02 giugno 2014

UN'INTERVISTA A JOSE SARAMAGO




Mi piace riprendere questa mattina il bel dialogo di Francesca Borrelli con il premio Nobel José Saramago pubblicato oggi da http://www.leparoleelecose.it .
In questo bel sito trovate anche l'introduzione della stessa Borrelli al suo libro Maestri di finzione  che contiene altre interviste a scrittori che hanno lasciato il segno nel nostro tempo.


Dialogo con José Saramago
Francesca Borrelli
 
Scrittore riconoscibile a apertura di pagina per la singolarità del suo stile, Saramago è andato componendo con straordinaria intelligenza narrativa le sue variazioni su una moderna apocalisse, inseguendo temi aderenti a urgenze sociali, che si configurano, ormai, come ricorrenze significative dei suoi intrecci. Fino al 2011, ossia un anno dopo la sua morte, si credeva che lo scrittore portoghese avesse aperto una parentesi di trent’anni fra quello che era stato il suo esordio narrativo precoce, Terra del peccato, uscito quando aveva appena venticinque anni, e il suo libro successivo; una parentesi dalla quale erano emersi solo qualche collezione di versi e ancor più rari scritti politici, a intervallare la professione alla quale Saramago si era a tempo pieno dedicato, il giornalismo. Finché, all’indomani della rivoluzione dei Garofani, una sorta di contro-golpe “democratico” fece naufragare le aspirazioni socialiste del primo governo succeduto alla dittatura e Saramago, in quanto comunista, perse il posto. Ma ora sappiamo che, nel ‘53, l’allora giovane scrittore aveva terminato un romanzo firmato con lo pseudonimo di Honorato, del quale venne rifiutata la pubblicazione e che l’autore non ritenne di volere mai più riprendere dai suoi cassetti. Ci ha pensato la moglie, Pilar del Río, pubblicandolo con una premessa nella quale spiega la genesi di questo romanzo ”perduto e ritrovato”, che Feltrinelli tradusse nel 2012 con il titolo Lucernario.
Sulla scena, la squallida vetrina di sei interni familiari, dove si muovono piccoli nuclei costituiti da madri, zie e sorelle, o da coniugi con relativi figli, tutti agitati da tensioni e spesso da manifeste insofferenze, che sembrano funzionare come un nevrotico collante, molto morboso per i personaggi coinvolti ma del tutto privo di interesse per il lettore. Del resto, che gli esordi narrativi di Saramago convincessero poco lui stesso sembra dimostrarlo il fatto che resistette fino al ‘77 prima di decidersi a ritentare: il nuovo libro venne titolato Manuale di pittura e calligrafia ed è narrato in prima persona da un artista convertito alla scrittura, ma non per questo sfuggito alla frustrazione di ogni sua aspirazione inventiva. Già una amara ironia, mai più abbandonata, traversa questo Bildungsroman di Saramago, dove i protagonisti non hanno nome e le iniziali che li indicano, H e M, alludono a un hombre e a una mujer emblematici della vaga identità dei singoli, primo barlume di quell’anonimato che il narratore portoghese avrebbe poi consegnato a altri protagonisti della sua disillusione. Perché – come lui stesso ha detto – quel che ora ci distingue ha la grafia di un numero, come nelle carte di credito, garanti della nostra legittimità più di quanto non lo siano le storie personali che hanno condotto a chiamarci come ci chiamiamo.
