Mi piace riprendere questa mattina il bel dialogo di Francesca Borrelli con il premio Nobel José Saramago pubblicato oggi da http://www.leparoleelecose.it .
In questo bel sito trovate anche l'introduzione della stessa Borrelli al suo libro Maestri di finzione che contiene altre interviste a scrittori che hanno lasciato il segno nel nostro tempo.
Dialogo con José Saramago
Francesca Borrelli
Scrittore riconoscibile a apertura di
pagina per la singolarità del suo stile, Saramago è andato componendo
con straordinaria intelligenza narrativa le sue variazioni su una
moderna apocalisse, inseguendo temi aderenti a urgenze sociali, che si
configurano, ormai, come ricorrenze significative dei suoi intrecci.
Fino al 2011, ossia un anno dopo la sua morte, si credeva che lo
scrittore portoghese avesse aperto una parentesi di trent’anni fra
quello che era stato il suo esordio narrativo precoce, Terra del peccato,
uscito quando aveva appena venticinque anni, e il suo libro successivo;
una parentesi dalla quale erano emersi solo qualche collezione di versi
e ancor più rari scritti politici, a intervallare la professione alla
quale Saramago si era a tempo pieno dedicato, il giornalismo. Finché,
all’indomani della rivoluzione dei Garofani, una sorta di contro-golpe
“democratico” fece naufragare le aspirazioni socialiste del primo
governo succeduto alla dittatura e Saramago, in quanto comunista, perse
il posto. Ma ora sappiamo che, nel ‘53, l’allora giovane scrittore aveva
terminato un romanzo firmato con lo pseudonimo di Honorato, del quale
venne rifiutata la pubblicazione e che l’autore non ritenne di volere
mai più riprendere dai suoi cassetti. Ci ha pensato la moglie, Pilar del
Río, pubblicandolo con una premessa nella quale spiega la genesi di
questo romanzo ”perduto e ritrovato”, che Feltrinelli tradusse nel 2012
con il titolo Lucernario.
Sulla scena, la squallida vetrina di sei
interni familiari, dove si muovono piccoli nuclei costituiti da madri,
zie e sorelle, o da coniugi con relativi figli, tutti agitati da
tensioni e spesso da manifeste insofferenze, che sembrano funzionare
come un nevrotico collante, molto morboso per i personaggi coinvolti ma
del tutto privo di interesse per il lettore. Del resto, che gli esordi
narrativi di Saramago convincessero poco lui stesso sembra dimostrarlo
il fatto che resistette fino al ‘77 prima di decidersi a ritentare: il
nuovo libro venne titolato Manuale di pittura e calligrafia ed è
narrato in prima persona da un artista convertito alla scrittura, ma
non per questo sfuggito alla frustrazione di ogni sua aspirazione
inventiva. Già una amara ironia, mai più abbandonata, traversa questo Bildungsroman di Saramago, dove i protagonisti non hanno nome e le iniziali che li indicano, H e M, alludono a un hombre e a una mujer emblematici
della vaga identità dei singoli, primo barlume di quell’anonimato che
il narratore portoghese avrebbe poi consegnato a altri protagonisti
della sua disillusione. Perché – come lui stesso ha detto – quel che ora
ci distingue ha la grafia di un numero, come nelle carte di credito,
garanti della nostra legittimità più di quanto non lo siano le storie
personali che hanno condotto a chiamarci come ci chiamiamo.
