Esce oggi in libreria Il bene nelle cose. La merce come oggetto morale (Il Mulino), di Emanuele Coccia, che insegna filosofia all’EHESS di Parigi. Presentiamo alcune pagine tratte dall’ultimo capitolo, pubblicate questa mattina nel sito http://www.leparoleelecose.it/.
La pubblicità è oggi ovunque: nessuno spazio ne è immune e nessun individuo può davvero sfuggirne. Essa è il discorso pubblico egemonico, che ha ereditato gli stilemi, le formule iconografiche e retoriche della comunicazione epigrafica della città antica. Ma là dove le steli, gli affreschi e le iscrizioni celebrano gli dei, i morti o la storia della Città, la morale a cielo aperto della città contemporanea ci parla del bene attraverso auto, telefoni, rasoi, vestiti, rasoi: oggetti di uso quotidiano, merci. Piuttosto che scorgerne la causa dell'alienazione capitalista, il libro invita a scorgere in questa immensa iconografia pubblica il sintomo di una sensibilità mutata, che si sforza di cogliere in tutte le cose l'ultima fonte morale dell'esistenza umana.
Emanuele Coccia
Il bene nelle cose. La pubblicità come discorso morale
Secondo una diagnosi diffusa e
largamente condivisa uno dei tratti specifici della tarda modernità è
l’aumento esponenziale di saperi di tipo riflessivo: le società attuali
avrebbero non solo prodotto e accumulato una quantità inedita di
conoscenze su se stesse, la propria storia, le forme della propria
felicità e il mondo circostante, ma hanno fatto dell’accumulo,
dell’amministrazione di questi stessi saperi tecnici, sociologici,
morali e scientifici, e della riflessione su di essi il mezzo della
propria costituzione e della propria differenziazione[1]. Non è anodino il fatto che nello spazio pubblico disegnato dai muri in pietra e dalle loro trasformazioni contemporanee (TV, tablets, smartphones)
lo sforzo di riflessività si concentri soprattutto su cose e merci :
quando la città contemporanea prende la parola lo fa per trasmettere
prevalentemente una certa conoscenza chiamata a rispecchiare e a
informare il comportamento degli attori sociali, quel sapere vernacolare
sulle cose e sulle merci (e indirettamente sulla vita buona) veicolato
dalla letteratura e dall’iconografia monumentale dedicata alle merci –la
pubblicità.
Si può spiegare e si è spiegata questa
apparente anomalia in modi diversi. Sociologi e filosofi vi hanno
giustamente riconosciuto l’invasione della logica mercantile nella sfera
pubblica, l’egemonia delle regole proprie del mondo economico anche
sulle forme della moralità, e l’autonomizzazione della razionalità
strumentale dal mondo della vita[2].
Si sono spesso sottolineati e, a giusto titolo, condannati gli eccessi e
le illusioni che la pubblicità alimenta e si sono denunciate le
patologie che essa genera. Senza negare queste derive mi sono voluto
concentrare sugli effetti sulla sensibilità etica e le trasformazioni
sull’universo morale di cui la pubblicità è in parte causa e soprattutto
sintomo. Dal punto di vista di una storia di lunga durata dei saperi
morali occidentali la pubblicità rappresenta in effetti un punto di
discontinuità significativo, quello in cui il discorso morale pubblico
si concentra prevalentemente non più sul rapporto tra l’uomo e la sfera
divina né sulla relazione che l’uomo intrattiene con sé e i propri
simili, ma sulle cose stesse, dipinte come prima e originaria
incarnazione del bene, e sulla relazione che l’uomo intrattiene con
esse. Non si tratta, ovviamente, di un fenomeno radicalmente nuovo:
la filosofia morale che riverberava dalle regole monastiche
tardo-antiche e medievali riconosceva una grande importanza alla misura
del rapporto alle cose e alla materia (il cibo, lo spazio, gli oggetti
di uso quotidiano) nella definizione della perfezione morale del monaco.
Il francescanesimo, da questo punto di vista, ha rappresentato uno dei
punti supremi di questo sforzo di portare al centro della riflessione
morale la questione del giusto rapporto alle cose (anche in termini
giuridici) al punto che si è potuto scorgere in esso un laboratorio
delle categorie economiche del nascente capitalismo[3].
D’altra parte il fenomeno del collezionismo, come si era accorto lo
stesso Benjamin, sembra anticipare e prefigurare molti dei tratti di
quell’ossessione morale per le cose che caratterizza il ‘consumismo’ contemporaneo[4].