Del resto, questa rinuncia all’evocazione del nome è legata anch’essa a un background non privo di ironia: Saramago non è che un soprannome, regolarmente registrato all’anagrafe e tuttavia corrispondente a nient’altro se non all’appellativo confidenziale con cui la gente del paese era solita rivolgersi alla sua famiglia. E quando lo scrittore decise di ricostruire i soli quattro anni di vita del fratello, nato nel ‘20 e morto per i postumi di una malattia, la lunga e estenuente ricerca si risolse in un nulla di fatto: nessuna traccia che portasse notizie di lui. Persino l’anagrafe della città natale esibiva la data di nascita ma aveva omesso di registrare quella della morte, pronta a certificare che un uomo ormai maturo si aggirava per il mondo, ignara che quel mondo l’aveva lasciato quasi ottanta anni prima. Una vicenda di follia burocratica che, rimpastata nella fantasia di Saramago, divenne la trama di Tutti i nomi: protagonista il Signor José, fedele impiegato dell’Anagrafe nonché maniacale collezionista di vite famose, nel bene e nel male, tutte rigorosamente schedate, forse allo scopo di movimentare la monotonia dei suoi giorni sempre uguali. Finché una scheda galeotta mette sotto gli occhi di José i dati anagrafici di una donna, sconvolgendo la sua vita e indirizzandola verso una ricerca capillare delle tracce lasciate da quella esistenza, ricongiungersi alla quale diventa una ossessione.
Il Nobel per la letteratura arrivò a José Saramago nel ‘98, poco dopo l’uscita, in Italia, di Tutti i nomi; ma erano già molti i titoli che avevano contribuito all’assegnazione del premio: fra questi, Una terra chiamata Alentejo, la saga di quattro generazioni contadine protagoniste di una vita miserevole, condotta in promiscuità con le bestie, tra tentativi di lotte disperate contro la brutalità di un regime dittatoriale. Ancora sottomesso alla vena neorealista che alimentava, allora, gli scrittori della sua generazione, questo romanzo fu seguito due anni dopo dal Memoriale del convento, dove la narrazione insegue l’eroismo della povera gente, mentre si accende di sdegno contro la cieca ambizione delle classi privilegiate; e tutto ruota intorno alla costruzione del gigantesco palazzo-convento di Mafra, voluto da Giovanni V agli inzi del XVIII secolo. Ancora l’intervallo di un biennio, e con L’anno della morte di Riccardo Reis Saramago fa i conti con il grande Pessoa, evocato nel titolo attraverso uno dei suoi eteronimi. Il richiamo del passato cede all’urgenza della svolta politica che avvia il Portogallo a entrare nella Comunità Europea: la critica di Saramago si traduce, allora, nella narrazione della Zattera di pietra, dove la specificità storico-culturale della penisola iberica, una terra sospesa tra l’Africa e l’America, viene rivendicata come presupposto ideale a costituire un ponte verso il sud del mondo. Ancora storica l’ambientazione dell’Assedio di Lisbona, dove lo sbaglio di un correttore di bozze genera una finzione sovvertitrice della realtà. E, finalmente, il grande pubblico memorizzò il nome di Saramago grazie all’enorme scandalo sollevato dal Vangelo secondo Gesù, responsabile di veementi espressioni di sdegno sia in Portogallo che nel resto del mondo cattolico. “Ho l’impressione che la chiesa si occupi di amministrare i corpi molto più di quanto non si dedichi alle anime” fu il commento di Saramago, che partì per un esilio volontario verso l’isoletta di Lanzarote. Ma nonostante l’ambiente suggerisse più miti panorami esistenziali, la cupezza dei presagi di Saramago andò perfezionando i suoi contorni, per poi materializzarsi negli incubi che segnarono buona parte della sua stagione più matura.
Il titolo inaugurale, destinato a restare il più noto, fu Cecità, un libro sulla crisi della ragione ambientato in una sorta di lager manicomiale, e quello successivo Tutti i nomi, una allegoria delle nostre identità senza certezze. Poi, finalmente, in un crescendo di perfezionismo stilistico, l’approdo alla Caverna, e dunque all’Uomo duplicato, e ancora al Saggio sulla lucidità, i libri intorno ai quali hanno ruotato le nostre tre lunghe conversazioni.
