Si
parte dalle case, le piazze, i bar di Lisbona frequentati da Pessoa,
per addentrarsi verso il centro del paese lambito dalle onde più
alte del mondo, fino al «turismo rural» dell’Alentejo
Luciano Del Sette
In Portogallo d’aprile tra poesia e surf
Recita un proverbio
portoghese ‘Em abril águas mil’, ad aprile, acqua
a mille. E questo viaggio di aprile non
smentisce la metereologia popolare. La
pioggia, a Lisbona, confonde la superficie
lastricata del Terreiro do Paço con quella liquida del
Tago. La pioggia combatte con il sole a Peniche,
nel Centro della terra lusitana. La pioggia minaccia,
ma senza veri risultati, il cielo dell’Alto Alentejo.
Forse pioveva anche quel mattino di aprile del 1934, quando
le saracinesche della libreria ed editrice
Parceria A.M. Pereira, rua Agusta 44/54, Lisbona, si
alzarono. Forse pioveva, il 25 aprile 1974, a Lisbona
e sul carcere politico di Peniche. Forse, lo
stesso giorno dello stesso anno, la pioggia minacciava, ma
senza veri risultati, il cielo dell’Alto Alentejo. Una
cosa è certa, però. La pioggia non può cancellare
il ricordo. Che si fa ancora più forte quando coincide con
i decenni di un secolo. Succede, nel 2014, in Portogallo.
Ottant’anni fa, Fernando Pessoa consegnava alla
Parceria A.M. Pereira il poema Mensagem,
unica sua opera in portoghese pubblicata non
postuma.
Quarant’anni fa, alle
0,20 del 25 aprile iniziava la Rivoluzione dei
Garofani. Il programma ‘Limite’, sull’emittente
cattolica Radio Renascença, mandava in
ondaGrândola vila morena “Grândola, città dei
Mori/ terra di fratellanza/ è il popolo che più comanda/
dentro di te, o città”. Il brano di José Afonso era
stato proibito per la dedica alla Sociedade Musical
Fraternidade Operária Grandolense,
e conseguente sospetto di comunismo. Grândola era
il segnale. Cominciava il golpe democratico dello MFA
(Movimento das Forças Armadas) contro il governo di
Marcelo Cateano, al potere dopo la morte di Salazar nel
1970. Questione di poche ore, e le celle dei detenuti
politici nella fortezza carcere di Peniche si
aprirono, restituendo la libertà a centinaia
di uomini. La notizia del ritorno alla democrazia
arrivò anche nei campi dell’Alentejo dimenticato
e poverissimo. Lì, un anno dopo, nasceranno le
lotte per la Riforma Agraria.
La pioggia, si
diceva, non può cancellare il ricordo. Non riesce
a farlo neppure la situazione economica di
un Paese dove l’IVA sul commercio è al 23%,
i negozi chiudono, le voci in strada ironizzano
“La notizia del giorno, ogni giorno, è un aumento delle
tasse”, i salari minimi sono minimi davvero, la
disoccupazione giovanile si aggira intorno
al 27%, la fuga verso le ex colonie (Angola, Brasile,
Mozambico) per cercare un lavoro a condizioni
decisamente più vantaggiose somiglia a un
esodo. Lo spiraglio aperto due settimane fa
dall’agenzia di rating Finch, che ha alzato il giudizio
sul Portogallo da negativo a positivo, non
è ancora abbastanza largo da suscitare ottimismo.
Ma, ed è la cosa che più colpisce, a Lisbona
e lontano da Lisbona ci si lamenta senza piangere
troppo; a Lisbona e lontano da Lisbona sembrano
aleggiare la speranza e la ricerca di una via
d’uscita. Non nascono dalle decisioni dei palazzi del governo.
Ma dalle idee e dalle iniziative della gente. Quella
della capitale, delle città del Centro, dell’Alto
Alentejo. Gente che incontri mettendoti in
cammino per costruire, grazie alle memorie della
Rivoluzione, al rifiuto ribelle di un uomo per gli schemi,
ai racconti della nuova Resistenza, un inaspettato
detour.
Nel 2000, la regista
Maria de Medeiros realizzò il film Capitaes de
abril, Capitani di aprile, che ricostruiva i giorni
dei garofani a Lisbona. Protagonista,
nel ruolo del capitano Salgueiro Maia, Stefano
Accorsi. Una delle scene madre si svolge in rua do Arsenal, tra
il Terreiro e la piazza del Municipio. Sono le
9 e 35 del 25 aprile. Alcuni carri armati, al comando del
brigadiere Junqueira dos Reis, fronteggiano
i militari ribelli. Un centinaio di metri separa
i due schieramenti. Dos Reis ordina di sparare
a Maia, venuto a trattare la resa. Ma i soldati,
ufficiali in testa, si rifiutano e passano
dall’altra parte.
