Letteratura e neuroscienze
13 maggio 2014[Questo intervento è già uscito su La ricerca].
Si stanno facendo sempre più frequenti e
positivi i rapporti fra la teoria letteraria e le nuove scienze
cognitive. Rispetto a quando ne ho scritto nel libro Convergenze
(Milano, B. Mondadori, 2010), i contributi importanti si sono infittiti
e hanno toccato problemi di estetica, di ricezione, di analisi
dell’immaginario poetico, narrativo, figurativo, filmico. Prima George
Lakoff, il linguista di scuola cognitivista di Berkeley e poi il suo
allievo Mark Turner hanno dedicato molta attenzione ai problemi della
metafora e di altre forme della comunicazione, elaborando la teoria
dell’«integrazione concettuale» o conceptual blending (G. Fauconnier – M. Turner, Amalgami: introduzione ai network di integrazione concettuale, Urbino,
Quattro venti, 2001). Poi (e cito solo alcuni fra i protagonisti
importanti della discussione) T. G. Pavel, Lubomír Doležel, Leonard
Talmy e parecchi altri hanno indagato a fondo sui problemi della
finzione narrativa (Doležel, Heterocosmica. Fiction e mondi possibili,
Milano, Bompiani 1999). Ricordo, qui da noi, due interventi molto
importanti, che hanno allineato la ricerca italiana con quella
internazionale: quello di un filosofo come Alfonso Iacono con il libro L’illusione e il sostituto. Riprodurre, imitare, rappresentare (Milano, B. Mondadori, 2010), e quello di uno studioso della letteratura come Alberto Casadei, con il libro Poetiche della creatività. Letteratura e scienze della mente (Milano, B. Mondadori, 2011).
Sul lato degli scienziati è intervenuto
spesso ed efficacemente Vittorio Gallese, lo studioso della scuola
parmense di Giacomo Rizzolatti, quella che ha messo a punto, su basi
sperimentali, la teoria dei neuroni specchio,cioè di quei neuroni del
cervello nostro e di altri animali che si attivano quando un soggetto
compie un’azione ma soprattutto quando osserva un altro soggetto
compiere la stessa azione. Gallese si è coraggiosamente occupato del
rapporto fra scienze cognitive e scienze umane, a volte da solo altre
volte in dialogo con colleghi linguisti, filosofi, psicologi,
psicoanalisti, studiosi dell’arte, della letteratura o della musica,
cercando nella teoria dei neuroni specchio la conferma di fenomeni come
l’empatia, l’espressione simbolica, la «simulazione incarnata» (embodiment),
la finzione di mondi possibili, il ritmo, le strutture architettoniche,
ecc. In un saggio recente, chiaro e divulgativo, pubblicato su
«Micromega» (2/2014, pp. 49-67), intitolato Arte, corpo, cervello: per un’estetica sperimentale, egli ha condensato i risultati dei suoi lavori, che si trovano sparsi in moltissime pubblicazioni.
Prendo spunto dalle sperimentazioni e
dalle teorizzazioni di Gallese per provare a rileggere e interpretare un
sonetto di Petrarca, che mi ha sempre colpito per il modo radicale con
cui descrive l’esperienza (Erlebnis) dell’amore. Ho presente
alcune letture e interpretazioni di poesie in chiave cognitivista che mi
è capitato di incontrare di recente: la poesia di Robert Browning Porphyria’s Lover nel libro di Mark Turner The Literary Mind. The Origins of Thought and Language (New York, Oxford, 1996), il poemetto Triumph of Life di Percy Bysshe Shelley nel libro di Patrick Colm Hogan Cognitive Science, Literature, and the Arts, A Guide for Humanists, New York, Routledge, 2003, il sonetto di Rainer Maria Rilke Die Gazelle nel grosso lavoro del poeta austriaco Raoul Schrott e dello psicologo berlinese Arthur Jakobs intitolato Gedicht und Gehirn (Monaco, Hanser, 2011), il poemetto di Amelia Rosselli La libellula nel saggio di Ida Campeggiani Sull’«oggettvità» dei contenuti di Amelia Rosselli: Proposte per La libellula,
pubblicato in un numero speciale di «Italianistica» (XL, 3, 2011)
proprio sul tema «Letteratura e scienze cognitive» curato da Alberto
Casadei (che alla Rosselli ha dedicato molte pagine nel libro che ho
prima citato).