Qualche accenno all’intreccio sul quale si concentra la prima intervista con Saramago servirà a orientarsi nelle domande. Il titolo del libro in questione, La Caverna,riprende il mito platonico allo scopo di rimandarci alla nostra condizione di prigionieri: qui la galera si identifica con una istituzione totalitaria mascherata da Centro commerciale, che inghiotte via via tutto quanto lo circonda, paesaggi, uomini e cose, trasformandoli in funzioni di una autorità superiore facilmente identificabile nel processo di globalizzazione economica, che governa gli scambi della nostra reificanda condizione umana. Romanzo che rimanda alla crisi dell’individuo moderno nella società circostante, e soprattutto alla minaccia che incombe sul lavoro, La caverna va letto tuttavia non fra le righe, ma per quel che vi si rende esplicito, ovvero il virtuosismo di una scrittura che insegue le poche gesta e i molti pensieri dei protagonisti, governata dalla autorità inappellabile di una intenzione cui nulla sfugge: è una variante dell’autore onnisciente imparentata con lo sguardo divino, che registra tutto, vede davanti, vede dietro, vede ai lati, parla fuori campo per richiamare il racconto alla sua coerenza. Poi si ritira dietro le quinte, ma neppure per un attimo perde il controllo dei personaggi che ha creato.
Tutti i suoi romanzi mettono in scena un narratore onnisciente. Ma mentre nel romanzo classico la voce narrante guarda i personaggi da una profondità temporale che le permette di conoscere il loro passato e la direzione che prenderà il loro futuro, il narratore a cui lei ricorre sembra essere dotato di uno sguardo che non solo circonda da tutti i lati i pensieri dei personaggi e rende espliciti gli aspetti contraddittori sfuggiti ai loro ragionamenti, ma non permette mai di dimenticare come tutta la narrazione sia sottomessa alla sua imprescindibile autorità.
Credo che questo discorso risulterebbe molto più chiaro se immaginassimo che fosse possibile eliminare la figura del narratore. E quando dico se fosse possibile è per dire che, in realtà, secondo me lo è. Chi ha inventato la figura del narratore? Si può pensare evidentemente che egli abbia le funzioni di cui lei parla, ovvero che abbia uno status determinato all’interno di un’opera di finzione. Ma se prendiamo una pièce teatrale ci troviamo immediatamente davanti a un paradosso: anch’essa è una finzione, ma il narratore non c’è. Ora, nella mia concezione del rapporto tra l’autore e il suo lavoro, questa figura di intermediario che coinciderebbe con il narratore non esiste. Intendo dire che colui che è effettivamente presente nell’osservazione del comportamento dei personaggi e nella analisi delle situazioni narrative è semplicemente l’autore. È chiaro che ci sono romanzi, e sono la maggior parte, costruiti in modo da fare percepire l’assenza dell’autore: assenza riempita dalla figura di un narratore dotato di atteggiamento neutrale, la cui unica funzione è appunto quella di raccontare. Al contrario, io voglio che i lettori abbiano coscienza del fatto che la voce e l’intenzione dell’autore sono presenti in tutto ciò è scritto sulla pagina, e per questo le rendo tanto esplicite che in nessun momento esse possono venire confuse o scambiata con la voce narrante. Tutto questo mi porta a concludere che, dal mio punto di vista, il narratore non è altro se non un personaggio in più di una storia che non è la sua, utilizzato dall’autore secondo le sue convenienze, le quali sono a loro volta finalizzate all’efficacia dell’intreccio. Nei miei libri accade continuamente che l’autore si pronunci in quanto tale, rendendo manifesto il suo pensiero, evidentemente perché questo fa gioco alla storia che sta raccontando.
Quindi, la retorica secondo la quale l’autore non sa quel che i suoi personaggi pensano, né è responsabile di quel che fanno, perché una volta creati essi godrebbero di una autonomia grazie alla quale non è lecito confondere i loro pensieri con quelli dell’autore, per lei non ha senso.