Del resto, questa rinuncia all’evocazione del nome è legata anch’essa a un background non
privo di ironia: Saramago non è che un soprannome, regolarmente
registrato all’anagrafe e tuttavia corrispondente a nient’altro se non
all’appellativo confidenziale con cui la gente del paese era solita
rivolgersi alla sua famiglia. E quando lo scrittore decise di
ricostruire i soli quattro anni di vita del fratello, nato nel ‘20 e
morto per i postumi di una malattia, la lunga e estenuente ricerca si
risolse in un nulla di fatto: nessuna traccia che portasse notizie di
lui. Persino l’anagrafe della città natale esibiva la data di nascita ma
aveva omesso di registrare quella della morte, pronta a certificare che
un uomo ormai maturo si aggirava per il mondo, ignara che quel mondo
l’aveva lasciato quasi ottanta anni prima. Una vicenda di follia
burocratica che, rimpastata nella fantasia di Saramago, divenne la trama
di Tutti i nomi: protagonista il Signor José, fedele impiegato
dell’Anagrafe nonché maniacale collezionista di vite famose, nel bene e
nel male, tutte rigorosamente schedate, forse allo scopo di movimentare
la monotonia dei suoi giorni sempre uguali. Finché una scheda galeotta
mette sotto gli occhi di José i dati anagrafici di una donna,
sconvolgendo la sua vita e indirizzandola verso una ricerca capillare
delle tracce lasciate da quella esistenza, ricongiungersi alla quale
diventa una ossessione.
Il Nobel per la letteratura arrivò a José Saramago nel ‘98, poco dopo l’uscita, in Italia, di Tutti i nomi; ma erano già molti i titoli che avevano contribuito all’assegnazione del premio: fra questi, Una terra chiamata Alentejo,
la saga di quattro generazioni contadine protagoniste di una vita
miserevole, condotta in promiscuità con le bestie, tra tentativi di
lotte disperate contro la brutalità di un regime dittatoriale. Ancora
sottomesso alla vena neorealista che alimentava, allora, gli scrittori
della sua generazione, questo romanzo fu seguito due anni dopo dal Memoriale del convento,
dove la narrazione insegue l’eroismo della povera gente, mentre si
accende di sdegno contro la cieca ambizione delle classi privilegiate; e
tutto ruota intorno alla costruzione del gigantesco palazzo-convento di
Mafra, voluto da Giovanni V agli inzi del XVIII secolo. Ancora
l’intervallo di un biennio, e con L’anno della morte di Riccardo Reis
Saramago fa i conti con il grande Pessoa, evocato nel titolo attraverso
uno dei suoi eteronimi. Il richiamo del passato cede all’urgenza della
svolta politica che avvia il Portogallo a entrare nella Comunità
Europea: la critica di Saramago si traduce, allora, nella narrazione
della Zattera di pietra, dove la specificità storico-culturale
della penisola iberica, una terra sospesa tra l’Africa e l’America,
viene rivendicata come presupposto ideale a costituire un ponte verso il
sud del mondo. Ancora storica l’ambientazione dell’Assedio di Lisbona,
dove lo sbaglio di un correttore di bozze genera una finzione
sovvertitrice della realtà. E, finalmente, il grande pubblico memorizzò
il nome di Saramago grazie all’enorme scandalo sollevato dal Vangelo secondo Gesù,
responsabile di veementi espressioni di sdegno sia in Portogallo che
nel resto del mondo cattolico. “Ho l’impressione che la chiesa si occupi
di amministrare i corpi molto più di quanto non si dedichi alle anime”
fu il commento di Saramago, che partì per un esilio volontario verso
l’isoletta di Lanzarote. Ma nonostante l’ambiente suggerisse più miti
panorami esistenziali, la cupezza dei presagi di Saramago andò
perfezionando i suoi contorni, per poi materializzarsi negli incubi che
segnarono buona parte della sua stagione più matura.
Il titolo inaugurale, destinato a restare il più noto, fu Cecità, un libro sulla crisi della ragione ambientato in una sorta di lager manicomiale, e quello successivo Tutti i nomi,
una allegoria delle nostre identità senza certezze. Poi, finalmente, in
un crescendo di perfezionismo stilistico, l’approdo alla Caverna, e dunque all’Uomo duplicato, e ancora al Saggio sulla lucidità, i libri intorno ai quali hanno ruotato le nostre tre lunghe conversazioni.