Molte delle interpretazioni privilegiano
alcuni strati specifici del testo poetico: lo strato ritmico (collegato
con musica e corpo) negli interventi di Schrott e Jakobs, oppure lo
strato semantico e il gioco delle metafore (ma anche dei movimenti del
corpo nello spazio) in parecchi altri esempi. Casadei chiede di
considerare i testi poetici nella loro sostanza complessiva «legando i
tratti stilistici dominanti non a una serie di costanti astratte ma
alla fusione di ambiti concettuali diversi» e chiede di puntare al
«senso d’insieme di un’opera, in particolare di quelle più complesse,
che recano “incorporate” le tracce di un’esperienza rivissuta (Erlebnis)
non riducibile al già noto». Forse è necessario fare un altro passo e
scendere negli strati profondi del testo in esame. Forse la teoria dei
neuroni specchio può darci un aiuto. Ecco il sonetto di Petrarca:
Poco era ad appressarsi agli occhi mieila luce che da lunge gli abbarbaglia,
che, come vide lei cangiar Thesaglia,
così cangiato ogni mia forma avrei.
Et s’io non posso trasformarmi in lei
più ch’i’ mi sia (non ch’a mercé mi vaglia),
di qual petra più rigida si ’ntaglia
pensoso ne la vista oggi sarei,
o di diamante, o d’un bel marmo biancho,
per la paura forse, o d’un diaspro,
pregiato poi dal vulgo avaro et scioccho;
et sarei fuor del grave giogo et aspro,
per cui i’ò invidia di quel vecchio stancho
che fa co le sue spalle ombra a Marroccho.
Il tema dell’incontro con la donna amata
e con il suo sguardo abbagliante (tradizionale tema della poesia
stilnovistica) viene questa volta rielaborato e ha l’effetto di produrre
una metamorfosi sia nella donna sia ne poeta. Per esprimere queste
trasformazioni vengono rievocati due antichi miti 1) quello della ninfa
Dafne, figlia del dio fluviale Peneo in Tessaglia, che respinse l’amore
di Apollo e fu da lui trasformata in un albero di alloro (lauro; in
greco l’alloro era chiamato dafne), il che istituisce un possibile
rapporto di somiglianza fra Laura e Dafne; 2) quello del gigante
Atlante, che fu punito da Giove a portare sulle sue spalle l’intera
volta celeste e successivamente da Perseo, offeso perché si era
rifiutato di ospitarlo, e da lui pietrificato facendogli vedere la testa
della Medusa (i cui occhi abbaglianti avevano l’effetto di pietrificare
chi la guardava) e quindi trasformato nell’omonima catena montuosa del
Nordafrica; ciò istituisce un rapporto di somiglianza fra Atlante e
Petrarca (il cui nome, fra l’altro, conteneva la parola «petra», latino
per pietra).
Il sonetto, se si considera l’insieme
della sua struttura fonica, ritmica, sintattica e tematica, è assai più
intricato di molti altri petrarcheschi, al punto da aver spinto i
commentatori tradizionalisti, probabilmente irritati per la forte
presenza di elementi allegorici e mitici, a definire, per esempio,
«artificioso il contenuto, artificioso il linguaggio, strane e inusitate
le rime» e a sentenziare: «di poesia, in questi versi arzigogolati, c’è
poco o nulla». Si sente, in questi giudizi, la presenza della
sensibilità romantica, che tende a considerare troppo fredde le
allusioni ai miti classici e poco poetica l’allegoria. Vediamo.
