Il dolore come condizione umana e le parole come possibile via di guarigione, anche se le cicatrici restano come rughe a segnare l'anima. Una straordinaria intervista di un maestro della psichiatria.
I disegni che illustrano il testo sono di Lia Franzia.
Eugenio Borgna
L’anima non guarisce mai
del tutto le resta sempre accanto un’ombra
Intervista di
Antonio Gnoli
La prima cosa che viene
in mente osservando Eugenio Borgna, mentre è ad attendermi alla
stazione di Novara, è il suo spiccato senso di gentilezza. Nelle
movenze dinoccolate di quest’uomo alto e asciutto, che flette lieve
verso l’altro come un giunco, si coglie la disponibilità rara
dell’ascolto. Ci fermiamo, vista l’ora di pranzo, a un ristorante
gradevole e semivuoto: «Qui veniva Scalfaro», ricorda Borgna. E ho
l’impressione di un altro tempo. Che è la medesima sensazione che
provo nella casa di questo grande psichiatra: vasta, spoglia, ma
anche sovraccarica di libri. Come congelata in un altro tempo. Forse
più prezioso. Più intimo. Certamente meno duro e perfino più
fragile. Proprio al tema della fragilità Borgna ha dedicato un
libretto ( La fragilità che è in noi, edito da Einaudi) ricco di
considerazioni tenui. Intonate al pastello più che all’acido; alle
sfumature più che ai tratti decisi. Ho l’impressione che il
pensiero di quest’uomo si svuoti dell’aggressività necessaria in
una società votata all’urlo e alla chiacchiera.
Cosa rappresentano le parole per un medico come lei?
«Le parole hanno un
immenso potere. Ci sono parole troppo dure e violente. Troppo
inumane. Che i medici, non tutti per fortuna, rivolgono al malato. E
ci sono parole in grado di aiutare l’altro. Le mie parole sono
state anche domande a me stesso e agli altri. Sono i dubbi e le
incertezze che ho seminato lungo la mia lunga vita».
Che ha avuto inizio dove?
«A Borgomanero, a una
trentina di chilometri da qui. Vi ho trascorso la mia infanzia e poi
l’adolescenza. Interrotta bruscamente quando i tedeschi nel 1943
occuparono la nostra casa. Mio padre, avvocato, faceva parte della
Resistenza. E noi, sei figli, con mia madre che teneva in braccio
l’ultimo nato, ci avviammo a piedi verso la collina dove protetti
da un parroco ci nascondemmo».
Quanto durò?
«Sei mesi. Tornammo per
constatare che la casa era stata distrutta. A poco a poco la vita
riprese. La scuola, poi il liceo, infine l’Università a Torino e
la specializzazione a Milano nella prima clinica per le malattie
nervose».
Perché quel tipo di scelta?
«Sulle orme paterne
avrei potuto fare l’avvocato. O magari il letterato avendo divorato
i libri della biblioteca di mio padre. Ma compresi, grazie anche alla
letteratura e alla poesia, che occuparsi delle persone che stavano
male poteva dare un senso più autentico alla mia esistenza».
Essere autentici è un dovere?
«Diciamo che avvertivo
il desiderio di una verità più grande di quella che di solito
osserviamo».
Mi faccia capire.
«Dopo un po’ che
frequentavo la Prima clinica mi accorsi che esistevano due tipi di
pazienti, ben distinti: neurologici e psichiatrici. Questi ultimi
erano ignorati».
Perché?
«Si pensava che solo le malattie del cervello meritassero attenzione. Mentre a me interessava relativamente quel tipo di indagine. E fu attraverso quei pochi pazienti psichiatrici, tenuti ai margini, che scoprii un mondo di dolore e di sofferenza che mi parve più autentico di quello biologico e organicistico».
Non le bastava la verità clinica?
«No, desideravo toccare
una verità più esistenziale. Non volevo l’oggettività del
neurologo. Ero portato ad ascoltare la sofferenza e l’angoscia come
aspetti di una soggettività più complessa. Avevo 32 anni e una
libera docenza che mi dischiudeva le porte per una grande carriera
milanese».
E invece?
«Decisi — tra lo sconcerto dei colleghi, dei superiori e degli amici — di accettare il posto di direttore del reparto femminile dell’ospedale psichiatrico di Novara. Quando entrai vidi all’esterno degli enormi giardini. Mi accompagnava un silenzio assoluto. E malgrado fosse inverno le finestre dell’ospedale erano spalancate. Con i pazienti che guardavano fuori».
