Una storia “ dal
basso” della lingua italiana.
Paolo Di Stefano
Italiano, la lingua di mezzo
La storia della lingua italiana, di solito, viene raccontata come la persistenza di una polarità tra lingua scritta, colta, letteraria da una parte e ricca varietà orale di dialetti dall’altra. Per un grande studioso come Carlo Dionisotti la letteratura è stata «il più forte elemento unitario»: l’italiano sarebbe stato per secoli una lingua, unicamente scritta e posseduta da pochi, pressoché impermeabile alla «selva» degli idiomi locali. Secondo l’idea più diffusa, l’avvenuta unificazione politica non era ancora unificazione linguistica, cui avrebbero contribuito numerosi fenomeni, tra cui la scolarizzazione, la crescita dell’industria e la conseguente migrazione interna, la diffusione della stampa e infine la forza attrattiva della televisione. È la tesi di tanti, tra cui Tullio De Mauro. Ma da qualche tempo si fa strada un’idea diversa, più sfumata e meno bipolare.
L’italiano nascosto , il nuovo libro di Enrico Testa (Einaudi) interpreta questa visione nuova e la illustra con l’avallo di numerosi documenti, alcuni dei quali rari o inediti. «Il libro — dice Testa, docente di Storia della lingua all’Università di Genova, oltre che poeta di valore — propone un’interpretazione delle vicende dell’italiano completamente diversa da quella canonica che vedeva in epoca preunitaria una bipartizione tra letterati e rozzi parlanti dialettali. È impossibile non pensare che esistesse, nel corso dei secoli, una lingua intermedia d’uso pratico che permettesse una comunicazione tra scriventi e parlanti di luoghi e strati sociali differenti».
È ciò che sosteneva Ugo
Foscolo quando ipotizzava l’esistenza di una lingua comune,
«corrente e vivissima in tutte le provincie intesa da Torino sino a
Napoli, scorretta, deforme, ed era anche un po’ letteraria»: una
«lingua d’espediente», suggerita dai bisogni primari quotidiani,
«diversa in tutto da’ dialetti provinciali e municipali, e che
serba alcune qualità bastarde di tutti». Insomma, un terzo polo: un
italiano capace di stabilire contatti e scambi orizzontali tra le
regioni e verticali tra i livelli sociali. Di questa varietà di
mezzo, che Tommaso Landolfi chiamò «italiano pidocchiale», Testa
va alla ricerca risalendo al Cinquecento.
«È un italiano che per secoli ha una forte resistenza: ci sono alcune strutture-base di lunga durata che corrono come un filo nascosto e risalgono alla prosa del Duecento». Urgenza comunicativa e «passione di dirsi», secondo la definizione di Claude Hagège, spingono anche la grande massa dei semicolti, né analfabeti totali né arcadi, a prendere in mano la penna. Ai semicolti si deve quell’opera di messa di commistione tra oralità e scrittura che produce una lingua a metà strada tra l’italiano normativo e il dialetto. «È interessante chiedersi come si rivolgevano i semicolti alle autorità per superare la distanza intellettuale e fisica. Impossibile pensare a una netta paratia che divida la letteratura alta e le classi popolari. Abbiamo testimonianze di ciabattini che recitano Dante e di gondolieri che cantano le arie di Metastasio…».
Si aprono altri
interrogativi, socioculturali: «Che letture facevano i semicolti per
impadronirsi di quel minimo di italiano utile alla comunicazione
pratica e su che libri soddisfacevano le loro esigenze intellettuali
e artistiche?». Con l’espressione «libri per leggere» si
definiscono quelle opere, per lo più di paraletteratura, molto
diffuse a livello popolare (equivalenti ai tanti titoli che oggi
affollano le classifiche): libri devozionali, romanzi d’avventura,
d’armi e d’amore, cronache, leggende, libri di viaggio eccetera.
