03 maggio 2014

IN PORTOGALLO D'APRILE





Si parte dalle case, le piazze, i bar di Lisbona frequentati da Pessoa, per addentrarsi verso il centro del paese lambito dalle onde più alte del mondo, fino al «turismo rural» dell’Alentejo

Luciano Del Sette

In Portogallo d’aprile tra poesia e surf

Recita un pro­ver­bio por­to­ghese ‘Em abril águas mil’, ad aprile, acqua a mille. E que­sto viag­gio di aprile non smen­ti­sce la mete­reo­lo­gia popo­lare. La piog­gia, a Lisbona, con­fonde la super­fi­cie lastri­cata del Ter­reiro do Paço con quella liquida del Tago. La piog­gia com­batte con il sole a Peni­che, nel Cen­tro della terra lusi­tana. La piog­gia minac­cia, ma senza veri risul­tati, il cielo dell’Alto Alen­tejo. Forse pio­veva anche quel mat­tino di aprile del 1934, quando le sara­ci­ne­sche della libre­ria ed edi­trice Par­ce­ria A.M. Pereira, rua Agu­sta 44/54, Lisbona, si alza­rono. Forse pio­veva, il 25 aprile 1974, a Lisbona e sul car­cere poli­tico di Peni­che. Forse, lo stesso giorno dello stesso anno, la piog­gia minac­ciava, ma senza veri risul­tati, il cielo dell’Alto Alen­tejo. Una cosa è certa, però. La piog­gia non può can­cel­lare il ricordo. Che si fa ancora più forte quando coin­cide con i decenni di un secolo. Suc­cede, nel 2014, in Por­to­gallo. Ottant’anni fa, Fer­nando Pes­soa con­se­gnava alla Par­ce­ria A.M. Pereira il poema Men­sa­gem, unica sua opera in por­to­ghese pub­bli­cata non postuma.

Quarant’anni fa, alle 0,20 del 25 aprile ini­ziava la Rivo­lu­zione dei Garo­fani. Il pro­gramma ‘Limite’, sull’emittente cat­to­lica Radio Rena­sce­nça, man­dava in ondaGrân­dola vila morena “Grân­dola, città dei Mori/ terra di fratellanza/ è il popolo che più comanda/ den­tro di te, o città”. Il brano di José Afonso era stato proi­bito per la dedica alla Socie­dade Musi­cal Fra­ter­ni­dade Ope­rá­ria Gran­do­lense, e con­se­guente sospetto di comu­ni­smo. Grân­dola era il segnale. Comin­ciava il golpe demo­cra­tico dello MFA (Movi­mento das Forças Arma­das) con­tro il governo di Mar­celo Cateano, al potere dopo la morte di Sala­zar nel 1970. Que­stione di poche ore, e le celle dei dete­nuti poli­tici nella for­tezza car­cere di Peni­che si apri­rono, resti­tuendo la libertà a cen­ti­naia di uomini. La noti­zia del ritorno alla demo­cra­zia arrivò anche nei campi dell’Alentejo dimen­ti­cato e pove­ris­simo. Lì, un anno dopo, nasce­ranno le lotte per la Riforma Agraria.

La piog­gia, si diceva, non può can­cel­lare il ricordo. Non rie­sce a farlo nep­pure la situa­zione eco­no­mica di un Paese dove l’IVA sul com­mer­cio è al 23%, i negozi chiu­dono, le voci in strada iro­niz­zano “La noti­zia del giorno, ogni giorno, è un aumento delle tasse”, i salari minimi sono minimi dav­vero, la disoc­cu­pa­zione gio­va­nile si aggira intorno al 27%, la fuga verso le ex colo­nie (Angola, Bra­sile, Mozam­bico) per cer­care un lavoro a con­di­zioni deci­sa­mente più van­tag­giose somi­glia a un esodo. Lo spi­ra­glio aperto due set­ti­mane fa dall’agenzia di rating Finch, che ha alzato il giu­di­zio sul Por­to­gallo da nega­tivo a posi­tivo, non è ancora abba­stanza largo da susci­tare otti­mi­smo. Ma, ed è la cosa che più col­pi­sce, a Lisbona e lon­tano da Lisbona ci si lamenta senza pian­gere troppo; a Lisbona e lon­tano da Lisbona sem­brano aleg­giare la spe­ranza e la ricerca di una via d’uscita. Non nascono dalle deci­sioni dei palazzi del governo. Ma dalle idee e dalle ini­zia­tive della gente. Quella della capi­tale, delle città del Cen­tro, dell’Alto Alen­tejo. Gente che incon­tri met­ten­doti in cam­mino per costruire, gra­zie alle memo­rie della Rivo­lu­zione, al rifiuto ribelle di un uomo per gli schemi, ai rac­conti della nuova Resi­stenza, un ina­spet­tato detour.

