Domani alle ore 18 ai Cantieri Culturali della Zisa di Palermo verrà presentato il 6° numero della rivista nuovabusambra. La parte monografica del fascicolo è dedicata al compianto Franco Scaldati. Ma, come sempre, troverete nel numero - come potete vedere dall'indice - tant'altro, compreso il nostro saggio inedito sul giovane Pasolini, riproposto di seguito, anche se alleggerito dalle note che troverete nella rivista.
FRANCESCO VIRGA
POESIA E MONDO CONTADINO NEL GIOVANE PASOLINI
Fontana di aga dal me
pais.
A no è aga pi
fres-cia che tal me pais.
Fontana di rustic
amour.[1]
Poesie a
Casarsa è il titolo del primo libro di Pasolini, pubblicato a sue
spese dalla Libreria Antiquaria Landi di Bologna nel luglio 1942. Pier Paolo ha
appena vent’anni e studia lettere nell’Università della sua città natale. In
quegli anni non poteva aver letto Gramsci, allora ancora inedito; ma a Bologna
ha studiato filologia romanza ed ha avuto modo di conoscere gli studi del
goriziano Graziadio Isaia Ascoli che, oltre a dare una chiara spiegazione delle
ragioni storico-culturali che hanno condotto il fiorentino a diventare lingua
nazionale, si era anche soffermato ad analizzare la posizione singolare delle diverse
parlate friulane rispetto agli altri idiomi della penisola.[2]
Casarsa
è il paese friulano dov’è nata la madre del poeta e dove quest’ultimo
trascorreva le vacanze estive. Ma Casarsa e il Friuli, fino a quel momento,
sono più un mito che una realtà[3]
come riconosce lo stesso Pasolini:
Io scrissi i primi versi in friulano a Bologna senza
conoscere neanche un poeta in questa lingua e invece leggendo abbondantemente i
provenzali. Allora (nel ‘41-‘42) per me il friulano era un linguaggio che non
aveva nessun rapporto che non fosse fantastico con il Friuli.[4]
Eppure
questo libretto, che a prima vista sembra fatto a tavolino «col Pirona,
dizionario friulano-italiano accanto»,[5]
colpì immediatamente l’attenzione di un lettore attento come Gianfranco
Contini, allora docente di filologia romanza all’Università di Friburgo. Nella
famosa recensione che ne fece, censurata dall’Italia fascista che mal tollerava
le realtà regionali con i loro dialetti, il critico oltre a fiutare «l’odore
[…] della poesia, in una specie inconsueta, per di più in una di quelle non so
se dire quasi lingue o lingue minori che era mia passione e professione
frequentare», intravedeva profeticamente nell’opera del giovane autore lo «scandalo
ch’esso introduce negli annali della letteratura dialettale».[6]
Sarà
lo stesso giovane Pasolini, nell’articolo dell’aprile 1944 intitolato Dialet, lenga e stil, a spiegare, col
suo tipico stile pedagogico che ritroveremo intatto ancora negli ultimi anni
della sua vita,[7] la
radicale novità rappresentata dal suo uso inedito della lingua friulana,
rispetto alla tradizione dialettale, che nel Friuli aveva avuto come massimo
esponente Pietro Zorutti. Ne ripropongo i passi che mostrano, tra l’altro, come
egli avesse perfettamente assimilato la lezione dell’Ascoli:
Quando parlate […] adoperate quel dialetto che avete
imparato da vostra madre […]. E sono secoli che i bambini di questi posti
succhiano dal seno delle loro madri quel dialetto […]. E per impararlo non
servono sillabari, libri, grammatiche; lo si parla così, come si mangia o si
respira. Nessuno di voi saprebbe scriverlo, questo dialetto, e, quasi quasi,
neanche leggerlo. Ma intanto lui è vivo, […] nelle vostre bocche, […], nei
petti dei giovanotti […].
Così il dialetto è la più umile e comune maniera di
esprimersi, è solo parlato, a nessuno viene mai in mente di scriverlo. Ma se a
qualcuno venisse […] l’idea di adoperare il dialetto per esprimere i propri
sentimenti, le proprie passioni? […] con l’ambizione di dire cose più elevate,
difficili, magari; se qualcuno, insomma, pensasse di esprimersi meglio con il
dialetto della sua terra, più nuovo, più fresco, più forte della lingua
nazionale imparata nei libri? […] allora quel dialetto diventa “lingua”. La
lingua sarebbe così un dialetto scritto e adoperato per esprimere i sentimenti
più alti e segreti del cuore.
