Torniamo ad occuparci del problema sempre più attuale delle migrazioni riproponendo di seguito un articolo di cronaca giornalistica e uno di approfondimento.
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Umberto De Giovannangeli
Umberto De Giovannangeli
I disperati
che arrivano dalle rivoluzioni fallite
Non basta dare i numeri,
peraltro tutti da verificare. Non è accettabile parlare
genericamente di immigrati, quando quell’umanità sofferente ha un
altro status da rivendicare: quello di richiedenti asilo. L’allarme
lanciato dal Viminale su una nuova, enorme, ondata di migranti in
rotta verso l’Europa, va tradotto in politica e non relegato a
problema di ordine pubblico. Va tradotto in politica e
nell’ammissione di un fallimento che investe l’Europa nel suo
insieme e i Paesi euromediterranei in particolare.
Da tempo i segnali che giungono dai Paesi della sponda Sud del Mediterraneo, come dal devastato Corno d’Africa, avrebbero dovuto determinare nelle cancellerie europee uno scatto di responsabilità e un’azione condivisa. Così non è stato. Non lo è stato per la Libia del dopo-Gheddafi, non lo è stato per la martoriata Siria, distrutta da oltre tre anni di guerra che ha trasformato il popolo siriano in un popolo di sfollati (oltre 5 milioni). Al di là delle dichiarazioni formali, rimaste sulla carta, nei fatti l’Europa ha continuato a guardare alle frontiere Sud non come un luogo di cooperazione e di interscambio, ma come un luogo da presidiare, in armi, perché quei Paesi in guerra potevano essere la base di una «invasione» di migranti.
Libia, Egitto, Siria,
Tunisia, Somalia, Nigeria, Sud Sudan...Da questi Paesi milioni di
persone cercano di fuggire, non per garantirsi una vita più agiata,
ma per salvare la vita. Una vita messa in discussione da pulizie
etniche, da conflitti «dimenticati» ma sempre più sanguinosi (Sud
Sudan), dall’avidità senza freni di organizzazioni di trafficanti
d’uomini che calcolano una vita in dollari, prendere o lasciare.
L’epicentro di questa tragedia è il Mediterraneo. Un mare
trasformatosi in tomba per migliaia e migliaia di disperati che hanno
perso la vita nel momento in cui hanno messo i piedi in una delle
tante carrette del mare inabissatesi.
La Libia è l’emblema
di una stabilizzazione inesistente. Un Paese in mano ad oltre 350
gruppi armati, alcuni dei quali autoproclamatisi «governo» (in
Cirenaica). La Libia è a un passo da casa nostra. Un passo tragico
per tanta, troppa gente. La Libia del post-Gheddafi è un Paese
ingovernato e ingovernabile, in balia di mercenari, trafficanti di
esseri umani, miliziani qaedisti... Da questo inferno cercano di
fuggire in migliaia. Parte di quel popolo di richiedenti asilo che
ingrossa ogni giorno le proprie fila in altri Paesi devastati dalla
guerra. Paesi lasciati in balia di dittatori senza scrupoli, di
oligarchie che hanno ingrossato i propri conti in banca sulla pelle,
e non è una metafora, di milioni di diseredati. La politica ha
abdicato. La diplomazia ha fallito.
Di fronte a questa bancarotta il minimo che si deve alle vittime di questa débâcle è quelle di trattarle per ciò che sono, riconoscendone la storia, dando ad esse la dignità dovuta, e concedendo asilo. Non siamo di fronte a un cataclisma naturale. Siamo alle prese con rivoluzioni fallite, fatte fallire. L’Europa non l’ha fatto. Così come ha assistito inerme allo sfiorire delle Primavere arabe, sostituite da restaurazioni in divisa (militare) o da teocrazie islamiste.
Cooperazione è rimasta
una parola vuota, nel migliore dei casi è stata evocata con
sincerità ma mai praticata come si sarebbe dovuto fare. E farlo non
in nome di valori che pure dovrebbero far parte di una civiltà dei
diritti e della cittadinanza che ha rappresentato il meglio
dell’Europa; solidarietà, giustizia, inclusività...La ragione
meno poetica, ma molto concreta, per la quale l’Europa dovrebbe
attivare finalmente politiche di sostegno nei Paesi del Sud del
Mediterraneo, è perché è nel nostro interesse. Perché dare
soluzione ai conflitti che agitano quella parte di mondo significa
dare una motivazione a milioni di persone per restare nelle loro
città, per scommettere su una vita possibile, non solo migliore.
