14 maggio 2014

Francesco Petrarca nella critica contemporanea





Letteratura e neuroscienze

 
 
di Remo Ceserani


[Questo intervento è  già uscito su La ricerca].

Si stanno facendo sempre più frequenti e positivi i rapporti fra la teoria letteraria e le nuove scienze cognitive. Rispetto a quando ne ho scritto nel libro Convergenze (Milano, B. Mondadori, 2010), i contributi importanti si sono infittiti e hanno toccato problemi di estetica, di ricezione, di analisi dell’immaginario poetico, narrativo, figurativo, filmico. Prima George Lakoff, il linguista di scuola cognitivista di Berkeley e poi il suo allievo Mark Turner hanno dedicato molta attenzione ai problemi della metafora e di altre forme della comunicazione, elaborando la teoria dell’«integrazione concettuale» o conceptual blending (G. Fauconnier – M. Turner, Amalgami: introduzione ai network di integrazione concettuale, Urbino, Quattro venti, 2001). Poi (e cito solo alcuni fra i protagonisti importanti della discussione) T. G. Pavel, Lubomír Doležel, Leonard Talmy e parecchi altri hanno indagato a fondo sui problemi della finzione narrativa (Doležel, Heterocosmica. Fiction e mondi possibili, Milano, Bompiani 1999). Ricordo, qui da noi, due interventi molto importanti, che hanno allineato la ricerca italiana con quella internazionale: quello di un filosofo come Alfonso Iacono con il libro L’illusione e il sostituto. Riprodurre, imitare, rappresentare (Milano, B. Mondadori, 2010), e quello di uno studioso della letteratura come Alberto Casadei, con il libro Poetiche della creatività. Letteratura e scienze della mente (Milano, B. Mondadori, 2011). 
Sul lato degli scienziati è intervenuto spesso ed efficacemente Vittorio Gallese, lo studioso della scuola parmense di Giacomo Rizzolatti, quella che ha messo a punto, su basi sperimentali, la teoria dei neuroni specchio,cioè di quei neuroni del cervello nostro e di altri animali che si attivano quando un soggetto compie un’azione ma soprattutto quando osserva un altro soggetto compiere la stessa azione. Gallese si è coraggiosamente occupato del rapporto fra scienze cognitive e scienze umane, a volte da solo altre volte in dialogo con colleghi linguisti, filosofi, psicologi, psicoanalisti, studiosi dell’arte, della letteratura o della musica, cercando nella teoria dei neuroni specchio la conferma di fenomeni come l’empatia, l’espressione simbolica, la «simulazione incarnata» (embodiment), la finzione di mondi possibili, il ritmo, le strutture architettoniche, ecc. In un saggio recente, chiaro e divulgativo, pubblicato su «Micromega» (2/2014, pp. 49-67), intitolato Arte, corpo, cervello: per un’estetica sperimentale, egli ha condensato i risultati dei suoi lavori, che si trovano sparsi in moltissime pubblicazioni.
Prendo spunto dalle sperimentazioni e dalle teorizzazioni di Gallese per provare a rileggere e interpretare un sonetto di Petrarca, che mi ha sempre colpito per il modo radicale con cui descrive l’esperienza (Erlebnis) dell’amore. Ho presente alcune letture e interpretazioni di poesie in chiave cognitivista che mi è capitato di incontrare di recente: la poesia di Robert Browning Porphyria’s Lover nel libro di Mark Turner The Literary Mind. The Origins of Thought and Language (New York, Oxford, 1996), il poemetto Triumph of Life di Percy Bysshe Shelley nel libro di Patrick Colm Hogan Cognitive Science, Literature, and the Arts, A Guide for Humanists, New York, Routledge, 2003, il sonetto di Rainer Maria Rilke Die Gazelle nel grosso lavoro del poeta austriaco Raoul Schrott e dello psicologo berlinese Arthur Jakobs intitolato Gedicht und Gehirn (Monaco, Hanser, 2011), il poemetto di Amelia Rosselli La libellula nel saggio di Ida Campeggiani Sull’«oggettvità» dei contenuti di Amelia Rosselli: Proposte per La libellula, pubblicato in un numero speciale di «Italianistica» (XL, 3, 2011) proprio sul tema «Letteratura e scienze cognitive» curato da Alberto Casadei (che alla Rosselli ha dedicato molte pagine nel libro che ho prima citato).