Qualche accenno all’intreccio sul quale
si concentra la prima intervista con Saramago servirà a orientarsi nelle
domande. Il titolo del libro in questione, La Caverna,riprende
il mito platonico allo scopo di rimandarci alla nostra condizione di
prigionieri: qui la galera si identifica con una istituzione totalitaria
mascherata da Centro commerciale, che inghiotte via via tutto quanto lo
circonda, paesaggi, uomini e cose, trasformandoli in funzioni di una
autorità superiore facilmente identificabile nel processo di
globalizzazione economica, che governa gli scambi della nostra
reificanda condizione umana. Romanzo che rimanda alla crisi
dell’individuo moderno nella società circostante, e soprattutto alla
minaccia che incombe sul lavoro, La caverna va letto tuttavia
non fra le righe, ma per quel che vi si rende esplicito, ovvero il
virtuosismo di una scrittura che insegue le poche gesta e i molti
pensieri dei protagonisti, governata dalla autorità inappellabile di una
intenzione cui nulla sfugge: è una variante dell’autore onnisciente
imparentata con lo sguardo divino, che registra tutto, vede davanti,
vede dietro, vede ai lati, parla fuori campo per richiamare il racconto
alla sua coerenza. Poi si ritira dietro le quinte, ma neppure per un
attimo perde il controllo dei personaggi che ha creato.
Tutti i suoi romanzi mettono in
scena un narratore onnisciente. Ma mentre nel romanzo classico la voce
narrante guarda i personaggi da una profondità temporale che le permette
di conoscere il loro passato e la direzione che prenderà il loro
futuro, il narratore a cui lei ricorre sembra essere dotato di uno
sguardo che non solo circonda da tutti i lati i pensieri dei personaggi e
rende espliciti gli aspetti contraddittori sfuggiti ai loro
ragionamenti, ma non permette mai di dimenticare come tutta la
narrazione sia sottomessa alla sua imprescindibile autorità.
Credo che questo discorso risulterebbe
molto più chiaro se immaginassimo che fosse possibile eliminare la
figura del narratore. E quando dico se fosse possibile è per
dire che, in realtà, secondo me lo è. Chi ha inventato la figura del
narratore? Si può pensare evidentemente che egli abbia le funzioni di
cui lei parla, ovvero che abbia uno status determinato all’interno di
un’opera di finzione. Ma se prendiamo una pièce teatrale ci troviamo
immediatamente davanti a un paradosso: anch’essa è una finzione, ma il
narratore non c’è. Ora, nella mia concezione del rapporto tra l’autore e
il suo lavoro, questa figura di intermediario che coinciderebbe con il
narratore non esiste. Intendo dire che colui che è effettivamente
presente nell’osservazione del comportamento dei personaggi e nella
analisi delle situazioni narrative è semplicemente l’autore. È chiaro
che ci sono romanzi, e sono la maggior parte, costruiti in modo da fare
percepire l’assenza dell’autore: assenza riempita dalla figura di un
narratore dotato di atteggiamento neutrale, la cui unica funzione è
appunto quella di raccontare. Al contrario, io voglio che i lettori
abbiano coscienza del fatto che la voce e l’intenzione dell’autore sono
presenti in tutto ciò è scritto sulla pagina, e per questo le rendo
tanto esplicite che in nessun momento esse possono venire confuse o
scambiata con la voce narrante. Tutto questo mi porta a concludere che,
dal mio punto di vista, il narratore non è altro se non un personaggio
in più di una storia che non è la sua, utilizzato dall’autore secondo le
sue convenienze, le quali sono a loro volta finalizzate all’efficacia
dell’intreccio. Nei miei libri accade continuamente che l’autore si
pronunci in quanto tale, rendendo manifesto il suo pensiero,
evidentemente perché questo fa gioco alla storia che sta raccontando.
Quindi, la retorica secondo la quale
l’autore non sa quel che i suoi personaggi pensano, né è responsabile
di quel che fanno, perché una volta creati essi godrebbero di una
autonomia grazie alla quale non è lecito confondere i loro pensieri con
quelli dell’autore, per lei non ha senso.