Infatti, è un discorso sul quale non sono d’accordo. Supponiamo che l’autore sia dotato di un pensiero a una sola dimensione. In questo caso, proiettare su ognuno dei personaggi pensieri che non gli appartengono sarebbe impossibile. Ne discende una ovvia constatazione: se pure i personaggi possiedono una loro autonomia, essa è relativa. Relativa alle intenzioni dell’autore, appunto. Credo che l’indipendenza dei personaggi stia piuttosto nel fatto che l’autore non può obbligarli a fare qualcosa che va contro la loro stessa logica; e laddove questo avvenga, vuol dire che la contraddittorietà imposta dall’autore ai suoi personaggi obbedisce a una organizzazione superiore, che guida gli sviluppi dell’intreccio. Il discorso che gli scrittori ripetono sempre quando li si interroga sui loro personaggi suona come una invocazione di impunità. È come se chiedessero di venire deresponsabilizzati, affermando che non sono loro a agire, bensì appunto le loro creature. È ovvio che se un personaggio ne ammazza un altro, non è stato l’autore a ucciderlo, però è stato lui, e non il narratore, a decidere chi ammazza chi nel corso del romanzo.
Tuttavia è vero che i personaggi conquistano un margine di autonomia almeno rispetto alle iniziali dichiarazioni di intenti dell’autore; perciò si dice che essi si avviano su strade proprie,  fino a allora impensate. Dove sta, secondo lei, il limite di questo discorso?
Sta nel fatto che non sono i personaggi a andarsene, da un certo punto in avanti, per la loro strada, ma è l’autore che scopre per loro nuovi cammini. In Cecità,quando il medico protagonista sta per entrare nell’autoambulanza che lo porterà a rinchiudersi in ospedale per passare la quarantena finalizzata a scongiurare l’epidemia di mal bianco, la moglie fa per accompagnarlo, ma il conducente le dice che lei non ha il permesso di salire, perché mentre suo marito è cieco, lei non lo è. Allora io le faccio rispondere: no, lei deve portare anche me perché sono appena diventata cieca anch’io. Se poco prima di questo passaggio mi avessero chiesto: e ora che ne farai di questa donna? La mia risposta sarebbe stata che, probabilmente, avrei aspettato il capitolo seguente e poi avrei fatto diventare cieca anche lei. Il romanzo si presenta come una struttura chiara, solida, eppure, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, io non avevo previsto cosa sarebbe successo a questa donna: sarebbe potuta diventare una figura meramente secondaria, una cieca tra gli altri. Ma proprio nel momento in cui il marito stava per salire sulla autoambulanza compresi che una tale soluzione non poteva darsi, e decisi di farla mentire. Questa è una tipica questione tra l’autore e il suo personaggio, e non tra il narratore e il personaggio.
Questo perché, come diceva prima, il narratore non è che un personaggio tra gli altri?
Sì, anche se, evidentemente, la mia è una definizione per assurdo. È chiaro che egli non è propriamente un personaggio, ma è altresì evidente che agisce all’interno di una storia che non gli appartiene, ovvero non entra a determinare l’intreccio.
Una delle caratteristiche che contraddistinguono la sua scrittura è la ricorrenza di uno sguardo che non si limita a avvolgere i personaggi, ma penetra nelle singole parti del loro corpo, consegnando a ciascun organo una propria autonomia di pensiero. Valga come esempio la frase tratta da Tutti i nomi, dove si dice che gli occhi del signor José “sentirono per lui una grande pena.”
Non vedo come spiegare quel che lei ha notato se non ammettendo che, per rifarmi al suo esempio, gli occhi piangono in conseguenza di un processo emotivo che si riflette sul sistema nervoso e li porta a lacrimare. Noi non possiamo dare l’ordine di far piangere i nostri occhi, dunque in questo senso essi hanno un certo livello di autonomia, che consente loro di piangere solo quando c’è un motivo. Certo, non sto dicendo che il nostro corpo è anarchico, naturalmente il comando parte sempre dal cervello. Tuttavia, ricorderà che nella Caverna io immagino che le dita del vasaio portino sulla punta dei piccoli cervelli, e dico esplicitamente che la mente ha una idea vaga di quel che vuole, non sa bene se se sia una pittura o una scultura ciò che le mani dovranno ottenere. Detto altrimenti, suppongo che le mani facciano più di quel che noi stessi pensiamo, e sappiano più di quel che il cervello sa di loro; anche se mi rendo conto che, dal punto di vista scientifico, probabilmente nulla di tutto ciò tiene.