Molte delle interpretazioni privilegiano alcuni strati specifici del testo poetico: lo strato ritmico (collegato con musica e corpo) negli interventi di Schrott e Jakobs, oppure lo strato semantico e il gioco delle metafore (ma anche dei movimenti del corpo nello spazio) in parecchi altri esempi. Casadei chiede di considerare i testi poetici nella loro sostanza complessiva «legando i trat­ti stilistici dominanti non a una serie di costanti astratte ma alla fusione di ambiti concettuali diversi» e chiede di puntare al «senso d’insieme di un’opera, in particolare di quelle più complesse, che recano “incorporate” le tracce di un’esperienza ri­vissuta (Erlebnis) non riducibile al già noto». Forse è necessario fare un altro passo e scendere negli strati profondi del testo in esame. Forse la teoria dei neuroni specchio può darci un aiuto. Ecco il sonetto di Petrarca:
Poco era ad appressarsi agli occhi miei
la luce che da lunge gli abbarbaglia,
che, come vide lei cangiar Thesaglia,
così cangiato ogni mia forma avrei.
Et s’io non posso trasformarmi in lei
più ch’i’ mi sia (non ch’a mercé mi vaglia),
di qual petra più rigida si ’ntaglia
pensoso ne la vista oggi sarei,
o di diamante, o d’un bel marmo biancho,
per la paura forse, o d’un diaspro,
pregiato poi dal vulgo avaro et scioccho;
et sarei fuor del grave giogo et aspro,
per cui i’ò invidia di quel vecchio stancho
che fa co le sue spalle ombra a Marroccho.
Il tema dell’incontro con la donna amata e con il suo sguardo abbagliante (tradizionale tema della poesia stilnovistica) viene questa volta rielaborato e ha l’effetto di produrre una metamorfosi sia nella donna sia ne poeta. Per esprimere queste trasformazioni vengono rievocati due antichi miti 1) quello della ninfa Dafne, figlia del dio fluviale Peneo in Tessaglia, che respinse l’amore di Apollo e fu da lui trasformata in un albero di alloro (lauro; in greco l’alloro era chiamato dafne), il che istituisce un possibile rapporto di somiglianza fra Laura e Dafne; 2) quello del gigante Atlante, che fu punito da Giove a portare sulle sue spalle l’intera volta celeste e successivamente da Perseo, offeso perché si era rifiutato di ospitarlo, e da lui pietrificato facendogli vedere la testa della Medusa (i cui occhi abbaglianti avevano l’effetto di pietrificare chi la guardava) e quindi trasformato nell’omonima catena montuosa del Nordafrica; ciò istituisce un rapporto di somiglianza fra Atlante e Petrarca (il cui nome, fra l’altro, conteneva la parola «petra», latino per pietra).
Il sonetto, se si considera l’insieme della sua struttura fonica, ritmica, sintattica e tematica, è assai più intricato di molti altri petrarcheschi, al punto da aver spinto i commentatori tradizionalisti, probabilmente irritati per la forte presenza di elementi allegorici e mitici, a definire, per esempio, «artificioso il contenuto, artificioso il linguaggio, strane e inusitate le rime» e a sentenziare: «di poesia, in questi versi arzigogolati, c’è poco o nulla». Si sente, in questi giudizi, la presenza della sensibilità romantica, che tende a considerare troppo fredde le allusioni ai miti classici e poco poetica l’allegoria. Vediamo.
Si notano, nella struttura sintattica del sonetto alcuni fenomeni vistosi: i periodi sono ampi e complessi, con salti logici e improvvisi rilanci, e un rapporto dinamico e poco abituale fra i periodi strofici delle quartine e terzine; notevoli inversioni grammaticali (come quella della frase «vide lei cangiar Thesaglia», con messa in rilievo dello stravolgimento naturale compiuto dalla metamorfosi e dall’effetto di stupore sull’ambiente); frequenti frasi relative, comparative e consecutive, a volte inserite a telescopio le une nelle altre; ordine poco simmetrico (alla coppia di aggettivi «vulgo avaro et scioccho» risponde con ordine variato l’unica altra coppia «grave giogo et aspro»); ritmo lento, regolare, accenti che cadono quasi su ogni parola e contribuiscono ad accrescere la tensione dinamica fra l’andamento solenne e pensoso del discorso e l’intrico tortuoso in cui esso si avvolge; sistema di rime fonicamente consistenti, che mettono in rapporto fra