Una scena irreale?
«Sembravano le
marionette di un teatro dell’assurdo. Ma era niente rispetto alla
situazione che trovai all’interno. Quello che vidi fu
raccapricciante: i pazienti legati o rinchiusi in spazi asfissianti.
Le urla e i lamenti. Era agghiacciante. Sembrava di essere in un
carcere crudele e senza senso. So bene che oggi la situazione è
cambiata, ma allora, nei primi anni Sessanta, fu sconvolgente
constatare che c’erano esseri umani cui era stata tolta la dignità
del vivere».
Come reagì?
«Provai una profonda
vergogna. E al tempo stesso capii che avevo fatto la scelta giusta.
Provai a cambiare la situazione. Aprii le porte e vietai l’uso dei
letti di contenzione. Nessun paziente poteva più essere legato.
Chiamai da Milano alcuni assistenti con i quali avevo lavorato e che
avevano, come me, combattuto contro certi metodi».
Metodi comunque fondati su una lunga tradizione clinica.
«Certo. In quelle
decisioni non c’era malvagità, ma tanto pregiudizio. Meglio:
l’incapacità di capire veramente cosa si nasconde nella
follia».
Non è facile trovare un varco per la comprensione.
«Non lo è finché ci si
rifiuta di pensare alla schizofrenia come a una forma di esistenza.
Certo diversa dalla nostra normalità, ammesso che esista, ma pur
sempre esistenza vitale».
Lei dice: la schizofrenia è un mondo vitale. Cosa ha trovato in quel mondo?
«La schizofrenia è una
delle forme di sofferenza più enigmatiche e strazianti che si
conoscano. Si radica, per lo più, nella crisi esistenziale segnata
dal passaggio dall’adolescenza alla giovinezza».
Si insinua nel mutamento degli orizzonti di vita?
«Esattamente. E può
essere vista come un’anarchica e totale perdita di senso, oppure
essere riconosciuta, compresa e utilizzata solo se si riesce a
guardarla con un forte atteggiamento interiore».
Intende dire che ci si deve porre alla stessa altezza della malattia?
«Intendo dire che le
radici della malattia sono esistenziali e non cliniche. E questa
convinzione fa venir meno il rapporto asimmetrico tra medico e
paziente».
Ma è pur sempre il medico che decide per l’eguaglianza. Non il paziente.
«È vero. Ma con quella
decisione è il medico a mettersi in discussione. Negli anni della
mia professione ho capito che o si tenta di rivivere le cause del
dolore e dell’angoscia degli altri, con tutte le risonanze e i
rischi personali, oppure si è destinati al fallimento».
C’è un modo certo per registrare questo fallimento?
«La nostra maschera
portata davanti a chi vive immerso in una condizione schizofrenica è
immediatamente percepita nella sua insopportabile finzione e
lontananza».
Cos’è per lei la guarigione?
«Parlando di guarigione
in psichiatria c’è il rischio di sconfinare in una segreta
violenza».
Cioè?
«Intesa in senso dogmatico la guarigione vorrebbe sanare tutto; risolvere ogni problema legato alla malattia».
E invece?
«La guarigione assoluta,
in psichiatria, è solo un gesto totalitario. L’altra faccia, se
vuole, del modo in cui la scienza dell’anima si è lungamente
accanita sul corpo del malato. Senza pudore né dignità.
Personalmente sono convinto che la guarigione avvenga anche quando i
sintomi della malattia continuano a manifestarsi. Si può guarire
continuando ad avere accanto quest’ombra».
Non ha mai temuto di essere lei stesso avvolto o sfiorato da quell’ombra?
«Mi sta chiedendo se il
peso di ciò che ho sostenuto in questi lunghi anni mi abbia in
qualche modo
coinvolto più del
dovuto?».
Sì. Nel senso che se si fa propria la sofferenza del paziente cade ogni distinzione.
«Viene meno la distanza
e con essa ci si apre alla sofferenza dell’altro. Penso anche che
la sofferenza sia una condizione necessaria alla via della
conoscenza» .
Ma è una domanda più diretta che vorrei farle e che spieghi la sua “posizione scomoda”: ha mai sofferto di depressione?
«Sì, è un universo che
in alcune fasi della mia vita mi ha inghiottito».