Fino a che punto arriva la relazione tra il suo romanzo La caverna e il mito platonico? In Platone la caverna funziona come allegoria della conoscenza umana, ma non sembra che la grotta scoperta all’interno del centro commerciale da lei descritto abbia lo stesso significato.
Nel mio libro, infatti, non c’è alcuna speculazione filosofica. La caverna platonica funziona, qui, come un elemento che ha messo in moto un processo mentale rivolto a cercare nella materialità delle condizioni di vita odierne una situazione simile a quella descritta da Platone per i prigionieri della sua caverna: persone legate con la faccia rivolta alla parete dietro alla quale arde un fuoco. Le ombre che questo fuoco proietta creano visioni scambiate per oggetti reali. A parte questa immagine, per quel che riguarda il mio libro, di Platone non mi interessa nient’altro. Non si deve leggere La caverna come il prolungamento di una speculazione filosofica, ma come una trasposizione materiale delle circostanze in cui si trovano i prigionieri della caverna platonica, duemilatrecento anni dopo, nella società moderna. Credo che per ragioni differenti, e in una situazione necessariamente altra, è come se fossimo anche noi chiusi in una enorme caverna, circondati da immagini la cui funzione primaria sarebbe quella di rappresentare la realtà, mentre invece la occultano. Il centro commerciale è solo una figura simbolica della società attuale, ovvero di un processo di rinserramento che per certi versi somiglia in modo perturbante alla situazione in cui si trovavano i prigionieri platonici. Così come nel passato i nostri antenati si rifugiavano nelle caverne per proteggersi dal mondo esterno, e più tardi nelle cattedrali, luoghi per eccellenza deputati alla formazione della mentalità, e poi ancora nelle università, ora tutti questi spazi sono stati sostituiti dai centri commerciali, che sembrano essere, tra tutti, i luoghi nei quali ci sentiamo più sicuri. È evidente che c’è in questo una certa esagerazione, ma chissà che esagerare non sia un modo di fare divenire i fatti più visibili.
Si è detto che questo centro commerciale da lei immaginato ricorda alcune descrizioni di Orwell. Mi domando, piuttosto, se dopo tanti decenni di abuso del termine kafkiano non siamo qui di fronte alla figurazione di un luogo che autorizza, una volta tanto, il paragone con quel che Kafka aveva immaginato. Già l’archivio di Tutti i nomi, e il manicomio lager di Cecità avevano le caratteristiche della istituzione totale, con le relative connotazioni di ossessività e di angoscia. Kafka aveva prefigurato la condanna della condizione umana; ma, ora, nei romanzi inventati da lei, la realizzazione di questa condanna è ben più vicina, e la narrazione si incarica di esasperarne i contorni.
Condivido l’irritazione per l’abuso dell’attributo kafkiano, e credo che la sua sia una osservazione corretta. Molti romanzi si sarebbero potuti definire kafkiani assai prima che Kafka nascesse. Da sempre la letteratura mette in scena mondi condizionati da forze esterne. Per quel che riguarda La caverna, questo romanzo risente di quel genere di osservazione del mondo mista a elementi di fantascienza, che portò Huxley a scrivere Il mondo nuovo e Orwell a immaginare, partendo da dati reali, 1984. Tutto questo, ancorato a radici kafkiane. Dicono che qualcosa in me ricorda i presagi di Cassandra. Mi viene da rispondere che se dico che il tetto sta per cadere, meglio sarebbe verificarne le condizioni piuttosto che trattarmi da profeta di sventure.
Quando Cipriano e suo genero scendono nella caverna, si trovano davanti a figure che sembrerebbero rimandare a una imitazione in forma artistica della realtà. Dunque, se seguiamo Platone, esse sarebbero una copia di una copia, la cui origine nel mondo del reale sarebbero le figure dello stesso Cipriano, di sua figlia e di suo genero. Il vasaio si ritrae spaventato. Ma cos’è che effettivamente gli ricordano quelle figure?