La crisi libica, la
guerra siriana, la restaurazione egiziana, non sono capitoli della
politica estera di una cancelleria europea. Sono, soprattutto per
Paesi frontalieri come l’Italia, parte della propria politica
interna. Perché non esistono barriere, muri, mari militarizzati che
possono fermare l’esodo biblico di una umanità sofferente che non
ha più nulla da perdere. Di questa sofferenza, l’Europa è parte.
Responsabile, anche se non lo ammette.
l’Unità – 30 aprile
2014
Una Carta per rovesciare le geografie esistenziali e politiche inaccettabili inscritte dalle politiche migratorie, partendo dal presupposto che oggi le politiche di confinamento e di governo della mobilità giocano un ruolo fondamentale nella ridefinizione delle divisioni di classe e dei meccanismi di esclusione. Una Carta che tuttavia non è, solo, una carta: questo l’assunto condiviso da tutti coloro che si sono ritrovati a Lampedusa dal 31 gennaio al 2 febbraio per discutere, rielaborare e sottoscrivere la Carta di Lampedusa; e per iniziare a tracciare i percorsi futuri di lotte, pratiche e campagne di cui questo documento si propone di essere il motore propulsore e al contempo la cornice politica. Un assunto che si traduce immediatamente in un impegno, quello di ragionare su come fare diventare la Carta non semplicemente un manifesto di supporto alle lotte già esistenti ma una piattaforma attraverso cui rideclinare tali lotte alla luce di un “percorso costituente” fondato “sul riconoscimento che tutte e tutti in quanto esseri umani abitiamo la terra come spazio condiviso e che tale appartenenza comune debba essere rispettata”. Si può dire, in effetti, che la Carta di Lampedusa mette in atto fin dal preambolo una geografia rivoluzionata, rifutando di appoggiarsi sulle categorie e i limiti spaziali che strutturano il campo semantico delle migrazioni: spazio nazionale, stato, spazio transnazionale, tutti questi referenti spaziali sono stati volutamente evitati precisamente per non cascare nell’errore di tracciare nuove geografie esclusive, allargando immediatamente la prospettiva allo spazio della terra come spazio condiviso. Ma la Carta di Lampedusa si presenta al tempo stesso come un documento costituente geograficamente e politicamente situato, che nasce dall’esigenza di costruire una pratica politica condivisa, una risposta – evitando di posizionarsi però sull’onda dell’emergenza umanitaria – dopo i naufragi del 3 e dell’11 ottobre in cui hanno perso la vita centinaia di migranti.
Per questo la Carta assume “il Mediterraneo come suo luogo di origine e, al centro del Mediterraneo, l’isola di Lampedusa”, prendendo le distanze in tal modo dalla designazione di “euromediterraneo” che nel suo prefisso “euro” racchiude un netto sbilanciamento verso la sponda nord del Mediterrano e la collocazione prioritaria dello sguardo assunto. Quest’ ultimo punto sarà in fondo anche uno dei nodi centrali da cui dovrà passare la discussione comune sulla Carta nelle prossime fasi, quando si tratterà di meglio configurare il piano su cui andare a costruire convergenze con lotte e collettivi al di fuori dell’Italia: a questo proposito nell’assemblea conclusiva di domenica si sono cominciate a individuare alcune strade possibili per costruire un percorso su scala europea – grazie essenzialmente agli interventi del gruppo tedesco Welcome to Europe e dei migranti del collettivo Lampedusa in Hamburg – orientandosi in particolar modo verso la marcia dei sans-papier prevista nei mesi di maggio e giugno che da piú parti d’Europa dovrebbe confluire a Bruxelles, in occasione delle elezioni europee e culminare con una protesta-occupy le sedi dell’Unione europea. Per quanto riguarda invece la connessione tra le due sponde del Mediterraneo è stato Imed Soltani, tunisino rappresentante dell’associazione La terre pour tous e di tutti i genitori e familiari dei migranti tunisini dispersi, a sottolineare come la retorica della vicinanza tra sponda nord e sud si rifletta in realtà nell’impossibilità per molti tunisini di partire senza rischiare la vita in mare e comporti, come segnalato nella Carta, “la sparizione dei corpi, imponendo forme di affetto e lutto dimezzate per parenti e amici”.