loro parole sempre semanticamente differenziate, grammaticalmente appartenenti a categorie diverse, di differente lunghezza, spesso anche rare, compresi gli unici due nomi propri di luogo («Thesaglia», «Marroccho»), che servono a identificare i personaggi mitologici non indicati per nome; numerosi richiami fonici interni; sistema drammatico dei personaggi e delle forze in presenza: «lei» (a indicare Laura-Dafne non direttamente nominata), «io», e, sullo sfondo, indifferente o addirittura nemico, il «vulgo avaro e scioccho» (che è indirettamente evocato, come spettatore anonimo, anche dall’immagine del poeta «pensoso ne la vista»), e inoltre, a diversamente impersonare (e rafforzare) gli attori principali del dramma, l’altra «lei», cioè Dafne, e «il vecchio stanco», cioè Atlante (non direttamente nominati), con i quali si identificano Laura e il pur giovane poeta, e infine Medusa, evocata soltanto dal ricordo implicito mitologico, ma capace di conferire ben altro e pregnante significato all’imma­gine iniziale della «luce che da lunge… abbarbaglia».
Per effetto di tutti gli artifici che ho notato vengono messi in rilievo e dinamicizzati i significati del sonetto, per cui di ogni singola parola viene sottolineato non solo il significato specifico (e la consistenza fonica), ma anche la ricchezza semantica (la polisemia). Il testo poetico non solo attiva il contenuto semantico degli elementi che lo costituiscono, ma tende a catturare significati (anziché eliminarli e rimuoverli) e presenta alle successive generazioni di lettori un’ampia gamma di reazioni e interpretazioni. Nel caso di questo sonetto, a riempirlo di densità semantica, narrativa e drammatica, e a fungere da centro generativo di immagini e temi, sono introdotte, allusivamente, due storie di metamorfosi: quella di Dafne inseguita da Apollo innamorato e tramutata in lauro, e quella di Atlante, tramutato in pietra, o montagna, per intervento di Perseo e di Medusa. L’amo­re, sotto forma di luce abbagliante che colpisce attraverso gli occhi e tocca la sostanza profonda e vitale dell’essere umano (il cuore), è rappresentato come energia trasformatrice e forza metaforizzante, che può cangiare ogni forma (da uomini in piante, da uomini in altri uomini, da uomini in pietre minerali). Si costituiscono così alcuni campi metaforici e alcune polarità tematiche, che investono le azioni dell’«appressarsi», dell’«abbar­bagliare», del «cangiare», del «trasformarsi», del «valere a mercé», dell’«avere invidia», e assegnano alla donna la funzione dell’emettere luce e all’uomo (rappresentato in Atlante) del fare ombra, e a lei quella d’impietrire e costituire un «grave giogo e aspro» e a lui quella di essere oppresso, e divenir bianco di «paura», e volersi trasformare, divenendo pietra preziosa o marmo, ed essere «rigido» e «pensoso».
Ma l’aspetto forse più interessante del sonetto sta nella rappresentazione di amore come pulsione, nella brama del poeta innamorato di attivarsi, quasi fosse un neurone specchio, e trasformarsi nella donna amata, di cambiare la propria forma nella sua, di divenire lei. Questo, che dal punto di vista delle concezioni d’amore sembra un apporto petrarchesco assai originale, offre al Canzoniere un modello di procedimento narrativo, drammatico e anche rappresentativo importante e fondamentale. Se il poeta può trasformarsi nella donna e la donna nel poeta, così, per la proprietà transitiva, tutt’e due possono trasformarsi negli stessi elementi e oggetti del mondo animale, vegetale o minerale: egli può divenire un cervo, ella una cerva; egli può essere pensoso e chiuso come una pietra sepolcrale o un sasso, ella può essere rinchiusa, morta, sotto una pietra sepolcrale; egli può divenire bianco marmo, ella insensibile come pietra; ella può trasformarsi in lauro, egli può trasformarsi in lauro, e così via.