Nel 2000, la regi­sta Maria de Medei­ros rea­lizzò il film Capi­taes de abril, Capi­tani di aprile, che rico­struiva i giorni dei garo­fani a Lisbona. Pro­ta­go­ni­sta, nel ruolo del capi­tano Sal­gueiro Maia, Ste­fano Accorsi. Una delle scene madre si svolge in rua do Arse­nal, tra il Ter­reiro e la piazza del Muni­ci­pio. Sono le 9 e 35 del 25 aprile. Alcuni carri armati, al comando del bri­ga­diere Jun­queira dos Reis, fron­teg­giano i mili­tari ribelli. Un cen­ti­naio di metri separa i due schie­ra­menti. Dos Reis ordina di spa­rare a Maia, venuto a trat­tare la resa. Ma i sol­dati, uffi­ciali in testa, si rifiu­tano e pas­sano dall’altra parte.

Oggi, nello stesso tratto, in un edi­fi­cio di pre­gio, si svolge ad aprile Peixe em Lisboa. Il patio acco­glie tavoli appa­rec­chiati e illu­mi­nati da aba­t­jour, cui ci si acco­moda dopo aver scelto anti­pa­sti, primi, secondi e un calice di vino tra i menu dei migliori risto­ranti ittici della capi­tale: 5 e 8 euro per man­giare, un euro e 50 per un bic­chiere di vino. Gli spazi della gal­le­ria ospi­tano i pro­dut­tori arti­gia­nali in tema di pesce, pastic­ce­ria, eno­lo­gia. La gente risponde al richiamo, così come affolla ogni sera uno spa­zio indu­striale recu­pe­rato, la LX Fac­tory, Rua Rodri­gues de Faria 103, Alcan­tara. Sotto le cimi­niere e den­tro i fab­bri­cati in mat­tone di un’area di 23mila metri qua­dri che fu sede, a par­tire dal 1846, della Com­pa­n­hia de Fiação e Teci­dos Lisbo­nense, della Com­pa­n­hia Indu­strial de Por­tu­gal e Coló­nias, della tipo­gra­fia Anuá­rio Comer­cial de Por­tu­gal e Grá­fica Miran­dela, sono nati labo­ra­tori di design e atti­vità crea­tive, libre­rie, risto­ranti, bar e caffè.

Un fitto calen­da­rio di eventi ha fatto della LX Fac­tory un polo cul­tu­rale con pochi rivali in Europa. Lo scorso anno, sotto i por­tici del Ter­reiro do Paço, ha aperto i bat­tenti il Lisboa Story, per­corso mul­ti­me­diale nella sto­ria della città, dalle ori­gini a oggi. Un’ora di visita con audio­guida per sco­prire leg­gende e sto­rie della capi­tale. Il turi­sta, insieme ai resi­denti, sco­la­re­sche in testa, si mette in fila per entrare. Nes­suna fila, invece, davanti ai luo­ghi che hanno visto attor­ci­gliarsi in tanti nodi la vita breve di Fer­nando Pes­soa. Nes­suna fila davanti agli edi­fici dove era nato, aveva lavo­rato, bevuto fino a con­dan­narsi a morte.

Molti di que­sti luo­ghi e di que­sti edi­fici sono spa­riti. Al loro posto, negozi di abbi­glia­mento, pro­fu­me­rie, studi legali. Quel che è rima­sto non ha niente di spet­ta­co­lare. A volte è un por­tone con un numero sla­vato, altre una sem­plice fila di fine­stre al primo o al secondo piano. Migliaia di pes­soas, per­sone, pas­seg­giano per rua do Comer­cio, rua Vic­to­ria, rua Augu­sta, rua da Prata, igno­rando che pro­prio lì Fer­nando ha vis­suto, sof­ferto, pen­sato, scritto. Men­sa­gem, 44 poe­sie, è diviso in tre parti: la nascita, lo splen­dore, la deca­denza e la resur­re­zione del Por­to­gallo. Zeppo di rife­ri­menti eso­te­rici, attra­ver­sato da accenti acuti di nazio­na­li­smo e da scure malin­co­nie, il poema esprime versi magni­fici, spe­cie nella seconda parte. Recita Mar Por­tu­guez “O mare salato/ quanto del tuo sale/ sono lacrime del Portogallo/Perché ti solcassimo/ quante madri han pianto/ quanti figli invano hanno pregato/ quante spose non hanno sposato/ per­ché tu fossi nostro, oh mare”.