Si notano, nella struttura sintattica
del sonetto alcuni fenomeni vistosi: i periodi sono ampi e complessi,
con salti logici e improvvisi rilanci, e un rapporto dinamico e poco
abituale fra i periodi strofici delle quartine e terzine; notevoli
inversioni grammaticali (come quella della frase «vide lei cangiar
Thesaglia», con messa in rilievo dello stravolgimento naturale compiuto
dalla metamorfosi e dall’effetto di stupore sull’ambiente); frequenti
frasi relative, comparative e consecutive, a volte inserite a telescopio
le une nelle altre; ordine poco simmetrico (alla coppia di aggettivi
«vulgo avaro et scioccho» risponde con ordine variato l’unica altra
coppia «grave giogo et aspro»); ritmo lento, regolare, accenti che
cadono quasi su ogni parola e contribuiscono ad accrescere la tensione
dinamica fra l’andamento solenne e pensoso del discorso e l’intrico
tortuoso in cui esso si avvolge; sistema di rime fonicamente
consistenti, che mettono in rapporto fra loro parole sempre
semanticamente differenziate, grammaticalmente appartenenti a categorie
diverse, di differente lunghezza, spesso anche rare, compresi gli unici
due nomi propri di luogo («Thesaglia», «Marroccho»), che servono a
identificare i personaggi mitologici non indicati per nome; numerosi
richiami fonici interni; sistema drammatico dei personaggi e delle forze
in presenza: «lei» (a indicare Laura-Dafne non direttamente nominata),
«io», e, sullo sfondo, indifferente o addirittura nemico, il «vulgo
avaro e scioccho» (che è indirettamente evocato, come spettatore
anonimo, anche dall’immagine del poeta «pensoso ne la vista»), e
inoltre, a diversamente impersonare (e rafforzare) gli attori principali
del dramma, l’altra «lei», cioè Dafne, e «il vecchio stanco», cioè
Atlante (non direttamente nominati), con i quali si identificano Laura e
il pur giovane poeta, e infine Medusa, evocata soltanto dal ricordo
implicito mitologico, ma capace di conferire ben altro e pregnante
significato all’immagine iniziale della «luce che da lunge…
abbarbaglia».
Per effetto di tutti gli artifici che ho
notato vengono messi in rilievo e dinamicizzati i significati del
sonetto, per cui di ogni singola parola viene sottolineato non solo il
significato specifico (e la consistenza fonica), ma anche la ricchezza
semantica (la polisemia). Il testo poetico non solo attiva il contenuto
semantico degli elementi che lo costituiscono, ma tende a catturare
significati (anziché eliminarli e rimuoverli) e presenta alle
successive generazioni di lettori un’ampia gamma di reazioni e
interpretazioni. Nel caso di questo sonetto, a riempirlo di densità
semantica, narrativa e drammatica, e a fungere da centro generativo di
immagini e temi, sono introdotte, allusivamente, due storie di
metamorfosi: quella di Dafne inseguita da Apollo innamorato e tramutata
in lauro, e quella di Atlante, tramutato in pietra, o montagna, per
intervento di Perseo e di Medusa. L’amore, sotto forma di luce
abbagliante che colpisce attraverso gli occhi e tocca la sostanza
profonda e vitale dell’essere umano (il cuore), è rappresentato come
energia trasformatrice e forza metaforizzante, che può cangiare ogni
forma (da uomini in piante, da uomini in altri uomini, da uomini in
pietre minerali). Si costituiscono così alcuni campi metaforici e alcune
polarità tematiche, che investono le azioni dell’«appressarsi»,
dell’«abbarbagliare», del «cangiare», del «trasformarsi», del «valere a
mercé», dell’«avere invidia», e assegnano alla donna la funzione
dell’emettere luce e all’uomo (rappresentato in Atlante) del fare ombra,
e a lei quella d’impietrire e costituire un «grave giogo e aspro» e a
lui quella di essere oppresso, e divenir bianco di «paura», e volersi
trasformare, divenendo pietra preziosa o marmo, ed essere «rigido» e
«pensoso».
Ma l’aspetto forse più interessante del
sonetto sta nella rappresentazione di amore come pulsione, nella brama
del poeta innamorato di attivarsi, quasi fosse un neurone specchio, e
trasformarsi nella donna amata, di cambiare la propria forma nella sua,
di divenire lei. Questo, che dal punto di vista delle concezioni d’amore
sembra un apporto petrarchesco assai originale, offre al Canzoniere
un modello di procedimento narrativo, drammatico e anche
rappresentativo importante e fondamentale. Se il poeta può trasformarsi
nella donna e la donna nel poeta, così, per la proprietà transitiva,
tutt’e due possono trasformarsi negli stessi elementi e oggetti del
mondo animale, vegetale o minerale: egli può divenire un cervo, ella una
cerva; egli può essere pensoso e chiuso come una pietra sepolcrale o un
sasso, ella può essere rinchiusa, morta, sotto una pietra sepolcrale;
egli può divenire bianco marmo, ella insensibile come pietra; ella può
trasformarsi in lauro, egli può trasformarsi in lauro, e così via.