Credo sia abbastanza chiaro, a patto di limitarci a considerare oggettivamente la situazione descritta da Platone, tralasciando tutta la discussione filosofica posteriore su quel che la caverna rappresenta. Le figure che il vasaio e suo genero trovano nella caverna sono figure umane mummificate: nient’altro che corpi di donne e di uomini. “Queste figure siamo noi”, dicono. Bene, dentro quella caverna che è il centro commerciale, il vasaio e il genero stanno – in realtà – come figure morte. Con una differenza: i morti non possono più uscire di là, mentre loro, in quanto vivi, hanno ancora la facoltà di allontanarsi dal centro. Infatti se ne andranno. Nella traduzione italiana si dice che per entrare nella caverna si acquista subito il biglietto, mentre in portoghese quel che si compra è l’entrata. Dunque si perde il significato originario, perché viene a mancare la doppia valenza di ingresso in un luogo di attrazioni dal quale, però, si può anche uscire.
Si parla spesso della musicalità della sua prosa, di ritmo della narrazione. A me pare, piuttosto, che quel che rende la sua scrittura inconfondibile non sia una questione di ritmo ma di cadenza.
Sono assolutamente d’accordo, parlare di ritmo è riduttivo. Quello che c’è nella mia narrativa è piuttosto una cadenza e che io chiamo misura, una unità metrica costituita da tempi raggruppati a due a due o a quattro a quattro. Come le frasi musicali hanno un loro tempo, nello stesso modo qui interviene una sorta di motu proprio, che comporta una certa solennità. E necessita che tutta la frase sia in equilibrio. Talvolta, da un punto di vista logico, il senso di quel che voglio dire è già concluso, non sarebbe necessario aggiungere nulla; tuttavia metto ancora altre parole, perché la musicalità della frase deve trovare un suo compimento, non può rimanere una nota sospesa.
A partire dal suo romanzo Una terra chiamata Alentejo, lei ha deciso di inserire i dialoghi nella narrazione come un continuum, abolendo le virgolette e qualsiasi marcatura di stacco che non sia la semplice maiuscola: unico segno a indicare, appunto, l’alternarsi delle voci. Come le è venuta questa idea, e a cosa è funzionale?
È possibile che vi siano indizi di questo mio modo di scrivere antecedenti alla stesura di Una terra chiamata Alentejo, il primo dei miei libri la cui struttura è organizzata esplicitamente in forma di romanzo. Ma, ammesso che sia possibile avere delle certezze, se mi fossi trovato a narrare una storia urbana invece che una epopea contadina, non avrei sentito la necessità di inserire i dialoghi nella narrazione. Ho passato tre anni nell’Alentejo, una regione del Portogallo del sud: ci arrivai nel ‘76 e cominciai finalmente a scrivere nel ‘79, dopo avere ascoltato tante storie di contadini: quando lo iniziai, Una terra chiamata Alentejo era un libro come qualunque altro, con i dialoghi posizionati in modo convenzionale; ma a un certo punto, superate le prime venti pagine, senza pensarci su cominciai a scrivere nel modo che non avrei più abbandonato. Quando dico che se si fosse trattato di un romanzo di vita urbana non sarebbe successo è perché quasi tutte le informazioni che raccolsi sulla vita dei contadini di Alentejo erano state tramandate oralmente, e quindi tutta la loro cultura era stata affidata, di generazione in generazione, a una comunicazione di tipo verbale: fu questo che determinò la frattura, obbligandomi a tornare sulle prime pagine per accordarle al resto della narrazione. Credo che compresi in quel momento di avere trovato la mia vera voce. E sebbene lo stesso processo non si ripeta meccanicamente da un romanzo all’altro, direi che questo è diventato il mio modo di comunicare con il lettore.
Roma, febbraio 2001

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