La lotta delle famiglie tunisine ci suggerisce in fondo che una campagna per l’abolizione della politica dei visti, a cui la sezione Libertà di movimento della Carta fa riferimento, rappresenterebbe una mossa concreta per provare a ribaltare proprio quelle geografie esistenziali inaccettabili imposte dalle politiche migratorie che la Carta sottolinea. E il vertice euromediterraneo dei ministri che probabilmente si terrà in Italia a fine estate potrebbe essere uno dei momenti per iniziare una contestazone concertata delle politiche di mobilità selezionata sempre piú promosse negli accordi di vicinato tra i paesi delle due sponde. Il primo appuntamento che i partecipanti alle giornate della Carta hanno individuato è quello del primo marzo, con una serie di azioni sul territorio convergenti verso un obiettivo unico e molto preciso: quello dell’ “immediata abrogazione dell’istituto della detenzione amministrativa e la chiusura di tutti i centri, comunque denominati o configurati, e delle strutture di accoglienza contenitiva”.
Smilitarizzare il Mediterraneo e sottrarre Lampedusa al ruolo di isola di frontiera: questi forse, i due punti che maggiormente qualificano la Carta e che vengono rimarcati anche dall’associazione di Lampedusa Askavusa, che tramite l’intervento di apertura di Giacomo Sferlazzo ribadisce la necessità di inscrivere piú esplicitamente la questione migrazioni all’interno del funzionamento dell’economia attuale. Inoltre, se da un lato il ruolo di Lampedusa frontiera dell’Europa e la marginalizzazione dell’isola devono indubbiamente cessare, il collettivo di Askavusa sottolinea l’importanza di porre la questione della militarizzazione su scala nazionale e soprattutto mediterranea ed europea. Anche le donne di Lampedusa hanno messo in luce come la logica di confine e la militarizzazione impatti non solo sulle vite dei migranti ma anche su quella degli isolani, proponendo di convertire invece le risorse impiegate per spese militari nella costruzione di infrastrutture locali. “Smilitarizzazione”: questo il titolo di una delle sezioni della Carta su cui potrebbero nascere alleanze nei prossimi mesi tra i vari gruppi e anche tra le due sponde del Mediterraneo; in particolare tenendo conto del movimento NoMuos siciliano e dei piccoli collettivi che si formeranno a partire dalla Carta, tra cui un gruppo di donne e un gruppo che lavorerà alla produzione di una contro-mappa del Mediterraneo che si propone di rappresentare quello spazio per come é stato trasformato dai processi di militarizzazione. Tra questi vale la pena ricordare l’operazione Mare Nostrum lanciata dal governo italiano il 18 ottobre scorso, come risposta “militare-umanitaria” alle morti in mare e guidata dalla Marina Militare e la missione europea EUBAM in Libia che prevede l’addestramento di militari libici da parte delle forze italiane.
“La Carta di Lampedusa non é una proposta di legge o una richiesta agli stati o ai governi”. Una Carta che parte innanzitutto, come era stato stabilito negli incontri preparatori, da alcuni rifiuti, da alcuni “no” su cui si sono poi definite le adesioni di chi si riconosceva nel progetto della Carta: no prima di tutto a qualunque proposta di riforma dei Cie, e poi, tra gli altri, no al regolamento di Dublino II, no al discorso umanitario con cui vengono presentate le operazioni militari di Mare Nostrum, e no alle politiche di esternalizzazione dell’asilo. Su questo punto fondamentale c’é stato un consenso transversale, anche se poi nella discussione sulla seconda parte, quella che si propone di fare i conti con la realtà esistente delle politiche migratorie, il linguaggio si é spostato maggiormente sul piano dei diritti, di nuove forme di cittadinanza e di pratiche alternative di accoglienza reinscrivendosi in parte all’interno di un framework nazionale. Tuttavia, anche in questo stare sul terreno dei meccanismi effettivi di esclusione e confinamento la Carta é riuscita a non inscrivere il proprio discorso nella geografia esclusiva disegnata dalle politiche migratorie, fondata essenzialmente sul partage tra migranti economici e rifugiati, rifiutando inoltre ogni settorializzazione del problema (ad esempio tra politiche del lavoro, di asilo e di accoglienza). Al contrario, tutte le instanze relative asilo, lavoro e accoglienza, così come detenzione sono distribuite nel testo della Carta e riconfigurate sotto forma di “libertà di”: il lavoro, ad esempio, diventa tema centrale di alcune lotte per la “libertà di restare” che “non può in alcun modo essere subordinata allo svolgimento di attività lavorativa riconosciuta e autorizzata sulla base delle necessità del mercato del lavoro”. E insieme, il lavoro ricade anche sotto “libertà di movimento”, come nodo critico delle attuali politiche da contestare che legano le condizioni di ingresso sul territorio.