Ci vogliono buone gambe e occhi attenti per incon­trare Pes­soa. La casa dove nac­que, il 13 giu­gno 1888, è in Largo do São Car­los 44, davanti al tea­tro che il padre, fun­zio­na­rio del Mini­stero della Giu­sti­zia, fre­quen­tava nelle vesti di cri­tico musi­cale per il Dia­rio de Noti­cias. Sotto un lam­pione dell’edificio, una targa a ricordo. Si sale verso il Chiado, igno­rando A Bra­si­leira, uno dei caffè fre­quen­tati da Fer­nando. La sua sta­tua, fra i tavo­lini, richiama frotte di turi­sti e i prezzi sono lie­vi­tati. Dopo la morte del marito, nel luglio 1893, la madre, Maria Mag­da­lena, tra­sloca in rua de São Mar­cal 104. Le seconde nozze con João Miguel Rosa, con­sole por­to­ghese a Dur­ban, por­tano al tra­sfe­ri­mento della fami­glia in Sud Africa. Pes­soa tor­nerà a Lisbona nel 1905.

Dopo un paio di anni tra Rua de São Bento 19, in casa della zia Anica, e Calçada da Estrela 100, dalla zia Maria Clara, l’elenco degli appar­ta­menti e delle stanze in affitto diven­terà lun­ghis­simo. Con il rien­tro nella capi­tale della madre e dei fra­telli, rua Coe­lho da Rocha 16 sarà l’ultimo indi­rizzo. Dal 1920 fino alla morte, Fer­nando vivrà lì, al primo piano di un palazzo oggi museo a lui inti­to­lato. La fac­ciata di Casa Pes­soa è rico­perta di scritte che ripro­du­cono versi, brani, afo­ri­smi, tratti dalle opere del poeta. Il 29 di novem­bre 1935, den­tro un letto dell’ospedale di São Luís dos Fran­ce­ses, in rua Luz Soriano 182, ran­tola un uomo distrutto dall’alcol. Il giorno dopo, quel ran­tolo si spegnerà.

Le spo­glie di Fer­nando ripo­se­ranno nel Cemi­té­rio dos Pra­ze­res, in rua Direita 4371, per mezzo secolo, prima di venir tra­sfe­rite al Mona­stero dos Jeró­ni­mos. Esili sono i fili della memo­ria del poeta che lavo­rava come tra­dut­tore per imprese di import export: la Lda Pal­ma­res, Almeida & Silva, dove scrisse, usando l’eteronimo di Ber­nardo Soa­res, alcuni brani del Livro do Desas­sos­sego (Il libro dell’inquietudine), in rua dos Fan­quei­ros 44, primo piano; la Casa Ser­ras Impor­tação, rua Augu­sta 228. Alla Félix, Val­la­das & Frei­tas, rua da Assu­nção 42, secondo piano, dove conobbe nel 1919 Ophe­lia Quei­roz, unica donna della sua vita. Ebbe anche un uffi­cio per­so­nale, sol­tanto per scri­vere. Le fine­stre, al primo piano, sono quelle del 52 di rua São Julião.

Il Pes­soa del vino e dell’assenzio aleg­gia tra i saloni d’epoca di Mar­ti­nho da Arcada, un tempo Cafè da Arcada, al 3 del Ter­reiro do Paço. Le foto del cliente abi­tuale che entrava cap­pello in testa e sopra­bito, occu­pano le pareti insieme a dedi­che, fogli scritti, dipinti. Mar­ti­nho è oggi un risto­rante tanto bello quanto costoso. Gli altri caffè sono spa­riti sotto i colpi di rifa­ci­menti e distru­zioni edi­li­zie. Si chia­ma­vano Royal, Gibral­tar, Mon­tahna. Stesso copione per i risto­ranti, con l’eccezione dell’Antica Casa Pes­soa. Un tavolo, per chi por­tava lo stesso nome del locale ma non aveva un soldo in tasca, c’era sem­pre. L’Antica Casa, in rua dos Dou­ra­do­res 190, è rima­sta più o meno la stessa: azu­le­jos alle pareti, tavoli sem­plici, came­rieri dal passo pesante, por­zioni ciclo­pi­che, conto di altri tempi.

