03 giugno 2014

MAFIA REPUBLIC


Oggi voglio mettere a confronto alcune pagine dell'ultimo libro di John Dickie - che trovate nel sito della casa editrice Laterza - con una stroncatura della stessa pubblicazione:


Benvenuti nella zona grigia delle mafie
di John Dickie

 
Mafia Republic
Mafia Republic di John Dickie si basa su due semplici principi: l primo è che fra le tre grandi mafie italiane esistono molte più differenze di quanto potrebbe sembrare a prima vista; alcune di queste differenze sono sottili, altre molto nette, ma ciascuna rappresenta un adattamento finalizzato a consentire a quella particolare organizzazione criminale di sopravvivere e prosperare nel proprio contesto locale; il risultato è che ogni mafia ha seguito un suo percorso storico distinto; il secondo è che, a dispetto di tutte queste interessanti differenze, la storia delle diverse associazioni criminali assume un senso più chiaro se la si intreccia in un’unica narrazione; le mafie hanno molto in comune, innanzitutto il rapporto perverso con lo Stato italiano, uno Stato in cui si sono infiltrate, con cui hanno collaborato, contro cui hanno combattuto; l’Italia non ha entità criminali statiche e solitarie, ma un ricco ecosistema malavitoso che continua ancora oggi a generare nuove forme di vita.
L’Onorata Società siciliana non si è mai affidata soltanto alla paura per gestire la propria attività. E la mafia non è mai stata solo un club di tagliagole. Nel 1876 un sociologo all’avanguardia definì i mafiosi «facinorosi della classe media», cioè individui determinati a migliorare la loro condizione sociale, giudiziosi nell’uso della violenza. Questi facinorosi della classe media sapevano manovrare con abilità reti di corruzione che avevano in mano alcuni dei settori più avanzati dell’economia siciliana e potevano contare sul sostegno, attivo e passivo, della società circostante. Cosa Nostra deve la sua capacità di rigenerarsi soprattutto al fatto di aver sempre avuto tra i suoi affiliati e alleati uomini capaci di mescolarsi con le élites economiche, professionali e politiche, di plasmare una sorta di consenso per il proprio potere. I giornali chiamano queste persone la «zona grigia», quell’area della società dove la complicità con le cosche non è immediatamente evidente e dove la collaborazione tra uomini di mafia e uomini d’affari, il connubio tra lupara e laptop, non è sempre sbilanciato in favore dei primi. La zona grigia è invisibile e pervasiva al tempo stesso: non è qualcosa che si può vedere su YouTube.
[...]
Cosa Nostra è difficile da distruggere anche per via della sua capacità di procurarsi fiancheggiatori nell’economia legale. Per generazioni il denaro e l’influenza della mafia hanno tinto di varie sfumature di grigio gran parte del tessuto economico dell’isola. Nessuno sa quante aziende attualmente in attività siano state create con i soldi della malavita organizzata, o quante abbiano i mafiosi come soci dormienti, o quante traggano profitto da appalti vinti con manovre sottobanco e accordi di cartello negoziati sotto i buoni auspici di Cosa Nostra, o quante ancora abbiano alle loro dipendenze persone assunte grazie a una buona parola messa da un boss.
Tutta questa influenza politica e commerciale garantisce ai mafiosi un’enorme capacità di comprarsi consenso. È il caso di ricordare quello che disse Pietro Aglieri, il boss «devoto», al magistrato che aveva coordinato la sua cattura:
Quando voi venite nelle nostre scuole a parlare di legalità e giustizia, i nostri ragazzi vi ascoltano e vi seguono. Ma quando questi ragazzi diventano maggiorenni e cercano un lavoro, una casa, assistenza economica e sanitaria, a chi trovano? A voi o a noi?
Nei suoi margini, la zona grigia diventa ancora più indistinta e si estende a settori dell’economia, della politica e della società che non sono direttamente sottoposti al controllo delle cosche. Ci sono migliaia di imprese che operano ai confini della legge: dipendenti in nero, frodi ai danni del fisco, conti falsificati e normative aggirate. Il ricorso a banche offshore e paradisi fiscali è la norma in certi settori della borghesia. L’economia siciliana, in perenne stagnazione, dipende in misura significativa dal settore pubblico, dove favoritismo, clientelismo e corruzione sono vizi profondamente radicati. I boss sono ben contenti di offrire il loro modello di legge a un sistema di accumulazione della ricchezza tanto illegale e anchilosato. L’economia del «fuoribusta», come il clientelismo politico, è sensibile per sua stessa natura alle sirene della mafia.
Anche quando non è in combutta con Cosa Nostra, gran parte delle imprese siciliane, come gran parte del sistema politico e dell’apparato pubblico, sono istintivamente refrattari alla trasparenza. Qualunque sia la sua sfumatura di grigio, nessuna impresa gradisce che la legge vada a curiosare nelle sue attività. Ivan Lo Bello è stato dal 2006 al 2012 il presidente di Confindustria Sicilia ed è l’uomo che ha introdotto la regola di espellere i membri che pagano il pizzo. Ora vive sotto scorta e ha mandato i suoi figli a studiare all’estero. Riflettendo sulla sua esperienza, alla fine del 2011, ha dichiarato quanto segue:
