Pubblico di seguito integralmente il profetico articolo che Pasolini scrisse sul Corriere della Sera il 22 settembre 1974 intitolato I dilemmi di un Papa. Articolo che lo stesso poeta riprenderà l'anno successivo, nei suoi Scritti corsari, con un titolo diverso per sottolinerne il carattere non occasionale.
Rimando al precedente articolo di Roberto Carnero per la sua migliore comprensione:
I DILEMMI DI UN PAPA
Forse
qualche lettore è stato colpito da una fotografia di Papa Paolo VI con in testa
una corona di penne Sioux, circondato da un gruppetto di «Pellerossa» in
costumi tradizionali: un quadretto folcloristico estremamente imbarazzante
quanto più l'atmosfera appariva familiare e bonaria. Non so cosa abbia ispirato
Paolo VI a mettersi in testa quella corona di penne e a posare per il
fotografo. Ma non esiste incoerenza. Anzi, nel caso di questa fotografia di
Paolo VI, si può parlare di atteggiamento particolarmente coerente con
l'ideologia, consapevole o inconsapevole, che guida gli atti e i gesti umani,
facendone «destino» o «storia». Nella fattispecie, «destino» di Paolo VI e
«storia» della Chiesa. Negli stessi giorni in cui Paolo VI si è fatto fare
quella fotografia su cui «il tacere è bello» (ma non per ipocrisia, bensì per rispetto
umano), egli ha infatti pronunciato un discorso che io non esiterei, con la
solennità dovuta, a dichiarare storico. E non mi riferisco alla storia recente,
o, meno ancora, all'attualità.
Tanto è vero
che quel discorso di Paolo VI non ha fatto nemmeno notizia, come si dice: ne ho
letto nei giornali dei resoconti laconici ed evasivi, relegati in fondo alla
pagina. Dicendo che il recente discorsetto di Paolo VI è storico, intendo
riferirmi all'intero corso della storia della Chiesa cattolica, cioè della storia
umana (eurocentrica e culturocentrica, almeno). Paolo VI ha ammesso infatti
esplicitamente che la Chiesa è stata superata dal mondo; che il ruolo della
Chiesa è divenuto di colpo incerto e superfluo; che il Potere reale non ha più
bisogno della Chiesa, e l'abbandona quindi a se stessa; che i problemi sociali
vengono risolti all'interno di una società in cui la Chiesa non più prestigio;
che non esiste più il problema dei «poveri», cioè il problema principe della
Chiesa ecc. ecc.
Ho riassunto
i concetti di Paolo VI con parole mie: cioè con parole che uso già da molto
tempo per dire queste cose. Ma il senso del discorso di Paolo VI è proprio
questo che ho qui riassunto: ed anche le parole non sono poi in conclusione
molto diverse. A dir la verità non è la prima volta che Paolo è sincero: ma,
finora, i suoi impulsi di sincerità hanno avuto manifestazioni anomale,
enigmatiche, e spesso (dal punto di vista della Chiesa stessa) un po'
inopportune. Erano quasi dei raptus che rivelavano il suo stato d'animo reale,
coincidente oggettivamente con la situazione storica della Chiesa, vissuta
persona1mente nel suo Capo. Le encicliche «storiche» di Paolo VI, poi, erano
sempre frutto di un compromesso, fra l'angoscia del Papa e la diplomazia
vaticana: compromesso che non lasciava mai capire se tali encicliche fossero un
progresso o un regresso rispetto a quelle di Giovanni XXIII. Un papa
profondamente impulsivo e sincero come Paolo VI aveva finito con l'apparire,
per definizione, ambiguo e insincero.
Ora di
colpo, è venuta fuori tutta la sua sincerità, in una chiarezza quasi
scandalosa. Come e perché? Non è difficile rispondere: per la prima volta Paolo
VI ha fatto ciò che faceva normalmente Giovanni XXIII, cioè ha spiegato la
situazione della Chiesa ricorrendo a una logica, a una cultura, a una
problematica non ecclesiastica: anzi, esterna alla Chiesa; quella del mondo
laico, razionalista, magari socialista - sia pur ridotto e anestetizzato
attraverso la sociologia. Un fulmineo sguardo dato alla Chiesa «dal di fuori» è
bastato a Paolo VI a capirne la reale situazione storica: situazione storica
che rivissuta poi «dal di dentro» è risultata tragica. Ed è qui che è
scoppiata, stavolta sinceramente, la sincerità di Paolo VI: anziché prendere la
falsariga del compromesso, della ragion di Stato, dell'ipocrisia, sia pure
postgiovannea, le parole «sincere» di Paolo VI hanno seguito la logica della
realtà.
Le
ammissioni che ne sono seguite sono dunque ammissioni storiche nel senso
solenne che ho detto: tali ammissioni infatti delineano la fine della Chiesa, o
almeno la fine del ruolo tradizionale della Chiesa durato ininterrottamente
duemila anni. Certamente - magari attraverso le illusioni che non potrà non
dare l'Anno Santo - Paolo VI troverà modo di ritornare (in buona fede) insincero.
Il suo discorsetto di questa fine d'estate a Castelgandolfo, sarà formalmente
dimenticato, saranno alzate intorno alla Chiesa nuove rassicuranti barriere di
prestigio e speranza ecc. ecc. Ma si sa che la verità, una volta detta, è
incancellabile; e irreversibile la nuova situazione storica che ne deriva.
Ora, a parte
i particolari problemi pratici (come la fine delle vocazioni religiose) sulla
cui soluzione il Papa è apparso impotente a fare qualsiasi ipotesi, è su tutta
la drammatica situazione della Chiesa che egli si dimostra del tutto
irrazionale (cioè, ancora una volta in altro modo, sincero). La soluzione
infatti che egli propone è «pregare». Il che significa che dopo aver analizzato
la situazione della Chiesa «dal di fuori», e averne intuito la tragicità, la
soluzione che egli propone è riformulata «dal di dentro».