I campi tematici che abbiamo messo in
rilievo in questo sonetto possono istituire rapporti, in modo più o meno
esplicito, con alcuni settori dell’immaginario culturale petrarchesco
(forse possiamo chiamarlo la sua ‘enciclopedia culturale’) e certamente,
in questo caso a quella parte di esso che si è soliti rubricare come:
astrologia, cosmologia, fisica e fisiologia e che era consegnata a
composizioni del mondo, storie naturali, bestiari, erbari, lapidari e
presentava un sistema molto preciso di contrapposizioni degli elementi,
dei segni e dei simboli, per cui alla coppia contrastiva degli elementi
fuoco e acqua si opponeva, simmetricamente, la coppia contrastiva aria
(aura) e terra (pietra) e a ciascuno di questi elementi si collegavano
le qualità degli esseri (le coppie caldo/freddo e secco/umido in
rapporto con le coppie aria/terra e acqua/fuoco), e con esse erano
collegati, a loro volta, gli umori del corpo e i temperamenti umani (con
l’aria erano collegati l’umore del sangue e il temperamento sanguigno,
con la terra la bile nera e il temperamento malinconico, con il fuoco la
bile gialla e il temperamento collerico, con l’acqua il flegma e il
temperamento flemmatico). Questo sistema di corrispondenze era
ulteriormente complicato, nella definizione dei destini umani e
naturali, dalla posizione alla nascita del sole, dei pianeti e delle
costellazioni, e nella scelta e descrizione di ambienti e persone, dalla
topologia dei luoghi, dalla fisiognomica, dal dizionario dei gesti,
dalla simbologia dei colori, ecc.
In questo sonetto mi par chiaro, per
esempio, che l’aggettivo «pensoso», riferito al soggetto, va collegato
con la pietra, in cui egli desidera trasformarsi, e va riferito
all’ambito dei comportamenti del carattere malinconico; ed è possibile
anche inferire, dall’attributo della luce e della forza abbagliante
propri della donna, i suoi rapporti con l’elemento del fuoco e del
temperamento collerico.
Va ricordato che nella scienza medica
antica, e con un’elaborazione particolarmente ampia in Ippocrate e
Galeno, la malinconia aveva un posto importante nella teoria dei quattro
umori del corpo umano. La malinconia (letteralmente «bile nera») era,
come le emorroidi, la dissenteria e le eruzioni cutanee, una malattia
causata dall’eccesso nel corpo umano del liquido secreto dalla bile. Gli
altri tre umori, e cioè il sangue, la bile gialla e il flegma, prodotti
ciascuno da un organo del corpo, quando sono in quantità eccessiva,
hanno come effetto di creare nella nostra natura un diverso tipo di
squilibro o malattia o «temperamento». Una quantità eccessiva di sangue
produce un temperamento sanguigno, appassionato; una quantità eccessiva
di bile gialla un temperamento collerico, facile all’ira, furioso (l’ira
di Achille, Hercules furens, Orlando furioso); una quantità eccessiva
di flegma un temperamento flemmatico, indolente, incapace di emozioni.
Nella sua forma più elaborata e complessa, questa teoria comportava
un’ampia rete di associazioni e corrispondenze: il sangue, la bile
gialla, la bile nera e il flemma, in quest’ordine, erano associati di
volta in volta con gli elementi fondamentali della natura: l’aria, il
fuoco, la terra e l’acqua; con le sue qualità principali: caldo e umido,
freddo e secco, freddo e umido, caldo e umido; con i quattro punti
cardinali e i venti che provengono da essi: il Noto, vento del sud,
Zefiro, vento dell’ovest, Borea, vento del nord, Euro, vento dell’est o
sud-est; con le quattro stagioni: primavera, estate, autunno, inverno;
con le quattro parti del giorno: mattina, pomeriggio, sera, notte; con
le quattro età dell’uomo: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia, e
persino con i pianeti e le forze sovrannaturali e divine che governano
il mondo: Venere e Giove erano collegati con il temperamento sanguigno,
Marte con quello collerico, la Luna con quello flemmatico e,
naturalmente, Saturno, il vecchio dio della terra, con il temperamento
malinconico.
La concezione dell’amore come
trasformazione radicale del soggetto è presente in parecchie altre
poesie di Petrarca, ma forse qui lo è nel modo più estremo e radicale.
Mi chiedo se la teoria dei neuroni specchio (forse intuita in modo
pre-scientifico da Petrarca) possa aiutarci a comprenderla.
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