E cosa si prova?
«Nella depressione si
vive come sprofondati nel passato. Non si vede più il futuro né la
speranza. Si blocca la percezione del cambiamento; si sprofonda nelle
cose avvenute che non mutano mai. E poi affiora l’esperienza
fiammeggiante della colpa: una delle ragioni del nostro strazio. Ma
nei miei quarant’anni di manicomio ho imparato che ci sono tante
forme di depressione a seconda dei nostri caratteri e delle nostre
emozioni. Teresa di Lisieux vedeva nella malinconia il sentiero per
conoscere Dio».
C’è un nesso tra psichiatria e misticismo?
«Ovviamente no se si
considera la psichiatria solo una scienza positiva. Ma le esperienze
mistiche ci inducono a riflettere sugli abissi dell’anima, sulle
sue lacerazioni. E non può immaginare quante volte mi sia trovato
davanti alle oscure notti dell’anima».
Si nota quasi un desiderio di ricorrere alla religione.
«Non alla religione in
quanto tale. Ma a certe sue pratiche: voler camminare con l’altro,
immedesimarsi nell’altro. Si parla tanto di etica. Dove pensa debba
stare tra il cuore di ghiaccio e il cuore segnato dal dolore? Dalla
sofferenza occorre uscire. Ma guai non averla mai provata in vita».
Crede in Dio?
«Credo in senso
pascaliano all’idea del mistero. Non credo a un Dio razionale che
ordina il mondo. Oltretutto, visti i risultati, sarebbe stato un
pessimo architetto. Ciascuno deve fare bene il proprio lavoro».
E il suo, ora che non ha più l’ospedale?
«Continuo a dedicare
parte del mio tempo ai pazienti. Senza di loro mi sarei trasformato
in un piccolo funzionario. Decida lei se del bene o del male».
E il resto della
giornata che fa?
«Leggo e scrivo i miei
libri. È un’altra maniera di raccontare il dolore e le fragilità
umane. A volte per mesi non riesco a scrivere. È come se il buio
calasse in me. Durò a lungo dopo la scomparsa di mia moglie».
Cosa accadde?
«Soffriva di una
malattia autoimmune. Se la trascinò per buona parte della vita. E
provai spesso dolore e disperazione. Morì 14 anni fa. Era una
psichiatra infantile. Con un carattere molto dolce. Ancora oggi ne
avverto il vuoto».
Cos’è la mancanza?
«Qualcosa che ci
accompagna per sempre e che cerchiamo disperatamente di mettere tra
parentesi.
Ma si può ingabbiare
ciò che non avremo mai più?».
Le cose passano.
Destinate come sono a finire. Soprattutto nell’orizzonte della
vecchiaia.
«Muta la luce, non necessariamente la materia».
«Muta la luce, non necessariamente la materia».
E la vecchiaia di uno psichiatra?
«Perché dovrebbe essere
diversa da quella di un fabbro o di un insegnante di matematica?
Conta molto il destino di come è stata la propria vita».
Destino è una parola impalpabile.
«Sono le migliori. Le
meno usurate. Il destino non lo intendo come la macchina inesorabile
del fato. È sapere ancora una volta leggere dentro di sé.
Riconoscersi. Freud lo fece da giovane e da vecchio. Fino a quando le
forze lo sorressero continuò a lavorare. L’importante è non farsi
divorare dall’ homo faber. Solo così si ha più tempo
per ascoltare».
Non teme il tempo della clessidra?
«Lo temo oggi come lo
temevo da giovane. Ho sempre avuto la percezione acutissima
dell’imprevedibile. Il morire era per me una possibilità immanente
a trent’anni e adesso».
Citava Freud. Che
rapporto ha con la psicoanalisi?
«Nessuno in particolare.
È una grande esperienza culturale. Abbastanza inservibile per la
schizofrenia».
Perché?
«Gli schizofrenici non possono raccontare i loro sogni perché non sognano. Servono altre strade. Altre parole. Starei per dire altri dolori. Sa una cosa che vorrei?».
Dica.
«Vorrei che non ci fossero più giorni muti e senza parole. Vorrei che anche quando il silenzio avvolgesse le nostre vite esso avesse la forma della dignità e non dell’indifferenza ».
La Repubblica – 25
maggio 2014
Eugenio Borgna
La fragilità che è
in noi
Einaudi, 2014
10 euro
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