Infatti, è un discorso sul quale non
sono d’accordo. Supponiamo che l’autore sia dotato di un pensiero a una
sola dimensione. In questo caso, proiettare su ognuno dei personaggi
pensieri che non gli appartengono sarebbe impossibile. Ne discende una
ovvia constatazione: se pure i personaggi possiedono una loro autonomia,
essa è relativa. Relativa alle intenzioni dell’autore, appunto. Credo
che l’indipendenza dei personaggi stia piuttosto nel fatto che l’autore
non può obbligarli a fare qualcosa che va contro la loro stessa logica; e
laddove questo avvenga, vuol dire che la contraddittorietà imposta
dall’autore ai suoi personaggi obbedisce a una organizzazione superiore,
che guida gli sviluppi dell’intreccio. Il discorso che gli scrittori
ripetono sempre quando li si interroga sui loro personaggi suona come
una invocazione di impunità. È come se chiedessero di venire
deresponsabilizzati, affermando che non sono loro a agire, bensì appunto
le loro creature. È ovvio che se un personaggio ne ammazza un altro,
non è stato l’autore a ucciderlo, però è stato lui, e non il narratore, a decidere chi ammazza chi nel corso del romanzo.
Tuttavia è vero che i personaggi
conquistano un margine di autonomia almeno rispetto alle iniziali
dichiarazioni di intenti dell’autore; perciò si dice che essi si avviano
su strade proprie, fino a allora impensate. Dove sta, secondo lei, il
limite di questo discorso?
Sta nel fatto che non sono i personaggi a
andarsene, da un certo punto in avanti, per la loro strada, ma è
l’autore che scopre per loro nuovi cammini. In Cecità,quando il
medico protagonista sta per entrare nell’autoambulanza che lo porterà a
rinchiudersi in ospedale per passare la quarantena finalizzata a
scongiurare l’epidemia di mal bianco, la moglie fa per accompagnarlo, ma
il conducente le dice che lei non ha il permesso di salire, perché
mentre suo marito è cieco, lei non lo è. Allora io le faccio rispondere:
no, lei deve portare anche me perché sono appena diventata cieca
anch’io. Se poco prima di questo passaggio mi avessero chiesto: e ora
che ne farai di questa donna? La mia risposta sarebbe stata che,
probabilmente, avrei aspettato il capitolo seguente e poi avrei fatto
diventare cieca anche lei. Il romanzo si presenta come una struttura
chiara, solida, eppure, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare,
io non avevo previsto cosa sarebbe successo a questa donna: sarebbe
potuta diventare una figura meramente secondaria, una cieca tra gli
altri. Ma proprio nel momento in cui il marito stava per salire sulla
autoambulanza compresi che una tale soluzione non poteva darsi, e decisi
di farla mentire. Questa è una tipica questione tra l’autore e il suo
personaggio, e non tra il narratore e il personaggio.
Questo perché, come diceva prima, il narratore non è che un personaggio tra gli altri?
Sì, anche se, evidentemente, la mia è
una definizione per assurdo. È chiaro che egli non è propriamente un
personaggio, ma è altresì evidente che agisce all’interno di una storia
che non gli appartiene, ovvero non entra a determinare l’intreccio.
Una delle caratteristiche che
contraddistinguono la sua scrittura è la ricorrenza di uno sguardo che
non si limita a avvolgere i personaggi, ma penetra nelle singole parti
del loro corpo, consegnando a ciascun organo una propria autonomia di
pensiero. Valga come esempio la frase tratta da Tutti i nomi, dove si dice che gli occhi del signor José “sentirono per lui una grande pena.”
Non vedo come spiegare quel che lei ha
notato se non ammettendo che, per rifarmi al suo esempio, gli occhi
piangono in conseguenza di un processo emotivo che si riflette sul
sistema nervoso e li porta a lacrimare. Noi non possiamo dare l’ordine
di far piangere i nostri occhi, dunque in questo senso essi hanno un
certo livello di autonomia, che consente loro di piangere solo quando
c’è un motivo. Certo, non sto dicendo che il nostro corpo è anarchico,
naturalmente il comando parte sempre dal cervello. Tuttavia, ricorderà
che nella Caverna io immagino che le dita del vasaio portino
sulla punta dei piccoli cervelli, e dico esplicitamente che la mente ha
una idea vaga di quel che vuole, non sa bene se se sia una pittura o una
scultura ciò che le mani dovranno ottenere. Detto altrimenti, suppongo
che le mani facciano più di quel che noi stessi pensiamo, e sappiano più
di quel che il cervello sa di loro; anche se mi rendo conto che, dal
punto di vista scientifico, probabilmente nulla di tutto ciò tiene.