Testa ricorda la lista di undici titoli in volgare fornita dal
mugnaio friulano Menocchio durante il processo che nel 1601 gli costò
la condanna a morte per eresia: dal Decameron non purgato al Fioretto
della Bibbia . Lo studio di Testa chiama a raccolta streghe e
servitori, mezzadri, pescivendoli, mercanti, parroci, catechisti,
maestri di strada, briganti e soldati, monaci: personaggi che portano
alla penna (e probabilmente sulle labbra) un italiano capace di farsi
capire ovunque ben prima che comparisse sulla scena Mike Bongiorno,
assunto troppo spesso come fascinoso tramite dell’italianizzazione,
con il maestro Manzi e le canzoni di Sanremo.
«D’altra parte — continua Testa — che strumenti linguistici usavano, per esempio, le autorità religiose per trasmettere princìpi e ammaestramenti ai semplici?». È emblematica la figura di Alfonso Maria de Liguori, fondatore, nel Settecento, dell’ordine dei Redentoristi nel Regno di Napoli, i cui «brevi avvertimenti» e schemi predicatòriȋ erano destinati all’apprendimento dell’italiano dei suoi allievi, con l’invito a mitigare gli eccessi retorici della lingua della predica, adottando moduli più semplici e sintatticamente franti in direzione comunicativa. E i grandi letterati, i prìncipi della cultura classicistica, i notai, gli avvocati, i religiosi come si rivolgevano ai loro servitori? Un esempio è quello di Baldassar Castiglione, esponente autorevole della diplomazia tra Chiesa, Mantova e Urbino in epoca rinascimentale.
Guardando al retroscena
del laboratorio di scrittura privato, per esempio nelle lettere di
carattere più domestico e familiare, si nota lo sforzo di
adattamento al livello linguistico del destinatario. Quando scrive al
suo fattore, il rustico Cristoforo Tirabosco, il Castiglione mostra
di presupporre un terreno comune di comprensione e una competenza
almeno passiva dell’interlocutore. Una dinamica analoga a quella
che legava Vittorio Alfieri con il suo fedele servitore Francesco
Elia, autore di un gruppetto di lettere che dimostrano una discreta
familiarità con la scrittura, oltre a una «intelligente perspicacia
e sottilissima avvedutezza», come segnalò Lanfranco Caretti.
«È difficile pensare — dice Testa — che questo tipo di lingua non venisse utilizzato anche oralmente, quando si incontravano tra loro personaggi di diversa estrazione culturale o di diversa provenienza geografica. Il caso più clamoroso è quello dei frati itineranti o dei maestri irregolari che, pur conoscendo un solo dialetto, riuscivano a stabilire contatti con uditori linguisticamente distanti o si muovevano per insegnare l’abaco e i rudimenti della lingua».
La dimensione orale
rimane comunque necessariamente più oscura. «Per l'oralità, non
avendo documentazione, è chiaro che dobbiamo affidarci a una sorta
di procedimento indiziario, ma si può facilmente immaginare un
panorama analogo a quello della lingua scritta. L’italiano
”pidocchiale” o d’espediente ha sempre una forte componente
locale, soprattutto sul piano fonetico e lessicale, però al di sotto
si scopre una condivisione sintattica e morfologica e una resistente
continuità diacronica».
Ci sono luoghi deputati
in cui questo italiano «pidocchiale» viene coltivato più che
altrove: officine, laboratori, botteghe, confraternite che
utilizzavano l’italiano per statuti e verbali, monasteri femminili
in cui le pratiche religiose si sposavano con l’apprendimento della
lingua. «Paradossalmente, — ricorda Testa — persino il
brigantaggio nell’Ottocento ha finito per diffondere l’italiano,
perché anche per scrivere le lettere di riscatto a un ricco
possidente bisognava farsi capire».
Il Corriere della Sera 26
gennaio 2014
Enrico Testa
L’italiano nascosto.
Una storia linguistica e culturale
Einaudi, 2014
€ 20
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