Senza essere un testo di legge e senza voler giuridicizzare ogni aspetto delle pratiche di mobilità, la Carta riconosce comunque la differenza in gioco tra migrazioni per necessità, legate ad esempio allo scoppio di conflitti, e altre modalità di migrare. Come aggirare dunque le procedure selettive della protezione internazionale che peraltro costringono le persone ad attraversare il Mediterraneo per fare domanda di asilo negli stati europei? “Percorsi di arrivo garantito” é stata la formula scelta per rovesciare l’esternalizzazione dei diritti e indicare il piuttosto diritto di chi migra per necessità di fare domanda di asilo in Europa stando nel paese in cui si trova per essere immediatamente trasferito con un mezzo sicuro in quello stato. Il campo di Choucha in Tunisia al confine con la Libia potrebbe essere un luogo concreto da cui partire per fare appello agli stati e all’ Unione europea affinché i migranti di Choucha vengano immediatamente reinsediati in Europa, senza distinzione alcuna tra rifugiati diniegati della protezione internazionale d UNHCR e gli altri.
Tra le altre pratiche di rovesciamento proposte e effettuate dalla Carta che merita menzionare vi é senza dubbio anche una rivoluzione nominale, o se non altro un tentativo di resistere, dove possibile, alla traduzione delle pratiche di movimento in flussi migratori da uno stato di origine a un paese di arrivo: tutti e tutte, persone, esseri umani, sono i termini spesso impiegati nel testo per indicare i soggetti di questa Carta.
Infine, un ribaltamento della stessa idea di spazio che solitamente si presuppone quando si fa nostro il linguaggio delle politiche migratorie. Infatti se spazio pubblico e spazio privato costuiscono la cornice entro cui solitamente avvengono le rivendicazioni per i diritti dei e delle migranti, la Carta di Lampedusa afferma al contrario la necessità di slegare il concetto di spazio “da ogni logica di proprietà e privatizzazione, inclusa quella propria della tradizione degli stati nazionali”; principio sufficiente per sostenere “la libertà di ogni essere umano di scegliere il luogo in cui abitare”.
Questo intervento è apparso sul sito Euronomade e successivamente su http://www.nazioneindiana.com
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Martina Tazzioli
Pratiche di rovesciamento. Una Carta per resistere e rivoluzionare le geografie esistenziali delle politiche migratorie
Una Carta per rovesciare le geografie esistenziali e politiche inaccettabili inscritte dalle politiche migratorie, partendo dal presupposto che oggi le politiche di confinamento e di governo della mobilità giocano un ruolo fondamentale nella ridefinizione delle divisioni di classe e dei meccanismi di esclusione. Una Carta che tuttavia non è, solo, una carta: questo l’assunto condiviso da tutti coloro che si sono ritrovati a Lampedusa dal 31 gennaio al 2 febbraio per discutere, rielaborare e sottoscrivere la Carta di Lampedusa; e per iniziare a tracciare i percorsi futuri di lotte, pratiche e campagne di cui questo documento si propone di essere il motore propulsore e al contempo la cornice politica. Un assunto che si traduce immediatamente in un impegno, quello di ragionare su come fare diventare la Carta non semplicemente un manifesto di supporto alle lotte già esistenti ma una piattaforma attraverso cui rideclinare tali lotte alla luce di un “percorso costituente” fondato “sul riconoscimento che tutte e tutti in quanto esseri umani abitiamo la terra come spazio condiviso e che tale appartenenza comune debba essere rispettata”. Si può dire, in effetti, che la Carta di Lampedusa mette in atto fin dal preambolo una geografia rivoluzionata, rifutando di appoggiarsi sulle categorie e i limiti spaziali che strutturano il campo semantico delle migrazioni: spazio nazionale, stato, spazio transnazionale, tutti questi referenti spaziali sono stati volutamente evitati precisamente per non cascare nell’errore di tracciare nuove geografie esclusive, allargando immediatamente la prospettiva allo spazio della terra come spazio condiviso. Ma la Carta di Lampedusa si presenta al tempo stesso come un documento costituente geograficamente e politicamente situato, che nasce dall’esigenza di costruire una pratica politica condivisa, una risposta – evitando di posizionarsi però sull’onda dell’emergenza umanitaria – dopo i naufragi del 3 e dell’11 ottobre in cui hanno perso la vita centinaia di migranti.