Dunque non
solo tra impostazione e soluzione del problema c'è un rapporto storicamente
illogico: ma c'è addirittura incommensurabilità. A parte il fatto che il mondo
ha superato la Chiesa (in termini ancora più totali e decisivi di quanto abbia
dimostrato il «referendum») è chiaro che tale mondo, appunto, non «prega» più.
Quindi la Chiesa è ridotta a «pregare» per se stessa. Così Paolo VI, dopo aver
denunciato, con drammatica e scandalosa sincerità il pericolo della fine della
Chiesa, non dà alcuna soluzione o indicazione per affrontarlo.
Forse perché
non esiste possibilità di soluzione? Forse perché la fine della Chiesa è ormai
inevitabile, a causa del «tradimento» di milioni e milioni di fedeli
(soprattutto contadini, convertiti al laicismo e all'edonismo consumistico) e
della «decisione» del potere, che è ormai sicuro, appunto, di tenere in pugno
quegli ex fedeli attraverso il benessere e soprattutto attraverso l'ideologia
imposta loro senza nemmeno il bisogno di nominarla? Può darsi. Ma questo è
certo: che se molte e gravi sono state le colpe della Chiesa nella sua lunga
storia di potere, la più grave di tutte sarebbe quella di accettare
passivamente la propria liquidazione da parte di un potere che se la ride del
Vangelo.
In una
prospettiva radicale, forse utopistica, o, è il caso di dirlo, millenaristica,
è chiaro dunque ciò che la Chiesa dovrebbe fare per evitare una fine
ingloriosa. Essa dovrebbe passare all'opposizione. E, per passare
all'opposizione, dovrebbe prima di tutto negare se stessa. Dovrebbe passare
all'opposizione contro un potere che l'ha così cinicamente abbandonata,
progettando, senza tante storie, di ridurla a puro folclore. Dovrebbe negare se
stessa, per riconquistare i fedeli (o coloro che hanno un «nuovo» bisogno di
fede) che proprio per quello che essa è l'hanno abbandonata. Riprendendo una
lotta che è peraltro nelle sue tradizioni (la lotta del Papato contro
l'Impero), ma non per la conquista del potere, la Chiesa potrebbe essere la
guida, grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano (e parla un
marxista, proprio in quanto marxista) il nuovo potere consumistico che è
completamente irreligioso; totalitario; violento; falsamente tollerante, anzi,
più repressivo che mai; corruttore; degradante (mai più di oggi ha avuto senso
l'affermazione di Marx per cui il capitale trasforma la dignità umana in merce
di scambio).
È questo
rifiuto che potrebbe dunque simboleggiare la Chiesa: ritornando alle origini,
cioè all'opposizione e alla rivolta. O fare questo o accettare un potere che
non la vuole più: ossia suicidarsi. Faccio un solo esempio, anche se
apparentemente riduttivo. Uno dei più potenti strumenti del nuovo potere è la
televisione. La Chiesa finora questo non lo ha capito. Anzi, penosamente, ha
creduto che la televisione fosse un suo strumento di potere. E infatti la
censura della televisione è stata una censura vaticana, non c'è dubbio. Non
solo, ma la televisione faceva una continua réclame della Chiesa. Però,
appunto, faceva un tipo di réclame totalmente diversa dalla réclame con cui
lanciava i prodotti, da una parte, e dall'altra, e soprattutto, elaborava il
nuovo modello umano del consumatore. La réclame fatta alla Chiesa era antiquata
e inefficace, puramente verbale: e troppo esplicita, troppo pesantemente
esplicita. Un vero disastro in confronto alla réclame non verbale, e
meravigliosamente lieve, fatta ai prodotti e all'ideologia consumistica, col
suo edonismo perfettamente irreligioso (macché sacrificio, macché fede, macché
ascetismo, macché buoni sentimenti, macché risparmio; macché severità di
costumi ecc. ecc.). È stata la televisione la principale artefice della
vittoria del «no» al referendum, attraverso la laicizzazione, sia pur ebete,
dei cittadini. E quel «no» del referendum non ha dato che una pallida idea di
quanto la società italiana sia cambiata appunto nel senso indicato da Paolo VI
nel suo storico discorsetto di Castelgandolfo. Ora, la Chiesa dovrebbe
continuare ad accettare una televisione simile? Cioè uno strumento della cultura
di massa appartenente a quel nuovo potere che «non sa più cosa farsene della
Chiesa»? Non dovrebbe, invece, attaccarla violentemente, con furia paolina,
proprio per la sua reale irreligiosità, cinicamente corretta da un vuoto
clericalismo? Naturalmente si annuncia invece un grande exploit televisivo
proprio per l'inaugurazione dell' Anno Santo. Ebbene, sia chiaro per gli uomini
religiosi che queste manifestazioni pomposamente teletrasmesse, saranno delle
grandi e vuote manifestazioni folcloriche, inutili ormai politicamente anche
alla destra più tradizionale. Ho fatto l'esempio della televisione perché è il
più spettacolare e macroscopico. Ma potrei dare mille altri esempi riguardanti
la a quotidiana di milioni di cittadini: dalla funzione del prete in un mondo
agricolo in completo abbandono, alla rivolta delle élites teologicamente più
avanzate e scandalose.
Ma in
definitiva il dilemma oggi è questo: o la Chiesa fa propria la traumatizzante
maschera del Paolo VI folcloristico che «gioca» con la tragedia, o fa propria
la tragica sincerità del Paolo VI che annuncia temerariamente la sua fine.
Nessun commento:
Posta un commento