Così […] l’Italiano una volta, tanti secoli fa, era
anche lui solo un dialetto, parlato dalla povera gente, dai contadini, dai
servitori, dai braccianti mentre i ricchi e quelli che avevano studiato parlavano
e scrivevano in latino […] un dialetto del Latino, come adesso, per noi,
l’emiliano, il siciliano, il lombardo… […] In dialetto toscano Dante scrive la
sua Divina Commedia, in dialetto
toscano Petrarca scrive le sue poesie, e così quel dialetto un poco per volta
diventa lingua e sostituisce il Latino. E siccome tutti gli altri dialetti non
danno né documenti scritti né poeti, la lingua toscana si impone su tutti e
diventa lingua italiana. […]
Purtroppo il Friuli, per tante ragioni, non ha avuto
in nessun tempo un gran poeta che cantasse nella sua lingua e che gli desse
splendore e rinomanza […] Verrà bene il giorno in cui il Friuli si accorgerà di
avere una storia, un passato, una tradizione! […].[8]
Oltre
che un’«ottima lezione di filologia romanza»,[9]
il testo è uno dei primi documenti in cui Pasolini espone la sua poetica. Da
esso trapela, insieme alla fede romantica nella naturale forza educatrice della
poesia, la convinzione che il dialetto, usato per esprimere grandi sentimenti,
può trasformarsi in lingua e quindi in poesia.[10]
Sul
periodo vissuto in Friuli il poeta tornerà più volte negli anni della maturità.
Queste sue dirette testimonianze vanno tenute presenti, non tanto per la
ricostruzione obiettiva dei fatti, quanto piuttosto per capire il senso e il
valore che queste esperienze hanno avuto per lui. Particolarmente significativo
appare, da questo punto di vista, quello che dirà, alla fine degli anni ‘60, a
Jean Duflot:
Il friulano non è la mia “lingua” materna […]. In
effetti, si parlano tre “lingue” in Friuli: il vecchio friulano, che è una
lingua completa, autonoma, come può essere il catalano o il bretone; il
veneziano, parlato dalla piccola borghesia; e l’italiano. Io mi sono imbevuto
del dialetto friulano in mezzo ai contadini, senza mai però parlarlo veramente
a mia volta. L’ho studiato da vicino solo dopo aver iniziato a fare tentativi
poetici in questa lingua. Qualcosa come una passione mistica, una sorta di
felibrismo, mi spingevano ad impadronirmi di questa vecchia lingua contadina, alla stregua dei poeti provenzali
che scrivevano in dialetto, in un paese dove l’unità della lingua ufficiale si
era stabilita da tempi immemorabili. Il gusto di una ricerca arcaica… Avevo
diciassette anni. Scrivevo queste prime poesie friulane quando era ancora in
piena voga l’ermetismo, il cui maestro era Ungaretti […]; in poche parole,
tutti i poeti ermetici vivevano nell’idea che il linguaggio poetico fosse un
linguaggio assoluto. […]. Presi molto ingenuamente il partito di essere
incomprensibile, e scelsi a questo fine il dialetto friulano. Era per me il
massimo dell’ermetismo, dell’oscurità, del rifiuto di comunicare. Invece è
successo ciò che non mi aspettavo. La
frequentazione di questo dialetto mi diede il gusto della vita e del realismo.
Per mezzo del friulano, venivo a scoprire che la gente semplice, attraverso il
proprio linguaggio, finisce per esistere obiettivamente, con tutto il mistero del carattere contadino.
All’inizio ne ebbi una visione troppo estetica, fondavo una specie di piccola
accademia di poeti friulani […] Col passare del tempo avrei imparato ad usare
il dialetto quale strumento di ricerca obiettiva, realistica.[11]
Questa
testimonianza –che conferma l’altra: «I primi anni più importanti della mia
vita sono contadini, come lo sono, nel significato letterale della parola, le
mie prime prove poetiche nel periodo friulano»[12]–
è illuminante anche perché consente di capire meglio come la scoperta del mondo
contadino sia in Pasolini mediata dalla lingua e come tale mediazione abbia
contribuito a creare il primo nucleo del mito della civiltà contadina nella sua
opera.
In
questo contesto va inserita la fondazione della Academiuta di lenga furlana nel febbraio del 1945. Nell’atto
costitutivo si ritrova l’ennesimo rimando alle teorie linguistiche ascoliane e
all’ideologia delle «Piccole Patrie»:
Stabilito filologicamente (cioè con un volontario
ritorno alle teorie ascoliane) che il nostro friulano non può essere considerato
un dialetto […]. Il Friuli si unisce, con la sua sterile storia e il suo
innocente, trepido desiderio di poesia, alla Provenza, alla Catalogna, ai
Grigioni, alla Rumania e a tutte le Piccole Patrie di lingua romanza.