Oggi, nello stesso
tratto, in un edificio di pregio, si svolge ad aprile
Peixe em Lisboa. Il patio accoglie tavoli apparecchiati
e illuminati da abatjour, cui ci si
accomoda dopo aver scelto antipasti, primi, secondi
e un calice di vino tra i menu dei migliori ristoranti
ittici della capitale: 5 e 8 euro per mangiare,
un euro e 50 per un bicchiere di vino. Gli spazi della
galleria ospitano i produttori
artigianali in tema di pesce, pasticceria,
enologia. La gente risponde al richiamo, così come affolla
ogni sera uno spazio industriale recuperato, la
LX Factory, Rua Rodrigues de Faria 103, Alcantara.
Sotto le ciminiere e dentro i fabbricati
in mattone di un’area di 23mila metri quadri che fu sede,
a partire dal 1846, della Companhia de
Fiação e Tecidos Lisbonense, della Companhia
Industrial de Portugal e Colónias, della
tipografia Anuário Comercial de Portugal
e Gráfica Mirandela, sono nati laboratori
di design e attività creative, librerie,
ristoranti, bar e caffè.
Un fitto calendario
di eventi ha fatto della LX Factory un polo culturale
con pochi rivali in Europa. Lo scorso anno, sotto i portici
del Terreiro do Paço, ha aperto i battenti il Lisboa
Story, percorso multimediale nella storia
della città, dalle origini a oggi. Un’ora di visita con
audioguida per scoprire leggende e storie
della capitale. Il turista, insieme ai residenti,
scolaresche in testa, si mette in fila per entrare.
Nessuna fila, invece, davanti ai luoghi che hanno visto
attorcigliarsi in tanti nodi la vita breve di Fernando
Pessoa. Nessuna fila davanti agli edifici dove era
nato, aveva lavorato, bevuto fino a condannarsi
a morte.
Molti di questi
luoghi e di questi edifici sono spariti. Al
loro posto, negozi di abbigliamento, profumerie,
studi legali. Quel che è rimasto non ha niente di
spettacolare. A volte è un portone con
un numero slavato, altre una semplice fila di finestre
al primo o al secondo piano. Migliaia di pessoas, persone,
passeggiano per rua do Comercio, rua Victoria,
rua Augusta, rua da Prata, ignorando che proprio lì
Fernando ha vissuto, sofferto, pensato,
scritto. Mensagem, 44 poesie, è diviso in
tre parti: la nascita, lo splendore, la decadenza e la
resurrezione del Portogallo. Zeppo di
riferimenti esoterici, attraversato da
accenti acuti di nazionalismo e da scure
malinconie, il poema esprime versi magnifici, specie
nella seconda parte. Recita Mar Portuguez “O
mare salato/ quanto del tuo sale/ sono lacrime del Portogallo/Perché
ti solcassimo/ quante madri han pianto/ quanti figli invano hanno
pregato/ quante spose non hanno sposato/ perché tu fossi
nostro, oh mare”.
Ci vogliono buone gambe
e occhi attenti per incontrare Pessoa. La casa dove
nacque, il 13 giugno 1888, è in Largo do São Carlos
44, davanti al teatro che il padre, funzionario
del Ministero della Giustizia, frequentava
nelle vesti di critico musicale per il Diario de
Noticias. Sotto un lampione dell’edificio, una targa
a ricordo. Si sale verso il Chiado, ignorando
A Brasileira, uno dei caffè frequentati da
Fernando. La sua statua, fra i tavolini, richiama
frotte di turisti e i prezzi sono lievitati. Dopo
la morte del marito, nel luglio 1893, la madre, Maria Magdalena,
trasloca in rua de São Marcal 104. Le seconde nozze con
João Miguel Rosa, console portoghese a Durban,
portano al trasferimento della famiglia in
Sud Africa. Pessoa tornerà a Lisbona nel 1905.
Dopo un paio di anni tra
Rua de São Bento 19, in casa della zia Anica, e Calçada da
Estrela 100, dalla zia Maria Clara, l’elenco degli appartamenti
e delle stanze in affitto diventerà lunghissimo.