La nuova Resi­stenza e la Rivo­lu­zione hanno ulte­riori rife­ri­menti geo­gra­fici sulla mappa del Por­to­gallo cen­trale. Due i nomi, Obi­dos e Peni­che, in mezzo ai quali ci sono tappe mera­vi­gliose. Basterà citare i mona­steri di Bata­lha e Alco­baça, patri­mo­nio Une­sco. Il primo, dome­ni­cano e gotico, vide la nascita dell’architettura manue­lina; il secondo, cister­cense e medie­vale, fu colos­sale ex voto di Afonso Hen­ri­ques, sovrano por­to­ghese numero uno. Qui la sto­ria antica di guerre, di astute alleanze tra potere tem­po­rale e spi­ri­tuale, di re e regine che vole­vano impri­mere il segno del loro pas­sag­gio ter­reno, ha lasciato opere d’arte, chio­stri di marmo e pie­tra, por­tali scol­piti con sta­tue e sim­boli, pan­theon cele­bra­tivi e pan­theon incom­piuti come quello di Bata­lha. Le sue arcate hanno il cielo per soffitto.

E non va dimen­ti­cato Nazaré, paese di pesca­tori con le case che, dalla pro­fonda spiag­gia di fronte all’Oceano, para­diso dei sur­fer di tutto il mondo, sal­gono arram­pi­can­dosi sulle col­line e danno spet­ta­colo in cima al mira­dor, il punto pano­ra­mico. Il Nazaré Canyon, lungo 200 chi­lo­me­tri, ina­bissa le sue acque a cin­que­mila metri di pro­fon­dità. José Pinho è com­pro­prie­ta­rio di una delle più belle libre­rie di Lisbona, Ler Deva­gar, in una ex tipo­gra­fia della LX Fac­tory. Deve essere stato que­sto suo amore per i libri col­lo­cati ‘fuori luogo’ a far­gli accet­tare la strana sfida lan­cia­ta­gli dal sin­daco di Òbi­dos. Era il 2011. Pinho sco­pre, gra­zie a un’amica e col­lega, che Òbi­dos vuol fare, della chiesa barocca e scon­sa­crata di São Tiago, una libre­ria. Va sul posto, visita la chiesa in restauro, però l’idea non gli sem­bra inte­res­sante. Ma il baco della carta stam­pata lavora nella testa di Josè. E lui ci ripensa.

A patto di creare un pro­getto che tra­sformi la pic­cola e intatta città murata in una Vila Lite­rá­ria. Libre­rie, ma anche festi­val e ras­se­gne capaci di richia­mare tutto il Por­to­gallo. Sotto la piog­gia di aprile 2014 segui il libraio ‘matto’ men­tre ti accom­pa­gna a visi­tare scaf­fali zeppi di volumi, che divi­dono gli spazi con cas­sette di ver­dura e frutta, barat­toli di spe­cia­lità arti­gia­nali, bot­ti­glie di olio. Qui c’era un mer­cato bio­lo­gico. La gal­le­ria novaO­giva acco­sta opere dipinte a opere scritte, il Museo Abi­lio pro­pone edi­to­ria d’arte, la Gale­ria do Pelou­ri­nho sarà dedi­cata a Fer­nando Pes­soa. Nel 2016 cir­co­le­ranno a Òbi­dos circa due­cen­to­mila volumi in undici, ano­male, libre­rie. Ride, José «Due­cen­to­mila libri per ottanta cittadini!».

Tanti, infatti, sono coloro che risie­dono nella parte sto­rica del paese. Gli altri vivono fuori, accanto ai vigneti. Scherza, José, e lo sa. La sua idea sta dando frutti eccel­lenti. Il turi­smo cre­sce, ras­se­gne e festi­val atti­rano pub­blico non solo por­to­ghese. L’ultimo appun­ta­mento, dopo un bic­chiere di gin­ji­nha, il liquore nazio­nale di cilie­gie, è São Tiago. Sugli altari e sotto i pul­piti, lungo le sca­li­nate e nelle nic­chie, si pra­tica il culto del libro in ogni sua forma e dimen­sione. Il fru­sciare delle pagine somi­glia a una pre­ghiera laica, reci­tata sot­to­voce. Pausa di cielo azzurro a Peni­che. La nuova Resi­stenza ha un suo con­vinto disce­polo nel sin­daco Anto­nio José Cor­reia, biglietto da visita due sca­tole delle pre­li­bate sar­dine della zona, che mette sul tavolo delle riu­nioni del Cen­tro de Alto Ren­di­mento de Surf prima di ini­ziare a spie­gare il Pro­jeto Surge (Sim­ple Under­wa­ter Renewa­ble Gene­ra­tion of Elec­tri­city), finan­ziato dall’Unione Europea.