Le profonde analogie non riescono però a
cancellare una differenza decisiva: anche qualora, come nel caso
francescano, questa preoccupazione aveva un peso rilevante, si è
trattato sempre di morali locali, presentate come opzioni elitarie,
rivolte a piccoli gruppi e non di un linguaggio morale pubblico
che si pensa in termini universalistici. L’ambizione universalistica
del discorso morale pubblicitario (che si rivolge per natura a qualunque
uomo, anche quando dipinge un suo interlocutore tipico) non si traduce
nella sua esclusività. Sarebbe ingenuo e ingiusto pensare che la
pubblicità rappresenti il solo e unico modello di etica
pubblica del nostro tempo: i discorsi e i registri morali che articolano
e guidano la vita contemporanea sono infiniti per numero e molto
eterogenei per forme e contenuto. Ma la centralità materiale e
discorsiva delle cose e delle cose in quanto merci nell’universo morale
contemporaneo resta, a mio parere, un’evidenza innegabile e non solo
nella pubblicità. Quando i nuovi moralisti invitano a un consumo
intelligente, ed esortano alla rinuncia di elettrodomestici, di beni
esotici o di merci particolarmente inquinanti o prodotte attraverso
forme di schiavitù si pongono nel medesimo universo morale di cui la
pubblicità è la forma paradigmatica, all’interno del quale è la
relazione alle cose a decidere la felicità e la perfezione morale
dell’uomo. Quando i nuovi movimenti politici pongono al centro delle
proprie preoccupazioni questioni ecologiche o ambientali riconoscono
implicitamente che l’oggetto principale dell’etica e il luogo di
esistenza del bene è la materia, o il mondo in quanto materia, e non
l’uomo o la divinità. È questo lo spostamento che mi è parso
interessante e inedito: un’enorme fetta di realtà che per secoli era
stata considerata moralmente adiafora, diventa l’oggetto privilegiato
della riflessione etica. Da questo punto di vista, come si è detto, la
pubblicità, una certa critica sociale e una buona parte delle filosofie
morali contemporanee sembrano appartenere a un medesimo orizzonte e
testimoniare di una medesima sensibilità morale. Se ho preferito
concentrarmi sulla pubblicità piuttosto che analizzare la totalità delle
manifestazioni di questa nuova moralità è non solo per il suo carattere
pervasivo e in qualche modo paradigmatico. La pubblicità è la forma
primordiale del nostro linguaggio morale, che ha anticipato le forme, i
registri, gli schemi della vita morale contemporanea: ha riconosciuto il
primato dell’iconico sul verbale; ha compreso la natura psicagogica
dell’esperienza morale e superato definitivamente il modello della
filosofia della prassi riconoscendo che la felicità non si produce
attraverso l’attuazione di uno schema pratico ma grazie all’elevazione
dell’individuo a un grado di esistenza superiore; ha compreso che non
c’è messaggio morale senza narrazione o mito.
Essa ha insomma colto molto più di altri
discorsi o teorie la sensibilità morale dell’uomo contemporaneo.
Ammetterlo non significa perorare la causa di un consumismo sfrenato né
benedire il gioco di invidie, egoismi e bassi affetti in cui essa spesso
indulge, ma riconoscere che l’universo morale in cui viviamo ha
cambiato forma rispetto a quello di cui ci danno testimonianza i testi
del passato. Cercare di capire la pubblicità come una forma specifica di
moralità diversa da quelle che l’hanno preceduta e liberarsi così dello
sguardo spesso esclusivamente accusatorio e in parte paranoico che la
filosofia politica e sociale gli ha consacrato non è l’espressione di
nichilismo ma di quell’atteggiamento, tipicamente moderno, che si è
spesso designato come realismo politico[5],
ma con un’importante differenza. Questa tradizione, che ha avuto in
temi recenti i suoi campioni (basti pensare a Bourdieu, Foucault o
Girard) si è da sempre caratterizzata per il coraggio e la forza di
guardare l’uomo nella sua totalità, accettando e includendo gli affetti
più tristi e le miserie dell’esistenza umana come parte integrante e
preponderante dell’antropologia. È arrivata spesso a riconoscere nel
male, nella forza e nella lotta di tutti contro tutti il movente
principale dell’esperienza morale. In questo libro, al contrario, ho
cercato di riconoscere dietro un fenomeno pervasivo e onnipresente che è
quasi esclusivamente descritto come produzione di un imprecisato Male
sociale in termini morali positivi, come fatto sorretto da una logica di
produzione, ricerca e jouissance di un bene specifico. Si potrebbe esprimere il senso di questa forma di “iperrealismo morale”[6]
riformulando un adagio dostoevskiano: là dove Dio non esiste tutto è
bene, e il male è solo l’effetto di un eccesso e di un’incompatibilità
di beni eterogenei. O, per usare una formula un po’ trita tratta dal
gergo della storia della filosofia si tratta di passare dal Kant
dell’imperativo categorico all’Hegel della filosofia del diritto:
sforzandosi di avere sul presente lo sguardo dell’antropologo si potrà
pensare l’ordine reale non come il risultato di un potere che opprime e
aliena ma come l’espressione di una libertà (e dunque di una moralità)
forse sgradevole ma non meno reale della nostra. Concepire gli uomini
non per quello che sono ma per come si vorrebbe che fossero, ha scritto
una volta Spinoza, significa scrivere una satira e non un’etica[7].