Più della risposta delle organizzazioni criminali [...] mi preoccupa quella della politica. In Sicilia c’è un’ostilità silenziosa nei nostri confronti. Abbiamo la sensazione di non essere amati da consiglieri comunali, assessori, segretari e funzionari pubblici interessati a mantenere lo status quo.
C’è un’ampia fetta della società siciliana – dal negoziante più umile al banchiere più brillante – che vede la lotta contro il crimine organizzato, nella migliore delle ipotesi, come un gran fastidio.
* * *
Come Cosa Nostra, anche la camorra e la ’ndrangheta hanno una lunga storia che testimonia la loro capacità di adattarsi a circostanze nuove e superare le avversità. Come Cosa Nostra, ma in modi sottilmente distinti, anche le altre due grandi mafie italiane fanno affidamento su tradizioni organizzative e competenze familiari per decidere in quale direzione andare. Tutto quanto detto finora sulla zona grigia in Sicilia è applicabile anche alla Campania e alla Calabria. Gli scandali dei rifiuti tossici e della spazzatura dimostrano come la mala impresa e la mala politica aprano le porte alla camorra. La ’ndrangheta non sarebbe la ’ndrangheta senza i suoi «facinorosi della classe media» e la sua zona grigia. Anzi, in Calabria, dove il movimento antiracket è debole e dove sono notoriamente diffuse organizzazioni massoniche dai contorni alquanto equivoci, la zona grigia penetra ancora più in profondità che in Sicilia. Quando la Confindustria ha cominciato a prendere misure contro le imprese legate alla mafia, le altre organizzazioni hanno seguito l’esempio. Una di queste è stata l’Ance (Associazione nazionale costruttori edili) di Palermo. Quando la filiale reggina della stessa organizzazione ha tenuto una conferenza sulla legalità, nel giugno del 2010, i delegati hanno dedicato le loro energie a protestare contro una serie di leggi pensate per impedire i rapporti tra mafiosi e imprenditori.
Storicamente parlando, la ’ndrangheta, fra tutte le mafie, forse è anche quella più indifferente alle ideologie. La mafia calabrese è sempre stata consapevole che la zona grigia non ha colore politico. Le basi che ha stabilito da tempo nel Nord Italia dimostrano anche che la zona grigia non tiene conto dei confini regionali: politici e imprenditori corrotti fanno affari con gli ’ndranghetisti in ogni angolo del paese.
Perfino in certi ambiti dell’economia nazionale non toccati direttamente dai tentacoli del crimine organizzato i metodi disinvolti e la corruzione sono la norma, e se ne trovano esempi ben oltre i confini del Sud e della Sicilia. Nel 2011 l’allora procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, parlava dell’Italia intera quando dichiarò che
il metodo mafioso, favorire privilegi e annullare la concorrenza, è stato senza dubbio clonato in alcune zone di confine della politica e dell’economia, e così sono nate le «cricche» e i comitati d’affari.
Lo Stato italiano, inoltre, fa di tutto per allontanare quei cittadini che ancora riescono a vivere rispettando le regole. Il sistema della giustizia penale è in condizioni deplorevoli. La lunghezza media di un processo è di quattro anni e nove mesi. Nella storia che ho raccontato in questo libro ci sono numerosi casi di processi di mafia che si sono trascinati per anni, con verdetti rovesciati a ogni grado di giudizio fino alla cassazione. Ritardi di questo genere sono qualcosa di mostruoso per gli imputati e gettano un discredito costante sulla giustizia. Senza contare che i delinquenti hanno la possibilità di sfruttare a loro favore questa lentezza del processo giudiziario. Non si possono biasimare quei cittadini che ritengono che i tribunali garantiscano un’impunità di fatto ai criminali in colletto bianco abbastanza facoltosi da potersi permettere gli avvocati necessari a tirare per le lunghe un processo fino a far scattare la prescrizione.
La mafia si attacca allo Stato nei suoi punti deboli. Il sistema penitenziario è sempre stato uno dei settori più caotici dello Stato italiano, e per questa ragione è sempre stato un teatro di azione per le mafie. Non a caso la camorra e la ’ndrangheta sono nate dietro le sbarre delle prigioni. Fin dall’Ottocento i carcerati, detenuti in condizioni di insicurezza e sovraffollamento, si sono rivolti alle organizzazioni mafiose nella speranza di avere protezione, e i mafiosi hanno imposto un dominio arbitrario e brutale sui loro compagni di prigionia. In Europa, oggi, solo la Serbia ha carceri più sovraffollate di quelle italiane. Il tasso di suicidi dietro le sbarre è quasi venti volte più alto di quello che si registra fuori. Non c’è da stupirsi che oggi, come nel XIX secolo, la prima condanna rappresenti un rito di passaggio per aspiranti malavitosi, e che gran parte delle affiliazioni alla camorra avvengano tuttora dentro il carcere.