Con il rientro nella capitale della madre e dei
fratelli, rua Coelho da Rocha 16 sarà l’ultimo
indirizzo. Dal 1920 fino alla morte, Fernando vivrà lì,
al primo piano di un palazzo oggi museo a lui intitolato.
La facciata di Casa Pessoa è ricoperta di
scritte che riproducono versi, brani, aforismi,
tratti dalle opere del poeta. Il 29 di novembre 1935, dentro
un letto dell’ospedale di São Luís dos Franceses, in
rua Luz Soriano 182, rantola un uomo distrutto dall’alcol. Il
giorno dopo, quel rantolo si spegnerà.
Le spoglie di
Fernando riposeranno nel Cemitério dos
Prazeres, in rua Direita 4371, per mezzo secolo, prima di
venir trasferite al Monastero dos Jerónimos.
Esili sono i fili della memoria del poeta che lavorava
come traduttore per imprese di import export: la Lda
Palmares, Almeida & Silva, dove scrisse,
usando l’eteronimo di Bernardo Soares, alcuni brani
del Livro do Desassossego (Il libro
dell’inquietudine), in rua dos Fanqueiros 44, primo
piano; la Casa Serras Importação, rua Augusta 228.
Alla Félix, Valladas & Freitas, rua da
Assunção 42, secondo piano, dove conobbe nel 1919 Ophelia
Queiroz, unica donna della sua vita. Ebbe anche un ufficio
personale, soltanto per scrivere. Le finestre,
al primo piano, sono quelle del 52 di rua São Julião.
Il Pessoa del vino
e dell’assenzio aleggia tra i saloni d’epoca di
Martinho da Arcada, un tempo Cafè da Arcada, al 3 del
Terreiro do Paço. Le foto del cliente abituale che entrava
cappello in testa e soprabito, occupano le pareti
insieme a dediche, fogli scritti, dipinti. Martinho
è oggi un ristorante tanto bello quanto costoso. Gli altri
caffè sono spariti sotto i colpi di rifacimenti
e distruzioni edilizie. Si chiamavano
Royal, Gibraltar, Montahna. Stesso copione per
i ristoranti, con l’eccezione dell’Antica Casa Pessoa.
Un tavolo, per chi portava lo stesso nome del locale ma non
aveva un soldo in tasca, c’era sempre. L’Antica Casa, in rua
dos Douradores 190, è rimasta più o meno
la stessa: azulejos alle pareti, tavoli semplici,
camerieri dal passo pesante, porzioni ciclopiche,
conto di altri tempi.
La nuova Resistenza
e la Rivoluzione hanno ulteriori riferimenti
geografici sulla mappa del Portogallo centrale.
Due i nomi, Obidos e Peniche, in mezzo ai quali
ci sono tappe meravigliose. Basterà citare i monasteri
di Batalha e Alcobaça, patrimonio Unesco.
Il primo, domenicano e gotico, vide la nascita
dell’architettura manuelina; il secondo, cistercense
e medievale, fu colossale ex voto di Afonso
Henriques, sovrano portoghese numero uno. Qui la
storia antica di guerre, di astute alleanze tra potere
temporale e spirituale, di re e regine
che volevano imprimere il segno del loro passaggio
terreno, ha lasciato opere d’arte, chiostri di marmo
e pietra, portali scolpiti con statue
e simboli, pantheon celebrativi e pantheon
incompiuti come quello di Batalha. Le sue arcate hanno il
cielo per soffitto.
E non va dimenticato
Nazaré, paese di pescatori con le case che, dalla profonda
spiaggia di fronte all’Oceano, paradiso dei surfer
di tutto il mondo, salgono arrampicandosi sulle
colline e danno spettacolo in cima al mirador,
il punto panoramico. Il Nazaré Canyon, lungo 200
chilometri, inabissa le sue acque a cinquemila
metri di profondità. José Pinho è comproprietario
di una delle più belle librerie di Lisbona, Ler Devagar,
in una ex tipografia della LX Factory. Deve essere
stato questo suo amore per i libri collocati
‘fuori luogo’ a fargli accettare la strana sfida
lanciatagli dal sindaco di Òbidos. Era il
2011. Pinho scopre, grazie a un’amica e collega,
che Òbidos vuol fare, della chiesa barocca e sconsacrata
di São Tiago, una libreria. Va sul posto, visita la chiesa in
restauro, però l’idea non gli sembra interessante.