I campi tematici che abbiamo messo in rilievo in questo sonetto possono istituire rapporti, in modo più o meno esplicito, con alcuni settori dell’immaginario culturale petrarchesco (forse possiamo chiamarlo la sua ‘enciclopedia culturale’) e certamente, in questo caso a quella parte di esso che si è soliti rubricare come: astrologia, cosmologia, fisica e fisiologia e che era consegnata a composizioni del mondo, storie naturali, bestiari, erbari, lapidari e presentava un sistema molto preciso di contrapposizioni degli elementi, dei segni e dei simboli, per cui alla coppia contrastiva degli elementi fuoco e acqua si opponeva, simmetricamente, la coppia contrastiva aria (aura) e terra (pietra) e a ciascuno di questi elementi si collegavano le qualità degli esseri (le coppie caldo/freddo e secco/umido in rapporto con le coppie aria/terra e acqua/fuoco), e con esse erano collegati, a loro volta, gli umori del corpo e i temperamenti umani (con l’aria erano collegati l’umore del sangue e il temperamento sanguigno, con la terra la bile nera e il temperamento malinconico, con il fuoco la bile gialla e il temperamento collerico, con l’acqua il flegma e il temperamento flemmatico). Questo sistema di corrispondenze era ulteriormente complicato, nella definizione dei destini umani e naturali, dalla posizione alla nascita del sole, dei pianeti e delle costellazioni, e nella scelta e descrizione di ambienti e persone, dalla topologia dei luoghi, dalla fisiognomica, dal dizionario dei gesti, dalla simbologia dei colori, ecc.
In questo sonetto mi par chiaro, per esempio, che l’aggettivo «pensoso», riferito al soggetto, va collegato con la pietra, in cui egli desidera trasformarsi, e va riferito all’am­bito dei comportamenti del carattere malinconico; ed è possibile anche inferire, dall’attri­buto della luce e della forza abbagliante propri della donna, i suoi rapporti con l’elemento del fuoco e del temperamento collerico.
Va ricordato che nella scienza medica antica, e con un’elaborazione particolarmente ampia in Ippocrate e Galeno, la malinconia aveva un posto importante nella teoria dei quattro umori del corpo umano. La malinconia (letteralmente «bile nera») era, come le emorroidi, la dissenteria e le eruzioni cutanee, una malattia causata dall’eccesso nel corpo umano del liquido secreto dalla bile. Gli altri tre umori, e cioè il sangue, la bile gialla e il flegma, prodotti ciascuno da un organo del corpo, quando sono in quantità eccessiva, hanno come effetto di creare nella nostra natura un diverso tipo di squilibro o malattia o «temperamento». Una quantità eccessiva di sangue produce un temperamento sanguigno, appassionato; una quantità eccessiva di bile gialla un temperamento collerico, facile all’ira, furioso (l’ira di Achille, Hercules furens, Orlando furioso); una quantità eccessiva di flegma un temperamento flemmatico, indolente, incapace di emozioni. Nella sua forma più elaborata e complessa, questa teoria comportava un’ampia rete di associazioni e corrispondenze: il sangue, la bile gialla, la bile nera e il flemma, in quest’ordine, erano associati di volta in volta con gli elementi fondamentali della natura: l’aria, il fuoco, la terra e l’acqua; con le sue qualità principali: caldo e umido, freddo e secco, freddo e umido, caldo e umido; con i quattro punti cardinali e i venti che provengono da essi: il Noto, vento del sud, Zefiro, vento dell’ovest, Borea, vento del nord, Euro, vento dell’est o sud-est; con le quattro stagioni: primavera, estate, autunno, inverno; con le quattro parti del giorno: mattina, pomeriggio, sera, notte; con le quattro età dell’uomo: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia, e persino con i pianeti e le forze sovrannaturali e divine che governano il mondo: Venere e Giove erano collegati con il temperamento sanguigno, Marte con quello collerico, la Luna con quello flemmatico e, naturalmente, Saturno, il vecchio dio della terra, con il temperamento malinconico.
La concezione dell’amore come trasformazione radicale del soggetto è presente in parecchie altre poesie di Petrarca, ma forse qui lo è nel modo più estremo e radicale. Mi chiedo se la teoria dei neuroni specchio (forse intuita in modo pre-scientifico da Petrarca) possa aiutarci a comprenderla.

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