La Riserva Natu­rale di Peni­che è un eco­si­stema pre­zioso. Il mare ‘pro­duce’ le super­tu­bos, onde per­fette per fare surf. Il Cen­tro ospita cam­pioni e appas­sio­nati di que­sta pra­tica spor­tiva, ed è il quar­tier gene­rale del Pro­jeto Surge, cui sta lavo­rando, dal 2009, un gruppo di esperti di dieci Paesi dell’Unione. Il tra­mite tec­no­lo­gico si chiama Wave­rol­ler, una placca che viene depo­si­tata a una pro­fon­dità di 15/20 metri e assorbe, tra­sfor­man­dolo in ener­gia elet­trica, il moto ondoso. Il Wave­rol­ler non inquina, non ha impatti sulla flora e la fauna acqua­tica, le sue pic­cole dimen­sioni con­sen­tono di impie­gare un gran numero di plac­che. Quanta forza è in grado di espri­mere il mare di Peni­che? La città è entrata nel Guin­ness per l’onda più alta del mondo: 23 metri. La sei­cen­te­sca for­tezza car­cere è uno di quei luo­ghi che, a rac­con­tarne la sto­ria ai tempi di Sala­zar, si rischia di sci­vo­lare nella reto­rica det­tata dalla com­mo­zione. Due i suoi colori. Il giallo distin­gue le strut­ture ori­gi­nali da quelle, bian­che, aggiunte per ren­derla prigione.

Tra il 1934 e il 1974, il Forte divenne l’inferno in cui spro­fon­dare chi si oppo­neva alla dit­ta­tura: intel­let­tuali, ope­rai, con­ta­dini, stu­denti, impie­gati, poli­tici. Il numero totale ammonta a poco meno di 2500, ma è desti­nato a salire man mano che si rin­trac­ciano altri nomi gra­zie a fami­liari ed amici. La visita delle strut­ture evoca una dimen­sione di regole per­se­cu­to­rie, di mal­trat­ta­menti fisici come il cibo igno­bile e psi­co­lo­gici nell’osteggiare le visite dei parenti, che poi, lo si legge in tanti ver­bali, veni­vano pedi­nati all’uscita. Tutto que­sto lo rac­conta il museo, alle­stito con effi­cace sem­pli­cità: pan­nelli foto­gra­fici, docu­menti, oggetti e libri dei dete­nuti. Tra di loro ci fu chi riu­scì ad eva­dere. La fuga più famosa porta la data del 3 gen­naio 1960. Nove pri­gio­nieri, tra i quali Alvaro Cun­hal, figura di spicco del Par­tito Comu­ni­sta, aiu­tati da una guar­dia, si cala­rono con una fune dalla sezione di mas­sima sicu­rezza al livello infe­riore delle mura. Poi, sem­pre gra­zie a una fune, riu­sci­rono a scen­dere fino alla piazza sot­to­stante. Ad atten­derli, due auto. L’evasione fu un cla­mo­roso smacco per il regime. Di fronte all’ingresso del museo, una foto di Ama­lia Rodri­guez e i versi di Aban­dono, fado Peni­che. Can­tava Ama­lia “Per il tuo libero pensiero/ sei stato a lungo prigioniero/ Così a lungo che il mio lamento/non riu­sciva a rag­giun­gerti”. La cen­sura la mise a tacere.