Per questo la Carta assume “il Mediterraneo come suo luogo di origine e, al centro del Mediterraneo, l’isola di Lampedusa”, prendendo le distanze in tal modo dalla designazione di “euromediterraneo” che nel suo prefisso “euro” racchiude un netto sbilanciamento verso la sponda nord del Mediterrano e la collocazione prioritaria dello sguardo assunto. Quest’ ultimo punto sarà in fondo anche uno dei nodi centrali da cui dovrà passare la discussione comune sulla Carta nelle prossime fasi, quando si tratterà di meglio configurare il piano su cui andare a costruire convergenze con lotte e collettivi al di fuori dell’Italia: a questo proposito nell’assemblea conclusiva di domenica si sono cominciate a individuare alcune strade possibili per costruire un percorso su scala europea – grazie essenzialmente agli interventi del gruppo tedesco Welcome to Europe e dei migranti del collettivo Lampedusa in Hamburg – orientandosi in particolar modo verso la marcia dei sans-papier prevista nei mesi di maggio e giugno che da piú parti d’Europa dovrebbe confluire a Bruxelles, in occasione delle elezioni europee e culminare con una protesta-occupy le sedi dell’Unione europea. Per quanto riguarda invece la connessione tra le due sponde del Mediterraneo è stato Imed Soltani, tunisino rappresentante dell’associazione La terre pour tous e di tutti i genitori e familiari dei migranti tunisini dispersi, a sottolineare come la retorica della vicinanza tra sponda nord e sud si rifletta in realtà nell’impossibilità per molti tunisini di partire senza rischiare la vita in mare e comporti, come segnalato nella Carta, “la sparizione dei corpi, imponendo forme di affetto e lutto dimezzate per parenti e amici”.
La lotta delle famiglie tunisine ci suggerisce in fondo che una campagna per l’abolizione della politica dei visti, a cui la sezione Libertà di movimento della Carta fa riferimento, rappresenterebbe una mossa concreta per provare a ribaltare proprio quelle geografie esistenziali inaccettabili imposte dalle politiche migratorie che la Carta sottolinea. E il vertice euromediterraneo dei ministri che probabilmente si terrà in Italia a fine estate potrebbe essere uno dei momenti per iniziare una contestazone concertata delle politiche di mobilità selezionata sempre piú promosse negli accordi di vicinato tra i paesi delle due sponde. Il primo appuntamento che i partecipanti alle giornate della Carta hanno individuato è quello del primo marzo, con una serie di azioni sul territorio convergenti verso un obiettivo unico e molto preciso: quello dell’ “immediata abrogazione dell’istituto della detenzione amministrativa e la chiusura di tutti i centri, comunque denominati o configurati, e delle strutture di accoglienza contenitiva”.
Smilitarizzare il Mediterraneo e sottrarre Lampedusa al ruolo di isola di frontiera: questi forse, i due punti che maggiormente qualificano la Carta e che vengono rimarcati anche dall’associazione di Lampedusa Askavusa, che tramite l’intervento di apertura di Giacomo Sferlazzo ribadisce la necessità di inscrivere piú esplicitamente la questione migrazioni all’interno del funzionamento dell’economia attuale. Inoltre, se da un lato il ruolo di Lampedusa frontiera dell’Europa e la marginalizzazione dell’isola devono indubbiamente cessare, il collettivo di Askavusa sottolinea l’importanza di porre la questione della militarizzazione su scala nazionale e soprattutto mediterranea ed europea. Anche le donne di Lampedusa hanno messo in luce come la logica di confine e la militarizzazione impatti non solo sulle vite dei migranti ma anche su quella degli isolani, proponendo di convertire invece le risorse impiegate per spese militari nella costruzione di infrastrutture locali. “Smilitarizzazione”: questo il titolo di una delle sezioni della Carta su cui potrebbero nascere alleanze nei prossimi mesi tra i vari gruppi e anche tra le due sponde del Mediterraneo; in particolare tenendo conto del movimento NoMuos siciliano e dei piccoli collettivi che si formeranno a partire dalla Carta, tra cui un gruppo di donne e un gruppo che lavorerà alla produzione di una contro-mappa del Mediterraneo che si propone di rappresentare quello spazio per come é stato trasformato dai processi di militarizzazione. Tra questi vale la pena ricordare l’operazione Mare Nostrum lanciata dal governo italiano il 18 ottobre scorso, come risposta “militare-umanitaria” alle morti in mare e guidata dalla Marina Militare e la missione europea EUBAM in Libia che prevede l’addestramento di militari libici da parte delle forze italiane.