Fino a che punto arriva la relazione tra il suo romanzo La caverna
e il mito platonico? In Platone la caverna funziona come allegoria
della conoscenza umana, ma non sembra che la grotta scoperta all’interno
del centro commerciale da lei descritto abbia lo stesso significato.
Nel mio libro, infatti, non c’è alcuna
speculazione filosofica. La caverna platonica funziona, qui, come un
elemento che ha messo in moto un processo mentale rivolto a cercare
nella materialità delle condizioni di vita odierne una situazione simile
a quella descritta da Platone per i prigionieri della sua caverna:
persone legate con la faccia rivolta alla parete dietro alla quale arde
un fuoco. Le ombre che questo fuoco proietta creano visioni scambiate
per oggetti reali. A parte questa immagine, per quel che riguarda il mio
libro, di Platone non mi interessa nient’altro. Non si deve leggere La caverna
come il prolungamento di una speculazione filosofica, ma come una
trasposizione materiale delle circostanze in cui si trovano i
prigionieri della caverna platonica, duemilatrecento anni dopo, nella
società moderna. Credo che per ragioni differenti, e in una situazione
necessariamente altra, è come se fossimo anche noi chiusi in una enorme
caverna, circondati da immagini la cui funzione primaria sarebbe quella
di rappresentare la realtà, mentre invece la occultano. Il centro
commerciale è solo una figura simbolica della società attuale, ovvero di
un processo di rinserramento che per certi versi somiglia in modo
perturbante alla situazione in cui si trovavano i prigionieri platonici.
Così come nel passato i nostri antenati si rifugiavano nelle caverne
per proteggersi dal mondo esterno, e più tardi nelle cattedrali, luoghi
per eccellenza deputati alla formazione della mentalità, e poi ancora
nelle università, ora tutti questi spazi sono stati sostituiti dai
centri commerciali, che sembrano essere, tra tutti, i luoghi nei quali
ci sentiamo più sicuri. È evidente che c’è in questo una certa
esagerazione, ma chissà che esagerare non sia un modo di fare divenire i
fatti più visibili.
Si è detto che questo centro
commerciale da lei immaginato ricorda alcune descrizioni di Orwell. Mi
domando, piuttosto, se dopo tanti decenni di abuso del termine kafkiano
non siamo qui di fronte alla figurazione di un luogo che autorizza, una
volta tanto, il paragone con quel che Kafka aveva immaginato. Già
l’archivio di Tutti i nomi, e il manicomio lager di Cecità avevano
le caratteristiche della istituzione totale, con le relative
connotazioni di ossessività e di angoscia. Kafka aveva prefigurato la
condanna della condizione umana; ma, ora, nei romanzi inventati da lei,
la realizzazione di questa condanna è ben più vicina, e la narrazione si
incarica di esasperarne i contorni.
Condivido l’irritazione per l’abuso dell’attributo kafkiano,
e credo che la sua sia una osservazione corretta. Molti romanzi si
sarebbero potuti definire kafkiani assai prima che Kafka nascesse. Da
sempre la letteratura mette in scena mondi condizionati da forze
esterne. Per quel che riguarda La caverna, questo romanzo risente di quel genere di osservazione del mondo mista a elementi di fantascienza, che portò Huxley a scrivere Il mondo nuovo e Orwell a immaginare, partendo da dati reali, 1984.
Tutto questo, ancorato a radici kafkiane. Dicono che qualcosa in me
ricorda i presagi di Cassandra. Mi viene da rispondere che se dico che
il tetto sta per cadere, meglio sarebbe verificarne le condizioni
piuttosto che trattarmi da profeta di sventure.
Quando Cipriano e suo genero
scendono nella caverna, si trovano davanti a figure che sembrerebbero
rimandare a una imitazione in forma artistica della realtà. Dunque, se
seguiamo Platone, esse sarebbero una copia di una copia, la cui origine
nel mondo del reale sarebbero le figure dello stesso Cipriano, di sua
figlia e di suo genero. Il vasaio si ritrae spaventato. Ma cos’è che
effettivamente gli ricordano quelle figure?