Riconoscere che la pubblicità ha lo
statuto e la dignità di un discorso morale pubblico, anche se è prodotto
in modo vernacolare, senza un disegno, un progetto globale, un intento
edificante comporta certamente una forma di desublimazione dell’universo
morale. Ma si potrebbe rispondere che la morale pubblica esposta sui
muri in altri contesti geografici e culturali non ha quasi mai avuto
tratti sublimi: la celebrazione di una battaglia di sterminio di un
popolo nei bassorilievi romani, il culto di divinità inesistenti nei
templi di civiltà passate o la glorificazione dei committenti negli
affreschi cristiani non è necessariamente più nobile e sublime che
l’invito a riconoscere in una borsa il segreto della nostra felicità.
Bisognerebbe imparare ad avere sulla morale, e su quella pubblica
contemporanea in particolar modo uno sguardo più indulgente e meno
paranoico di quello dei maestri del sospetto e assieme più rigoroso. Si
tratta, in fondo, di uno dei grandi insegnamenti dell’antropologia del
secolo scorso: proprio come le costruzioni mitiche anche le tecniche
materiali collettive, i miti e i discorsi pubblici attraverso cui gli
uomini cercano di darsi la felicità sono guidati da una logica più
vicina a quelle di un bricoleur che a quella di un filosofo.
[1] Oltre alla sociologia di Talcott Parsons cfr. Niklas Luhmann, Die Gesellschaft der Gesellschaft, 2 voll, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1998, e Id. Die Realität der Massenmedien, Verlag für Sozialwissenschaften Wiesbaden 2004, Jürgen Habermas, Teoria dell’agire comunicativo 2 voll. tr. it. Il Mulino Bologna 1997; Ulrich Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1986 ed. it., La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000; Scott Lash, Reflexive Modernization: The Aesthetic Dimension, in Theory, Culture & Society 10 (1993), pp. 1-23; Anthony Giddens, The consequences of Modernity, Cambridge, Cambridge University Press, 1994; Ulrich Beck, Anthony Giddens, Scott Lash, Reflexive Modernization. Politics, Tradition and Aesthetics in the Modern Social Order, Stanford University Press 1994
[2] Jürgen Habermas, Strukturwandel der Öffentlichkeit, cit. et Teoria dell’agire comunicativo, cit., Michael Walzer, Spheres of justice. A Defence of Pluralism and Equality, Basic Books, New York 1983, , tr. it. Sfere di giustizia Laterza, Roma Bari 2008.
[3] Cf. gli importantissimi lavori di Giacomo Todeschini, Ricchezza francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato,
Bologna Il Mulino 2004 e di Sylvain Piron « Les mouvements chrétiens de
pauvreté au Moyen Âge central », dans Dominique Bourg, Philippe Roch
(dir.), Sobriété volontaire : en quête de nouveaux modes de vie, Genève, Fides et labor, 2012, p. 49-73 e la sua importantissima edizione di Pierre de Jean Olivi, Traité des contrats, présentation, édition critique, traduction et commentaires, Paris, Les Belles-Lettres 2012,
[4] Walter Benjamin, Ich packe meine Bibliothek aus – Eine Rede über das Sammeln, in Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt am Main, Bd. IV, 1980, p. 388–396, e l’opera classica di Krzysztof Pomian, Collectionneurs, amateurs et curieux. Paris-Venise, XVIe-XVIIIe siècle, Gallimard, Paris 1987. Cfr. anche Susanne M. Pearce, Interpreting Objects and Collections, Routledge, London/NewYork 1994
[5] Cf. Pier Paolo Portinaro, Il realismo politico, Roma-Bari, Laterza 2002.
[6] Per una traduzione metafisica di questo principio cf. le riflessioni di Markus Gabriel, Il senso dell’esistenza. Per un nuovo realismo ontologico. Roma Carocci 2012, e Id., Warum es die Welt nicht gibt, Berlin Ullstein 2013.
[7] Baruch de Spinoza, Trattato Politico I, 1, trad. it. Spinoza, Tutte le opere,
Bompiani, Milano 2010, p. 1631: «I filosofi concepiscono gli affetti
che si dibattono in noi, come vizi nei quali gli uomini cadono per loro
colpa, sicchè sono soliti deriderli, compiangerli, biasimarli o (queli
che vogliono sembrare santi) detestarli del tutto. Così facendo, dunque,
credono di rendere un servizio a Dio e attingere il culmine della
sapienza, quando sanno lodare in mille modi una natura umana che non
esiste da nessuna parte, e maledire quella che esiste realmente.
Costoro, infatti, concepiscono gli uomini non per ciò che sono, ma per
come vorrebbero che fossero, sicchè quasi sempre hanno scritto una
satira invece che un’etica e non hanno mai concepito una politica che
fosse di qualche utilità, ma che è piuttosto una chimera o che potrebbe
funzionare in Utopia o in quel tempo aureo dei poeti, dove cioè non era
affatto necessaria. E quindi si crede che di tutte le scienze utili a
qualcosa, tanto grande è in politica il divario tra teoria e prassi che
nessuno sembra meno idoneo a governare uno Stato che i teorici, ossia i
filosofigli affetti».
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