“La Carta di Lampedusa non é una proposta di legge o una richiesta agli stati o ai governi”. Una Carta che parte innanzitutto, come era stato stabilito negli incontri preparatori, da alcuni rifiuti, da alcuni “no” su cui si sono poi definite le adesioni di chi si riconosceva nel progetto della Carta: no prima di tutto a qualunque proposta di riforma dei Cie, e poi, tra gli altri, no al regolamento di Dublino II, no al discorso umanitario con cui vengono presentate le operazioni militari di Mare Nostrum, e no alle politiche di esternalizzazione dell’asilo. Su questo punto fondamentale c’é stato un consenso transversale, anche se poi nella discussione sulla seconda parte, quella che si propone di fare i conti con la realtà esistente delle politiche migratorie, il linguaggio si é spostato maggiormente sul piano dei diritti, di nuove forme di cittadinanza e di pratiche alternative di accoglienza reinscrivendosi in parte all’interno di un framework nazionale. Tuttavia, anche in questo stare sul terreno dei meccanismi effettivi di esclusione e confinamento la Carta é riuscita a non inscrivere il proprio discorso nella geografia esclusiva disegnata dalle politiche migratorie, fondata essenzialmente sul partage tra migranti economici e rifugiati, rifiutando inoltre ogni settorializzazione del problema (ad esempio tra politiche del lavoro, di asilo e di accoglienza). Al contrario, tutte le instanze relative asilo, lavoro e accoglienza, così come detenzione sono distribuite nel testo della Carta e riconfigurate sotto forma di “libertà di”: il lavoro, ad esempio, diventa tema centrale di alcune lotte per la “libertà di restare” che “non può in alcun modo essere subordinata allo svolgimento di attività lavorativa riconosciuta e autorizzata sulla base delle necessità del mercato del lavoro”. E insieme, il lavoro ricade anche sotto “libertà di movimento”, come nodo critico delle attuali politiche da contestare che legano le condizioni di ingresso sul territorio.
Senza essere un testo di legge e senza voler giuridicizzare ogni aspetto delle pratiche di mobilità, la Carta riconosce comunque la differenza in gioco tra migrazioni per necessità, legate ad esempio allo scoppio di conflitti, e altre modalità di migrare. Come aggirare dunque le procedure selettive della protezione internazionale che peraltro costringono le persone ad attraversare il Mediterraneo per fare domanda di asilo negli stati europei? “Percorsi di arrivo garantito” é stata la formula scelta per rovesciare l’esternalizzazione dei diritti e indicare il piuttosto diritto di chi migra per necessità di fare domanda di asilo in Europa stando nel paese in cui si trova per essere immediatamente trasferito con un mezzo sicuro in quello stato. Il campo di Choucha in Tunisia al confine con la Libia potrebbe essere un luogo concreto da cui partire per fare appello agli stati e all’ Unione europea affinché i migranti di Choucha vengano immediatamente reinsediati in Europa, senza distinzione alcuna tra rifugiati diniegati della protezione internazionale d UNHCR e gli altri.
Tra le altre pratiche di rovesciamento proposte e effettuate dalla Carta che merita menzionare vi é senza dubbio anche una rivoluzione nominale, o se non altro un tentativo di resistere, dove possibile, alla traduzione delle pratiche di movimento in flussi migratori da uno stato di origine a un paese di arrivo: tutti e tutte, persone, esseri umani, sono i termini spesso impiegati nel testo per indicare i soggetti di questa Carta.
Infine, un ribaltamento della stessa idea di spazio che solitamente si presuppone quando si fa nostro il linguaggio delle politiche migratorie. Infatti se spazio pubblico e spazio privato costuiscono la cornice entro cui solitamente avvengono le rivendicazioni per i diritti dei e delle migranti, la Carta di Lampedusa afferma al contrario la necessità di slegare il concetto di spazio “da ogni logica di proprietà e privatizzazione, inclusa quella propria della tradizione degli stati nazionali”; principio sufficiente per sostenere “la libertà di ogni essere umano di scegliere il luogo in cui abitare”.
Questo intervento è apparso sul sito Euronomade e successivamente su http://www.nazioneindiana.com
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