Credo sia abbastanza chiaro, a patto di
limitarci a considerare oggettivamente la situazione descritta da
Platone, tralasciando tutta la discussione filosofica posteriore su quel
che la caverna rappresenta. Le figure che il vasaio e suo genero
trovano nella caverna sono figure umane mummificate: nient’altro che
corpi di donne e di uomini. “Queste figure siamo noi”, dicono. Bene,
dentro quella caverna che è il centro commerciale, il vasaio e il genero
stanno – in realtà – come figure morte. Con una differenza: i morti non
possono più uscire di là, mentre loro, in quanto vivi, hanno ancora la
facoltà di allontanarsi dal centro. Infatti se ne andranno. Nella
traduzione italiana si dice che per entrare nella caverna si acquista
subito il biglietto, mentre in portoghese quel che si compra è l’entrata.
Dunque si perde il significato originario, perché viene a mancare la
doppia valenza di ingresso in un luogo di attrazioni dal quale, però, si
può anche uscire.
Si parla spesso della musicalità
della sua prosa, di ritmo della narrazione. A me pare, piuttosto, che
quel che rende la sua scrittura inconfondibile non sia una questione di
ritmo ma di cadenza.
Sono assolutamente d’accordo, parlare di
ritmo è riduttivo. Quello che c’è nella mia narrativa è piuttosto una
cadenza e che io chiamo misura, una unità metrica costituita da tempi
raggruppati a due a due o a quattro a quattro. Come le frasi musicali
hanno un loro tempo, nello stesso modo qui interviene una sorta di motu proprio,
che comporta una certa solennità. E necessita che tutta la frase sia in
equilibrio. Talvolta, da un punto di vista logico, il senso di quel che
voglio dire è già concluso, non sarebbe necessario aggiungere nulla;
tuttavia metto ancora altre parole, perché la musicalità della frase
deve trovare un suo compimento, non può rimanere una nota sospesa.
A partire dal suo romanzo Una terra chiamata Alentejo, lei ha deciso di inserire i dialoghi nella narrazione come un continuum,
abolendo le virgolette e qualsiasi marcatura di stacco che non sia la
semplice maiuscola: unico segno a indicare, appunto, l’alternarsi delle
voci. Come le è venuta questa idea, e a cosa è funzionale?
È possibile che vi siano indizi di questo mio modo di scrivere antecedenti alla stesura di Una terra chiamata Alentejo,
il primo dei miei libri la cui struttura è organizzata esplicitamente
in forma di romanzo. Ma, ammesso che sia possibile avere delle certezze,
se mi fossi trovato a narrare una storia urbana invece che una epopea
contadina, non avrei sentito la necessità di inserire i dialoghi nella
narrazione. Ho passato tre anni nell’Alentejo, una regione del
Portogallo del sud: ci arrivai nel ‘76 e cominciai finalmente a scrivere
nel ‘79, dopo avere ascoltato tante storie di contadini: quando lo
iniziai, Una terra chiamata Alentejo era un libro come
qualunque altro, con i dialoghi posizionati in modo convenzionale; ma a
un certo punto, superate le prime venti pagine, senza pensarci su
cominciai a scrivere nel modo che non avrei più abbandonato. Quando dico
che se si fosse trattato di un romanzo di vita urbana non sarebbe
successo è perché quasi tutte le informazioni che raccolsi sulla vita
dei contadini di Alentejo erano state tramandate oralmente, e quindi
tutta la loro cultura era stata affidata, di generazione in generazione,
a una comunicazione di tipo verbale: fu questo che determinò la
frattura, obbligandomi a tornare sulle prime pagine per accordarle al
resto della narrazione. Credo che compresi in quel momento di avere
trovato la mia vera voce. E sebbene lo stesso processo non si ripeta
meccanicamente da un romanzo all’altro, direi che questo è diventato il
mio modo di comunicare con il lettore.
Roma, febbraio 2001
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