06 febbraio 2014

CHE COSA E' UN CLASSICO?




Abbiamo più volte invitato i nostri lettori a riprendere in mano gli autori classici. Ma cos'è un classico? A questa domanda sono state date risposte diverse. Oggi ne proponiamo una trovata  sul sito

Guido Sacchi

Che cos’è un classico?


Prima di parlare dell’argomento di questa sera, che è l’Eneide di Virgilio, avevo pensato di fare un’introduzione, spero non molto lunga, a un problema teorico.
Abbiamo intitolato la serie dei nostri quattro incontri «Perché leggere i classici?», e allora è giusto porsi la domanda «che cos’è un classico»?
A questa domanda, noi, più o meno tutti, diamo una risposta intuitiva, empirica: tutti abbiamo qualcosa in mente quando parliamo di classico, ma dare una definizione è più complicato. Io direi che ci sono due criteri – ciò vale per la letteratura, ma varrebbe per le arti figurative, e per la musica altrettanto bene. Uno è il valore, il valore oggettivo per così dire; l’altro è la tradizione. Il classico è ciò che è bello, ciò che è bello in modo indiscutibile, ciò che è talmente bello che nessuno può dire che non sia bello; il classico è ciò che tutti ritengono tale, ciò che la storia ha decretato come importante, come vero, come fondamentale per un certo gruppo di persone. Se noi riflettessimo a cosa noi pensiamo quando pensiamo ai classici, andremmo sempre a finire a questi due criteri. Vi rendete subito conto che sono due criteri un po’ traballanti. O meglio: sono traballanti oggi, nel 2003, ma non lo sono stati per tremila anni. Perché?
Perché oggi, dopo due secoli e mezzo di riflessione filosofica, è molto difficile, se non impossibile, parlare di un bello oggettivo. Nel Medioevo tutti sapevano che la bellezza è un attributo di Dio: se io dico che il creato è bello, so che cosa significa questa affermazione; significa che il creato in qualche modo partecipa di quella caratteristica che è una caratteristica di Dio, e se è una caratteristica di Dio vuol dire che è oggettiva, che esiste; la bellezza è un fatto che esiste fuori di noi.
Oggi non è più così, e non tanto perché noi non crediamo più che la bellezza sia un attributo di Dio, ma perché i filosofi, Kant soprattutto, hanno dimostrato che non è così facile definire un oggetto come bello in modo indiscutibile. Il risultato, il contrario dell’oggettività, è la soggettività del giudizio: non esiste più un criterio per stabilire che cosa è bello per tutti. Qualcosa sarà bello per me e non lo sarà per gli altri. Oggi è possibile che qualcuno dica che la volta della Cappella Sistina non è bella, in altre epoche sarebbe stata un’affermazione semplicemente incomprensibile.
D’altra parte voi capite bene che i due criteri, cioè il valore oggettivo e la tradizione (cioè il fatto che il tempo ha consacrato queste opere, le ha rese intoccabili) tendono a coincidere. Che vuol dire? Vuol dire che quando noi pensiamo a una tradizione, a una serie di testi che sono importanti per la nostra storia, e ci chiediamo perché proprio questi testi sono importanti per noi, ci rispondiamo «perché sono belli, perché sono i testi più belli della nostra storia; questi testi stanno nella nostra tradizione perché sono i migliori, migliori per natura». Il criterio del valore e quello della tradizione finiscono col fondersi: se cade l’uno, fatalmente si porta dietro anche l’altro.
Il criterio della tradizione è stato molto criticato soprattutto in epoca più recente. È una critica molto interessante perché ci fa capire come la riflessione sui classici contenga delle questioni di grande attualità. La riflessione recente affronta il problema del Canone; il canone è più o meno quello che indicavamo come tradizione. Nella storia di un paese, di una religione, esiste una serie di testi che sono ritenuti essenziali. Noi parliamo di Canone delle Sacre Scritture. Ma quando si è cominciato a parlare di Canone delle Sacre Scritture, i critici letterari greci da molti secoli avevano già parlato del Canone degli oratori, del Canone dei poeti drammatici, del Canone dei poeti comici, del Canone dei poeti lirici e così via – una serie di liste che indicavano gli autori essenziali in un certo ambito. Il Canone per come lo abbiamo presentato, sarebbe una serie di testi che nei secoli si sono scelti da soli. La storia li ha scelti, e li avrebbe scelti perché questi testi sono i migliori per natura.