Ma il baco della carta stampata lavora nella testa di Josè.
E lui ci ripensa.
A patto di creare un
progetto che trasformi la piccola e intatta città
murata in una Vila Literária. Librerie, ma anche
festival e rassegne capaci di richiamare
tutto il Portogallo. Sotto la pioggia di aprile 2014
segui il libraio ‘matto’ mentre ti accompagna
a visitare scaffali zeppi di volumi, che dividono
gli spazi con cassette di verdura e frutta, barattoli
di specialità artigianali, bottiglie
di olio. Qui c’era un mercato biologico. La
galleria novaOgiva accosta opere dipinte a opere
scritte, il Museo Abilio propone editoria d’arte,
la Galeria do Pelourinho sarà dedicata
a Fernando Pessoa. Nel 2016 circoleranno
a Òbidos circa duecentomila volumi in
undici, anomale, librerie. Ride, José «Duecentomila
libri per ottanta cittadini!».
Tanti, infatti, sono
coloro che risiedono nella parte storica del paese. Gli
altri vivono fuori, accanto ai vigneti. Scherza, José, e lo sa.
La sua idea sta dando frutti eccellenti. Il turismo
cresce, rassegne e festival attirano
pubblico non solo portoghese. L’ultimo
appuntamento, dopo un bicchiere di ginjinha,
il liquore nazionale di ciliegie, è São Tiago. Sugli
altari e sotto i pulpiti, lungo le scalinate
e nelle nicchie, si pratica il culto del libro in ogni
sua forma e dimensione. Il frusciare delle pagine
somiglia a una preghiera laica, recitata
sottovoce. Pausa di cielo azzurro a Peniche. La
nuova Resistenza ha un suo convinto discepolo nel
sindaco Antonio José Correia, biglietto da visita due
scatole delle prelibate sardine della zona, che
mette sul tavolo delle riunioni del Centro de Alto
Rendimento de Surf prima di iniziare a spiegare
il Projeto Surge (Simple Underwater Renewable
Generation of Electricity), finanziato
dall’Unione Europea.
La Riserva Naturale
di Peniche è un ecosistema prezioso. Il
mare ‘produce’ le supertubos, onde perfette
per fare surf. Il Centro ospita campioni e appassionati
di questa pratica sportiva, ed è il quartier
generale del Projeto Surge, cui sta lavorando, dal
2009, un gruppo di esperti di dieci Paesi dell’Unione. Il tramite
tecnologico si chiama Waveroller, una placca
che viene depositata a una profondità di
15/20 metri e assorbe, trasformandolo in energia
elettrica, il moto ondoso. Il Waveroller non inquina,
non ha impatti sulla flora e la fauna acquatica, le sue
piccole dimensioni consentono di impiegare
un gran numero di placche. Quanta forza è in grado di
esprimere il mare di Peniche? La città è entrata nel
Guinness per l’onda più alta del mondo: 23 metri. La
seicentesca fortezza carcere è uno di
quei luoghi che, a raccontarne la storia ai
tempi di Salazar, si rischia di scivolare nella
retorica dettata dalla commozione. Due i suoi
colori. Il giallo distingue le strutture originali
da quelle, bianche, aggiunte per renderla prigione.
Tra il 1934 e il
1974, il Forte divenne l’inferno in cui sprofondare chi
si opponeva alla dittatura: intellettuali,
operai, contadini, studenti, impiegati,
politici. Il numero totale ammonta a poco meno di 2500, ma
è destinato a salire man mano che si rintracciano
altri nomi grazie a familiari ed amici. La visita
delle strutture evoca una dimensione di regole
persecutorie, di maltrattamenti
fisici come il cibo ignobile e psicologici
nell’osteggiare le visite dei parenti, che poi, lo si legge in
tanti verbali, venivano pedinati all’uscita. Tutto
questo lo racconta il museo, allestito con efficace
semplicità: pannelli fotografici,
documenti, oggetti e libri dei detenuti. Tra di loro
ci fu chi riuscì ad evadere. La fuga più famosa porta la
data del 3 gennaio 1960. Nove prigionieri, tra
i quali Alvaro Cunhal, figura di spicco del Partito
Comunista, aiutati da una guardia, si calarono
con una fune dalla sezione di massima sicurezza al livello
inferiore delle mura. Poi, sempre grazie a una
fune, riuscirono a scendere fino alla piazza
sottostante. Ad attenderli, due auto. L’evasione fu
un clamoroso smacco per il regime. Di fronte all’ingresso
del museo, una foto di Amalia Rodriguez e i versi
di Abandono, fado Peniche. Cantava Amalia
“Per il tuo libero pensiero/ sei stato a lungo prigioniero/
Così a lungo che il mio lamento/non riusciva
a raggiungerti”. La censura la mise a tacere.