Un’ora e mezza di auto­strada porta a Estre­moz. Da lì, Vila Viçosa, Mon­sa­raz, Moura, Mer­tola, Beja, Alvito, Evora, diven­tano un viag­gio ‘ad anello’ attra­verso il silen­zio e la soli­tu­dine delle pro­vin­ciali. L’Alto Alen­tejo ricorda la Toscana. Anche qui ci sono vigne e col­line, verde vivo di pri­ma­vera, campi. Ma l’accostamento tra le due regioni viene da farlo notando l’attenzione dell’uomo verso la natura. Tra un paese e l’altro niente capan­noni, disca­ri­che a bordo strada, caseg­giati senza riguardo. Verde così, l’Alto Alen­tejo lo è diven­tato dal 2002. Prima era sic­cità tre­menda; Por­to­gallo man­giato dal sole, avaro nel dare all’uomo di che soprav­vi­vere, con­ce­den­dolo solo in cam­bio di enormi fatiche.

Era povertà, domi­nio dei lati­fondi, rab­bia impo­tente. La volontà di riscatto si con­cre­tizzò nelle lotte per la Riforma Agra­ria seguite alla Rivo­lu­zione del ’74; la rina­scita della terra comin­cia nel 2002, con la chiu­sura della diga di Alqueva e la crea­zione del Grande Lago arti­fi­ciale, 250 chi­lo­me­tri qua­drati. Non poche sono state le voci del dis­senso con­tro la spa­ri­zione sott’acqua dell’abitato di Aldeia da Luz e di un castello romano, il taglio di un milione di alberi, gli enormi costi resi ancor più pesanti dalla crea­zione di tre­cento isole. Almeno per ora e per quello che si vede in que­sto viag­gio d’aprile, il temuto eccesso di turi­smo nella zona sem­bra non dare segnali troppo pre­oc­cu­panti. Nume­rose e discrete le indi­ca­zioni di strut­ture di turi­smo rural, gar­bati i negozi di sou­ve­nir nei posti di mag­gior richiamo, senza com­pro­messi i labo­ra­tori sto­rici di arti­gia­nato, cor­tesi ma non ruf­fiani i came­rieri dei risto­ranti e dei bar.

Ad ogni car­tello d’ingresso, l’Alto Alen­tejo alza il sipa­rio su paesi di poche migliaia di abi­tanti, mesco­lando le carte della pre­i­sto­ria, dell’impero romano, della civiltà araba, del cri­stia­ne­simo prima e dopo la Recon­qui­sta. E quando le mette sul tavolo, lo stra­niero rimane incan­tato dalle rovine della villa patri­zia di São Cucu­fate, primo secolo dopo Cri­sto; dagli innu­me­re­voli castelli, distanti non più di qua­ranta chi­lo­me­tri tra di loro per­ché que­sta era il mas­simo per­cor­ri­bile da un cavallo in un giorno; dalla cat­te­drale e dalle case di Mer­tola, che al loro interno mostrano tracce evi­denti delle archi­tet­ture more­sche; dalle grandi piazze cen­trali, sovente bat­tez­zate ‘da Repu­blica’, chiuse in un recinto barocco, liberty, rina­sci­men­tale, al cen­tro o in un angolo lo cha­fa­riz, la fon­tana; dal pla­cido fla­nare per vie e vicoli pavi­men­tati a ciot­toli, incon­trando le pareti di azu­le­jos affac­ciate sulle strade o nasco­ste nelle stanze di chiese e dimore nobiliari.

Cam­mi­nare senza fretta vuol dire sco­prire ad Alvito la sede del Grupo Coral de Can­ta­res Alen­te­ja­nos, che nel disor­dine degli arredi esi­bi­sce piatti appesi ai muri, dipinti con scene di vita quo­ti­diana e di feste. Oppure ritro­vare Rivo­lu­zione e nuova Resi­stenza a Beja, nel Museo Jorge Vieira gui­dato da Noé­mia Cruz, seconda moglie dello scul­tore. Nato a Lisbona, ma legato all’Alentejo dove visse dal 1982 al 1998, anno della sua morte. Vieira, pio­niere dell’astrattismo e del sur­rea­li­smo, fu emar­gi­nato dalla dit­ta­tura sia sotto il pro­filo arti­stico che dell’insegnamento. Forse era bastato, per deci­dere, il Monu­mento al pri­gio­niero poli­tico ignoto, pre­miato al Con­corso Inter­na­zio­nale lon­di­nese di scul­tura nel 1953. La sua ver­sione defi­ni­tiva annun­cia dal 1994 l’ingresso alla cit­ta­dina. La piog­gia non può can­cel­lare il ricordo, e nem­meno la spe­ranza. Adesso, dopo que­sto viag­gio por­to­ghese di aprile, anche chi è stra­niero lo sa.



il manifesto— 19 aprile2014

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