Due cose sono importanti in questa definizione. In primo luogo: il canone è un fatto naturale, non è qualcosa che qualcuno ha scelto. Perché Dante è importante per la tradizione italiana? Ma perché è Dante. Non è che qualcuno ha detto «chi ci mettiamo nel canone? Ci mettiamo Dante, non Guido Cavalcanti». No, Dante è Dante, Guido Cavalcanti sta fuori dal canone, e questa scelta non si discute.
Ora: mi sembra opportuno farvi vedere un esempio concreto di canone per mostrarvi che, in effetti, le cose non stanno proprio così. Il canone che vi faccio vedere è tratto dal programma che bisognava preparare per il concorso della scuola, il concorso a cattedre per l’insegnamento dell’italiano. Questo programma è stato allegato al bando di concorso che esce sulla Gazzetta Ufficiale. È un canone che ha il massimo dell’ufficialità, ha sotto il timbro della Repubblica italiana.
E la Repubblica dice: «noi stiamo scegliendo quelli che vanno ad insegnare italiano nelle scuole, noi vogliamo che questi signori conoscano ed insegnino alle generazioni future alcuni autori». Poi dice che in realtà bisogna conoscerli tutti, ma alcuni autori sono nominati, altri no.
Ve li leggo: «Riservando maggiore spazio ai secoli XIX e XX, devono comunque essere oggetto di studio: Dante, Petrarca, Boccaccio» e fin qui le tre corone cosiddette. «Ariosto, Machiavelli, Guicciardini, Tasso». Quattro autori del Cinquecento. Dante, Petrarca e Boccaccio sono autori del Duecento e del Trecento: se la matematica non è un’opinione manca un secolo, cioè non c’è nessun autore del Quattrocento. Non è stato un secolo da buttar via per la storia italiana. Mancano, a fare due nomi, Angelo Poliziano, che è stato amico di Lorenzo il Magnifico ed è stato il più grande umanista del Quattrocento, e Matteo Maria Boiardo, colui che ha scritto l’Orlando Innamorato, che ha inventato il poema cavalleresco in Italia. Tanto per farvi capire: Don Chisciotte legge ancora l’Orlando Innamorato un secolo e mezzo dopo la pubblicazione. Eppure Poliziano e Boiardo non compaiono.
Fra gli autori del Cinquecento, Ariosto, Machiavelli, Guicciardini e Tasso non si discutono. Ma come posso capire qualcosa del Cinquecento italiano se non so niente del Cortegiano di Baldassar Castiglione? È molto difficile. Capisco qualcosa se non conosco Pietro Bembo? Molto difficile. Castiglione e Bembo sono nomi meno ovvi; è verosimile che anche voi li conosciate di meno. Ma vi assicuro che dal punto di vista storico non sono meno importanti di Francesco Guicciardini.
Continuo a leggere il canone ufficiale: «Galilei», Galileo Galilei è l’unico autore del Seicento, ma il Seicento è un secolo schifoso e quindi andiamo avanti… «Goldoni, Parini, Alfieri»: questo è il Settecento. L’Ottocento va più o meno da sé, nel senso che è il secolo su cui la scuola italiana si è più esercitata. «Foscolo, Leopardi, Manzoni, Verga, Carducci». Non c’è Angelo Poliziano ma noi mettiamo ancora oggi nel canone ‘la pargoletta mano’. «Carducci, Pascoli e D’Annunzio». Poi il Novecento, che è molto interessante. «Pirandello, Svevo, Ungaretti, Montale, Saba, Quasimodo, Pavese, Vittorini», e qui il canone ufficiale finisce. Ora: Quasimodo ha vinto il Nobel, ma se voi andate in una qualunque università italiana oggi e chiedete se Quasimodo è un poeta importante per il Novecento, nessuno, nessuno avrà la faccia tosta di rispondervi sì. Quasimodo è un poeta secondario. Pavese e Vittorini sono due autori che erano importanti negli anni Cinquanta, quando c’era ancora il dibattito sul neorealismo, negli anni della cosiddetta egemonia culturale della sinistra, ma oggi, anche a sinistra, nessuno si sogna più di dire che Vittorini sia uno scrittore fondamentale. In questo canone non c’è Carlo Emilio Gadda, che è il più grande prosatore italiano del Novecento. Va benissimo, bisogna leggere Conversazione in Sicilia, che è un libro