Malgrado
il nome altisonante dato a questa sua ultima iniziativa, in polemica con il
circolo filologico di Udine, Pasolini si proponeva di rompere con la tradizione
friulana folcloristica, nel senso deteriore del termine, per favorire la
nascita di una nuova coscienza civile e culturale. Lo spirito è, quindi, quello
antiaccademico di sempre. Con il cugino Naldini, il pittore Zigaina ed altri,
continua a registrare le parlate locali in interminabili uscite in bicicletta,
curioso di conoscere culture diverse da quella piccolo borghese in cui è stato
educato. Così lo stesso poeta –iniziato «per nascita» al «mistero di quella
lingua speciale ch’è la lingua letteraria»,[13]
altrove definita «il nuovo latino»[14]–
s’impegna attivamente a dare dignità di lingua al dialetto parlato dai
contadini di Casarsa fino ad usarlo, come vedremo tra poco, per comunicare e
scrivere, anche in manifesti murali, le sue nuove convinzioni politiche.
Il
sempre maggiore radicamento nella realtà friulana non impedisce a Pasolini di
curare le relazioni con il suo primo recensore, Gianfranco Contini, e con la
cultura europea. Così nel giugno del 1947 pubblica il Quaderno romanzo che accoglie una piccola antologia di poesia
catalana, inviatagli dal monaco antifranchista Carles Cardó, conosciuto tramite
Contini. Si tratta di uno dei documenti che meglio spiegano come la giovanile
passione per la filologia avesse in nuce un risvolto politico. Particolarmente
eloquente appare la presentazione che ne fa:
La dittatura fascista di Franco ha condannato la
lingua catalana al più duro ostracismo, espugnandola non solo dalla scuola e
dai tribunali, ma dalla tribuna, dalla radio, dalla stampa, dal libro e perfino
dalla Chiesa. Ciò nonostante, gli scrittori catalani seguitano a lavorare nelle
catacombe in attesa del giorno […] in cui il sole della libertà splenderà di
nuovo su quella lingua, erede della provenzale, che fu la seconda in importanza
–dopo l’italiana– nel Medio Evo e che oggi è parlata in Spagna, in Francia […]
e in Italia […] da non meno di sei milioni di persone.[15]
Come
si vede il giovane Pasolini fonda il diritto all’autonomia politica della
Catalogna sulla riconosciuta differenza della lingua catalana rispetto alla
castigliana. Con analoghe argomentazioni, un anno prima, lo stesso Pasolini
aveva rivendicato il diritto all’autonomia politica del suo Friuli, in diversi
articoli pubblicati in giornali e periodici locali. [16]
Il
1947 è l’anno in cui il nostro autore non solo aderisce al PCI, ma diventa
segretario della sezione comunista di San Giovanni a Casarsa. Pertanto, in questi
primi anni della sua formazione, ci troviamo di fronte a un Pasolini che è
insieme un poeta, un filologo e un attivista politico con una fortissima
vocazione pedagogica. Anche se le ricostruzioni autobiografiche vanno sempre
prese con il beneficio dell’inventario, ci sembra attendibile quello che
Pasolini ha scritto di sé a proposito della decisione d’iscriversi al PCI nel
1947, due anni dopo l’uccisione del fratello Guido da parte di un gruppo di
partigiani comunisti:[17]
ciò che mi ha spinto a essere comunista è stata una
lotta di braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra (I giorni del Lodo De Gasperi doveva
essere il titolo del mio primo romanzo, pubblicato invece nel 1962 col titolo Il sogno di una cosa). Io fui coi
braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci.[18]
Anche
se non conosciamo il modo in cui Pasolini partecipò alle lotte dei braccianti
friulani nell’ultimo dopoguerra, rimane un dato di fatto il continuo rimando a
questa esperienza che il poeta fa in più luoghi e che costituisce lo sfondo de Il sogno di una cosa. Particolarmente
significativo sembra quanto riferito l’8 luglio 1961 su Vie Nuove, soprattutto perché rivela il percorso lungo e complicato seguito dal giovane:
Allora io vivevo in Friuli, che era un po’ un paese ideale,
quasi fuori dallo spazio e dal tempo, una specie di sentimentale e poetica
Provenza, per me, che scrivevo poesie rimbaudiane o verlainiane o lorchiane
in friulano. Quei mesi di lotte contadine,
a cui ho fisicamente partecipato, occhi e orecchi ben tesi, hanno trasformato il Friuli in un paese
reale, e i suoi abitanti da antichi provenzali in esseri viventi e storici.