Lo Stato in certi casi riesce addirittura a spingere verso la zona grigia cittadini onesti, per esempio con la sua totale incapacità di imporre criteri di equità e trasparenza nella vita economica nazionale. Un caso eclatante in questo senso è quello della giustizia civile, che versa in uno stato ancora più deplorevole della giustizia penale. Nel 2011 la Banca mondiale ha classificato l’Italia al 158° posto su 183 paesi per l’efficienza del sistema giudiziario nel far rispettare i contratti, subito dietro il Pakistan, il Madagascar e il Kosovo e appena tre posizioni sopra l’Afghanistan. Alla fine di giugno del 2011 i tribunali civili dovevano smaltire un arretrato di 5,5 milioni di cause. La lunghezza media di una causa è di sette anni e tre mesi. In Germania, quando un fornitore fa causa a un cliente per mancato pagamento, passa un tempo oscenamente lungo prima che un giudice emetta la sentenza, in media 394 giorni; in Italia passano 1.210 giorni, un’eternità nella vita di un’impresa: si fa in tempo a fallire sei volte. Non c’è da stupirsi che certi imprenditori siano tentati di cercare metodi meno pacifici per recuperare il loro credito: i mafiosi li accolgono con le braccia aperte e un sorriso da coccodrillo.
Troppa parte del paese è affetta da disfunzionalità: l’apparato statale è impantanato nell’inettitudine, nel clientelismo e nella corruzione; una grossa fetta dell’economia è in nero, e dunque invisibile alla legge; aree intere dell’economia visibile sono penalizzate da inefficienza e malcostume. La società italiana sembra non riuscire a disintossicarsi dagli stessi, eterni vizi. E non ci sono molte speranze che gli italiani eleggano un governo abbastanza onesto, determinato e autorevole da realizzare le riforme di cui il paese ha bisogno. Perché, fintanto che l’Italia resterà in queste condizioni, la prospettiva di una vittoria stabile su Cosa Nostra, la camorra e la ’ndrangheta resterà irraggiungibile.
* * *
La guerra fredda diede alle mafie uno scudo politico dietro il quale le mafie poterono depredare, prosperare e spingere il paese sull’orlo dell’abisso. Ma le mafie esistevano prima della guerra fredda e sono continuate a esistere anche dopo la caduta del Muro di Berlino. La violenza eclatante dei lunghi anni Ottanta si è attenuata, ma la criminalità organizzata continua a rappresentare un’emergenza nazionale e una vergogna nazionale.
Tuttavia, oggi l’Italia ha più ragioni di ottimismo che in qualsiasi altro momento della sua storia. I magistrati antimafia e le forze dell’ordine sono sottopagati, sottofinanziati e sotto organico. Operano in contesti fortemente ostili. Nelle zone dove comanda la mafia i magistrati vanno in giro costantemente sotto scorta e conducono una vita monastica per timore di farsi fotografare involontariamente in compagnia delle persone sbagliate. Eppure è grazie all’abnegazione, al coraggio e alla professionalità che tantissimi di loro dimostrano se la vita per le fratellanze criminali italiane non è mai stata così difficile. Gli incontri dei mafiosi vengono intercettati. Quando si danno alla latitanza, vengono rintracciati e arrestati. Perfino nei boschi dell’Aspromonte la ’ndrangheta non è più in grado di fare il bello e il cattivo tempo: all’inizio degli anni Novanta, per combattere i sequestri di persona, i carabinieri crearono un reparto elitrasportato specializzato in operazioni di montagna, i Cacciatori di Calabria; da quando la ’ndrangheta ha abbandonato il business dei sequestri, il reparto viene utilizzato per impedire ai mafiosi di usare impunemente i loro tradizionali covi sui monti.
Anche se il sistema giudiziario italiano resta eccezionalmente indulgente e iperprotettivo nei confronti degli imputati, la lunga storia di impunità delle mafie sembra finita. Gli affiliati delle diverse fratellanze criminali ora possono aspettarsi di essere condannati secondo giustizia, quando finiscono sotto processo. Nonostante la straziante lentezza del sistema giudiziario, in questo momento mafiosi, camorristi e ’ndranghetisti stanno scontando migliaia di anni di prigione, e – cosa altrettanto importante – sono stati confiscati i loro patrimoni illeciti, per un valore di miliardi di euro. Perfino nella zona grigia le autorità cominciano a fare progressi.
Guardando indietro alla storia del rapporto dell’Italia con le sue mafie a partire dalla seconda guerra mondiale, anzi a partire dalle origini stesse delle mafie, nell’Ottocento, il cambiamento più grande e più importante oggi è che la polizia e la magistratura dopo tanto, troppo tempo, stanno finalmente facendo il loro lavoro.
Ora spetta al popolo italiano fare la sua parte.
John Dickie, Mafia Republic