di una bruttezza allucinante, ma si può anche non leggere Il Pasticciaccio di Gadda. Non dico queste cose per mettere a confronto i miei gusti o, diciamo, i gusti dell’accademia di oggi con i gusti del Ministero, ma per farvi capire che quello che si presenta come un canone ufficiale, e quindi che dovrebbe essere indiscusso e indiscutibile, è discutibilissimo, cioè è frutto di scelte. Carducci sta qui non soltanto per nostalgia dei vecchi signori del Ministero, ma perché è frutto di una cultura, quella crociana, di cui ancora non ci siamo liberati. Non è che uno si deve liberare a tutti i costi di Benedetto Croce; era però per dire che dipende da una scelta fatta in base a certi presupposti culturali. Che conclusione ne traiamo?
Il canone non è affatto un oggetto di natura: è un prodotto di cultura, cioè è frutto di scelte. Queste scelte si possono fare per molti motivi. Pietro Bembo (questo signore veneziano che è morto cardinale ed è sepolto in Santa Maria Sopra Minerva, se vi interessa per turismo, e che è il fondatore del petrarchismo del Cinquecento) dice: «bisogna imitare Petrarca e Boccaccio, non Dante». Bembo fa delle scelte, seleziona, si fa il suo canone con alcuni autori e non ne mette altri. Nel secondo Ottocento Francesco De Sanctis mette prima Dante e poi, parecchi chilometri sotto, Petrarca e Boccaccio. De Sanctis non è un nome a caso, perché, essendo uno dei primi ministri della Pubblica Istruzione in Italia, ha dovuto inventarsi i programmi della scuola dell’Italia unita e lo ha fatto scrivendo la sua Storia della letteratura italiana, che è una specie di autobiografia della nazione. Non siamo mai stati un paese unito, ma abbiamo sempre avuto una letteratura unita; Francesco De Sanctis lo sapeva bene e fondava l’identità nazionale su questo canone che lui costruiva.
Ma oggi i problemi nostri non sono quelli di De Sanctis, e quindi il canone lo si fa in modo ancora diverso.
Questo passaggio che sembra così banale da osservare in realtà non lo è affatto. Gli americani ne discutono molto. Negli Stati Uniti gli studenti che studiano letteratura all’università, vanno all’università, al college e studiano un certo numero di testi, piuttosto limitato, di tutte le letterature occidentali: greca e latina, e poi italiana, inglese, francese, tedesca, spagnola, russa e americana, naturalmente. È la «tradizione occidentale». Chi c’è in questo canone? La Genesi, un paio di libri della Bibbia, Dante, l’Amleto di Shakespeare e varie altre cose. Però, siccome è molto facile prevedere che gli studenti americani non conoscano molto altro oltre questo, parlare del canone negli Stati Uniti significa fare una scelta politica, significa discutere di che cosa insegniamo a questa gente. Una classe universitaria, negli Stati Uniti, è molto diversa dalle nostre. I miei amici professori che vanno spesso ad insegnare negli Stati Uniti e loro raccontano dell’impressione che fa di parlare di Manzoni davanti ad una classe in cui ci sono il trenta per cento di ragazzi neri, un altro quindici di asiatici, un altro quindici di latino-americani e poi un po’ di bianchi. Voi capite che in questo contesto non è così ovvio che Shakespeare sia così indiscutibile.
La riflessione americana è arrivata a questa conclusione (ci sono poi delle premesse filosofiche, ma non stiamo qui a dirle): il canone è solo il prodotto della cultura dominante in un certo paese e in un certo periodo. Francesco De Sanctis, come Ministro della pubblica istruzione, proponeva il suo canone di uomo borghese che non teneva conto, per esempio dei dialetti; il canone in cui ci sono la Genesi, Dante, Shakespeare e via discorrendo è fatto da bianchi, e non da neri; il canone in cui ci sono tutti questi signori i cui nomi, come direbbe Benigni, finiscono tutti con la o, è fatto da uomini, da maschi e non da femmine. Il canone è il prodotto di una cultura dominante e taglia fuori tutti quelli che dominanti non sono: i neri, le donne, le minoranze, gli omosessuali, e così via.