Un’ora e mezza di
autostrada porta a Estremoz. Da lì, Vila Viçosa,
Monsaraz, Moura, Mertola, Beja, Alvito, Evora,
diventano un viaggio ‘ad anello’ attraverso il
silenzio e la solitudine delle provinciali.
L’Alto Alentejo ricorda la Toscana. Anche qui ci sono vigne
e colline, verde vivo di primavera, campi. Ma
l’accostamento tra le due regioni viene da farlo notando
l’attenzione dell’uomo verso la natura. Tra un paese e l’altro
niente capannoni, discariche a bordo strada,
caseggiati senza riguardo. Verde così, l’Alto Alentejo
lo è diventato dal 2002. Prima era siccità
tremenda; Portogallo mangiato dal sole, avaro nel
dare all’uomo di che sopravvivere, concedendolo
solo in cambio di enormi fatiche.
Era povertà, dominio
dei latifondi, rabbia impotente. La volontà di
riscatto si concretizzò nelle lotte per la Riforma
Agraria seguite alla Rivoluzione del ’74; la
rinascita della terra comincia nel 2002, con la chiusura
della diga di Alqueva e la creazione del Grande Lago
artificiale, 250 chilometri quadrati.
Non poche sono state le voci del dissenso contro la
sparizione sott’acqua dell’abitato di Aldeia da Luz
e di un castello romano, il taglio di un milione di alberi, gli
enormi costi resi ancor più pesanti dalla creazione di
trecento isole. Almeno per ora e per quello che si vede in
questo viaggio d’aprile, il temuto eccesso di turismo
nella zona sembra non dare segnali troppo preoccupanti.
Numerose e discrete le indicazioni di strutture
di turismo rural, garbati i negozi di souvenir
nei posti di maggior richiamo, senza compromessi
i laboratori storici di artigianato,
cortesi ma non ruffiani i camerieri dei
ristoranti e dei bar.
Ad ogni cartello
d’ingresso, l’Alto Alentejo alza il sipario su paesi di
poche migliaia di abitanti, mescolando le carte della
preistoria, dell’impero romano, della civiltà
araba, del cristianesimo prima e dopo la
Reconquista. E quando le mette sul tavolo, lo
straniero rimane incantato dalle rovine della villa
patrizia di São Cucufate, primo secolo dopo Cristo;
dagli innumerevoli castelli, distanti non più di
quaranta chilometri tra di loro perché
questa era il massimo percorribile da un
cavallo in un giorno; dalla cattedrale e dalle case di
Mertola, che al loro interno mostrano tracce evidenti delle
architetture moresche; dalle grandi piazze centrali,
sovente battezzate ‘da Republica’, chiuse in un
recinto barocco, liberty, rinascimentale, al centro
o in un angolo lo chafariz, la fontana; dal
placido flanare per vie e vicoli pavimentati
a ciottoli, incontrando le pareti di azulejos
affacciate sulle strade o nascoste nelle stanze di
chiese e dimore nobiliari.
Camminare senza
fretta vuol dire scoprire ad Alvito la sede del Grupo Coral de
Cantares Alentejanos, che nel disordine
degli arredi esibisce piatti appesi ai muri, dipinti con
scene di vita quotidiana e di feste. Oppure ritrovare
Rivoluzione e nuova Resistenza a Beja, nel
Museo Jorge Vieira guidato da Noémia Cruz, seconda moglie
dello scultore. Nato a Lisbona, ma legato all’Alentejo
dove visse dal 1982 al 1998, anno della sua morte. Vieira, pioniere
dell’astrattismo e del surrealismo, fu
emarginato dalla dittatura sia sotto il profilo
artistico che dell’insegnamento. Forse era bastato, per
decidere, il Monumento al prigioniero politico
ignoto, premiato al Concorso Internazionale
londinese di scultura nel 1953. La sua versione
definitiva annuncia dal 1994 l’ingresso alla
cittadina. La pioggia non può cancellare il
ricordo, e nemmeno la speranza. Adesso, dopo questo
viaggio portoghese di aprile, anche chi è straniero
lo sa.
il manifesto— 19 aprile2014
Nessun commento:
Posta un commento