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John Dickie, storico e giornalista, è Professor in Studi italiani all'University College of London. Scrive da tempo su diversi aspetti di storia italiana, in particolare di storia del Meridione, e sul processo di unificazione nazionale. Vari suoi saggi sono stati pubblicati in volumi collettanei.


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Ed ecco a voi la Mafia Republic

Mancava e quindi eccola, la Repubblica mafiosa. La cattiva azione che mancava. Sì, ambigua, “mafia republic” si può intendere, per carità, Dickie così la intende, come la ragnatela mafiosa. Ma l’allusione è chiara, chiarissima, su di essa l’autore, i recensori entusiasti, l’editore speculano. E per questo il libro si fa leggere. Sì, è “divertente”, come assicurano le autorità britanniche che illustrano il risvolto, ma quante “narrazioni” non abbiamo avuto e non abbiamo su Cutolo, Casal di Principe, Lima, Ciancimino,Riina, e compari. Mancava giusto la Repubblica di mafia. Ma alla fine della lettura resta poco, come di tutte le storie della criminalità, peggio della pornografia. Non più della lettura del giornale.
L’editore si fa scudo nel blurb di autorevoli firme britanniche: gli italiani si lamentano dello stereotipo? ma “il problema vero è che lo stereotipo è corretto”. E quindi mettiamo anche l’editore, già illustre, in questa “Repubblica”? L’editore dirà che lui non c’entra, naturalmente, ma si può fare eccezione solo per lui? Mettere insieme tanti crimini senza nient’altro equivale ad assimilare un paese ai suoi crimini. Certo, successo chiama successo, e l’editore esiste per vendere i libri. Ma con qualche limite - non è, si penserebbe, un circo. 
Dickie, che si era segnalato quindici anni fa a Napoli con “Darkest Italy”, uno studio sulla nascita dello stereotipo (anti)meridionale nell’Italia di fine Ottocento, mai ripubblicato e nemmeno tradotto, da qualche tempo si diverte a spese dell’Italia che insegna, da reporter aggiornato – cucina? cucina, terremoto? terremoto, mafia?, mafia? Uno dei tanti che sfruttano il provincialismo italiano. Qui recidiva, riscrivendo “Onorate Società”” di due anni fa. Ma che c’entriamo noi? Lettori, italiani, meridionali, antimafiosi genetici. 
 http://www.antiit.com/2014/06/ed-ecco-voi-la-mafia-republic.html

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