Questo, secondo me, è il nucleo duro, importante, della riflessione americana – ed è vero. Quando noi pensiamo a quello che siamo abituati a considerare normale ci dobbiamo dire che non è così normale: ha alle spalle una storia che ha lasciato del sangue per terra, una storia per cui i maschi si sono potuti permettere di fare il loro canone senza metterci le donne, perché le donne stavano sempre in casa mentre i maschi facevano gli scrittori e poi diventavano famosi.
A questo punto gli americani fanno un altro passo, cioè dicono: «dobbiamo riformare il canone e ci dobbiamo rimettere i neri, le donne, gli omosessuali, e così via». E qui cominciano i problemi, nel senso che tutti siamo d’accordo sulla questione teorica così enunciata, però non è detto che siano esistite delle scrittrici donne coeve più importanti di Shakespeare, non c’è una donna che ha scritto una cosa come Re Lear. Questa è una cosa molto triste: vuol dire che le donne stavano in casa, le menavano, non le facevano studiare; però sta di fatto che non c’è. Allora se noi andiamo a cercare negli archivi la peggiore schifezza scritta da una suora del Cinquecento perché era femmina e togliamo l’Amleto e ci mettiamo la schifezza, abbiamo un canone che non è più un canone ma è una cosa ridicola, ovviamente. E lo stesso vale anche se togliamo Dante e ci mettiamo il grande romanziere africano. Perché? Perché è molto ovvio che il grande romanziere africano sia grande anche perché ha letto la Divina Commedia; quindi è giusto che nel canone ci sia Dante. A Dante ha attinto anche il grande romanziere africano, ma il grande romanziere africano non ha nella storia lo stesso posto che ha Dante.
Il canone è ingiusto, è un prodotto di cultura e non di natura; però è molto difficile farlo diventare giusto a colpi di riforme. Ne vengono fuori dei mostri, e questa è la tendenza mostruosa che sta ampiamente verificandosi negli Stati Uniti.
Voi capite quanto sia attuale in questo discorso: dietro c’è il rapporto di gerarchia fra le culture. Non si può certo affermare che la cultura bianca sia di per sé meglio della cultura nera; però che è giusto affermare, per ragioni che ci addolorano, ma che sono non meno vere storicamente, che la cultura bianca è stata più importante della cultura nera, e quindi in questo modo (la faccio un po’ ecumenica, salvo capra e cavoli, la discussione è molto più violenta di così) in questo modo è la storia che fa la giustizia. Si può pensare a un canone che recuperi la sua obiettività sulla base dell’importanza che i testi hanno avuto nella storia. Certi testi sono stati dimenticati, certi altri no, certi autori sono diventati famosi, certi altri no. Naturalmente un canone fatto in questo modo conterrà anche molta paccottiglia: conterrà la Gerusalemme Liberata, che è un poema in cui si piangono calde lacrime perché è bello e commovente, ma conterrà anche Le prose della volgar lingua, di Pietro Bembo che sono un libro di grammatica, e che ci si vuole tagliare le vene a ogni pagina per quanto sono noiose, ma sono tutte e due importanti alla stessa stregua.
Questa è una possibile soluzione. Mi piaceva dirla, porla in questo modo. Non un canone di bianchi, di uomini, di non so cos’altro, perché ‘sono i migliori’. No, non sono i migliori. Sono quelli che nella storia hanno contato di più – e questo può essere un bene, o un male […].
Da ultimo, provo a rispondere in modo molto personale alla domanda «Perché leggere i classici?». Perché oggi noi viviamo in un tempo il cui pericolo più grande è la scemenza, è la stupidità, è la riduzione di tutto quanto a luogo comune; il veicolo maggiore di questo è la televisione, ma non soltanto. Qualunque problema grande diventa una stupidaggine, diventa una frase del Maurizio Costanzo Show, diventa un episodio di Uomini e donne, e così via. Allora si ha sempre la certezza che quando si leggono questi libri grandi si trovano delle cose serie, si trovano delle cose profonde, non banali, che insegnano e che fanno crescere. I classici sono sempre libri dopo aver letto i quali si guarda il mondo in modo diverso, che aprono un pezzetto d’occhio in più, e questo è l’invito alla lettura che faccio.
Guido Sacchi



 

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