Sembrerebbe una cosa così semplice: invece è stata lunga e complicata: ho dovuto compiere con la ragione tutto un
viaggio di ritorno dal territorio in cui mi ero addentrato con la più folle,
turbata e univoca delle fantasie […] è stata la diretta esperienza dei problemi
degli altri che ha trasformato radicalmente i miei problemi: e per questo io sento sempre alle origini del
comunismo di un borghese una istanza etica, in qualche modo evangelica.[19]
Tra
i pochi documenti della breve ma intensa militanza di Pasolini nelle file del
PCI ci sono rimasti alcuni manifesti, scritti di suo pugno in friulano, verso
la fine degli anni ‘40, per le campagne elettorali condotte dalla sezione che
dirigeva.
La
maggiore sorpresa leggendoli è constatare come in essi si ritrovi, tra l’altro,
la prima espressione di un tema particolarmente caro al Nostro –il rapporto che
lega il cristianesimo al comunismo– ripreso lungo tutti gli anni ‘60 fino agli
ultimi suoi scritti. A titolo di esempio, ecco di seguito il testo di uno di
questi manifesti, intitolato L’anima
nera, scritto nella lingua parlata realmente dai contadini di Casarsa, ben
lontana da quella concepita in laboratorio per scrivere le sue prime poesie:
Se e sia duta sta pulitica ch’a fan i predis cuntra di
nualtris puares? A saressin lour cha varesin da vei il nustri stes penseir; a
ni par che i nustri sintimins a sedin abastanza cristians! Sers democristians a
si fan di maraveja se i Comunisc a van a Messa quant che i comunisc a
podaressin fasì a mondi di pì maraveja par jodi chei democristians ch’a van a
Messa cu l’anima nera coma il ciarbon.[20]
In
queste parole di denuncia dell’ipocrisia dei preti democristiani del tempo si
intravede la stessa motivazione etica della critica serrata che, negli anni
successivi, Pasolini condurrà contro l’intera classe dirigente nazionale.
Questi
manifesti pare che siano stati particolarmente efficaci se, come ha rilevato
Enzo Siciliano, contribuirono a far vincere le elezioni ai comunisti di San
Giovanni, in una regione dove la DC
aveva la maggioranza assoluta. Al contempo dovettero suscitare invidie e
malevole attenzioni. Così il 15 ottobre del 1949 Pasolini viene segnalato ai
carabinieri di Cordovado per presunta corruzione di minorenni. Prima ancora
della sentenza giudiziaria che lo assolverà, arriva l’espulsione dal partito
per indegnità morale con un terribile
comunicato pubblicato su l’Unità:
Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un
grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare
ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e
filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decantati poeti e letterati,
che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più
deleteri aspetti della degenerazione borghese.
Nonostante
il grande dolore provato dal giovane Pasolini, decisa e puntuale sarà la sua
replica:
Non mi meraviglio della diabolica perfidia
democristiana; mi meraviglio invece della vostra disumanità; […] parlare di
deviazione ideologica è una cretineria. Malgrado
voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico della parola.[21]
Secondo
Roberto Roversi questa dolorosa esperienza va considerata «nodale» nella storia
di Pasolini.[22]
L’essere stato messo al bando della società civile, l’aver perso il lavoro,
l’essere stato espulso dal partito nel quale militava, l’aver sentito su di sé
la condanna e l’esclusione dalla sua classe di appartenenza, ha sicuramente
contribuito a farlo sentire particolarmente vicino al mondo del
sottoproletariato romano negli anni ‘50, al residuo mondo contadino
sopravvissuto nel Meridione d’Italia degli anni ‘60, e a tutti i “dannati della
terra” fino all’ultimo dei suoi giorni.
Francesco Virga
Riprendo da facebook il commento della Prof. Maria Vittoria Chiarelli dell'Università di Bari:
RispondiElimina"Bellissimo articolo che ripercorre con rigore storico la prima esperienza politica di Pasolini in Friuli nella Casarsa materna che coincide con la scrittura del dialetto contadino della parte destra del Tagliamento che assurge a letteratura e quindi strumento di conoscenza e di lotta contro l'egemonia della cultura centralizzata nazional - borghese"
Ringrazio sentitamente Maria Vittoria che - complimenti a parte - ha saputo cogliere in una battuta lo spirito che ha animato il giovane Pasolini.
RispondiEliminaMi complimento per la ricostruzione storica così accurata e dettagliata sì da dare un’idea quanto mai esaustiva degli anni giovanili di Pasolini, quelli delle prime riflessioni sulla lingua friulana che coincisero con l’apprendistato politico che lo portò ad aderire al partito comunista dal quale fu estromesso nel modo più vile e pretestuoso.
RispondiEliminaGrazie Loretta!
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