forze misti­che che donano la vita, o la morte, agli esseri umani che li hanno concepiti.

La con­fes­sione

Que­sta chiave di let­tura intima, per­so­na­lis­sima, ci viene data da Ben­ja­min in punto di morte, come estrema con­fes­sione che ritro­viamo in una let­tera alla ado­rata Gre­tel Adorno, alla quale ha affi­dato il segreto dei suoi ricordi. Siamo qui a poche ore della morte sui­cida, nel Set­tem­bre del 1940 a Port-Bou in Spa­gna, men­tre ten­tava di emi­grare negli Usa. Ben­ja­min ha con sé una borsa nera nella quale, forse, si trova la ste­sura finale, «asso­luta» dirà lui, delle Tesi, che egli vedeva come pre­messa neces­sa­ria al grande affre­sco dei Passage.

Il suo stato d’animo è ben descritto dalla let­tera nella quale ritorna il con­te­nuto inti­mi­sta delle imma­gini di Infan­zia ber­li­nese: «Per quanto con­cerne la tua richie­sta di appunti che pos­sano risa­lire alla con­ver­sa­zione sotto gli alberi di mar­ron­niers, ebbene, si è pre­sen­tata in un momento in cui pro­prio que­gli appunti mi hanno dato da fare. La guerra, e la costel­la­zione che l’ha por­tata con sé, mi ha con­dotto a met­tere per iscritto alcuni pen­sieri che posso dire di aver tenuto per almeno vent’anni custo­diti in me, anzi pre­ser­van­doli pure da me stesso. Que­sto è anche il motivo per cui per­sino a voi non ho con­cesso altro che un fug­ge­vole sguardo su di essi. La con­ver­sa­zione sotto i mar­ron­niers fu una brec­cia in que­sti vent’anni. Ancora oggi te li con­se­gno più come un maz­zetto di erbe sus­sur­ranti messe insieme in pas­seg­giate medi­ta­tive che come una rac­colta di tesi (…).

Esse mi fanno sup­porre che il pro­blema del ricordo (e dell’oblio), che vi appare ad un altro livello, mi terrà occu­pato ancora per molto tempo». In realtà egli non ebbe tutto il tempo che avrebbe voluto, pochi giorni dopo una dose di mor­fina lo stron­cherà, ma nella mis­siva respi­riamo l’aria che aleg­gia intorno ai miste­riosi per­so­naggi che ven­gono diret­ta­mente dai giorni dell’infanzia, la loro sca­tu­ri­gine oni­rica ed allu­siva, che li ren­deva pas­sage dei pen­sieri segreti che solo in punto di morte Ben­ja­min si era deciso a sve­lare. E allora capiamo che la pre­ghiera finale di Infan­zia ber­li­nese dedi­cata al per­so­nag­gio kaf­kiano, è in realtà per se stesso: «Prega bam­bino mio, per l’omino con la gobba prega Iddio».


Il Manifesto – 17 maggio 2013



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